Kruja, il bazar salvato dal regime

Sopravvissuto nei millenni, quasi scomparso a inizio Novecento e riportato in vita durante il regime, il bazar di Derexhik a Kruja, Albania, è oggi una boutique per turisti. Ma nonostante la perdita delle tradizioni, l’urbanizzazione selvaggia e la globalizzazione rampante la sua vera essenza continua a sopravvivere

24/11/2010, Marjola Rukaj -

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Il bazar di Kruja - foto di Marjola Rukaj

“Kruja è una città strana, raccolta tutta intorno al suo bazar”. E’ la frase che ricorre più spesso negli appunti di viaggio degli avventurieri occidentali del secolo scorso. Ancor oggi la città non manca mai nella lista delle località più visitate dell’Albania. Da tempo però la sua struttura urbana è mutata e il bazar si è notevolmente ridimensionato in un unico vicolo relativamente lungo che sopravvive al tempo soprattutto grazie all’attenzione delle autorità sia durante il regime di Enver Hoxha, sia dopo il suo crollo.

A soli 32 chilometri dalla capitale, la città è facilmente raggiungibile con i mezzi di trasporto locali. Si percorrono tratti delle nuove strade che collegano Tirana con il nord del Paese, inizialmente in pianura e in seguito salendo ripidi tra gli alberi. La città appare da lontano con il suo castello medievale e il museo di Skanderbeg, che venne costruito in sua memoria durante il regime di Enver Hoxha, 500 anni dopo la morte dell’eroe nazionale albanese. Skanderbeg era infatti di queste parti e Kruja ha rappresentato un punto strategico durante la resistenza anti-ottomana. Del castello di Skanderbeg rimane poco, ma il fatto che questo sia legato al mito dell’eroe che lottò per circa 25 anni contro i turchi ha fatto sì che la città ottenesse l’attenzione del potere sin dai primi anni ’60. E così il castello e il bazar ottomano che lo collega alla parte moderna e caotica della città sono entrati tra i luoghi del patrimonio storico più apprezzati del Paese.

Il bazar in particolare si rivela essere un vero spettacolo orientale, multicolore e stracolmo di merci di ogni genere. È la materializzazione del tipico mercato ottomano. Ma è solo una piccola parte di ciò che il mercato era una volta, quando i viaggiatori occidentali lo descrivevano affascinati come un pezzo di Istanbul a pochi chilometri dall’Adriatico. Agli inizi del ‘900 varie fonti testimoniano che il bazar di Kruja ospitava circa 150 negozi di vario tipo, tra artigiani e produttori di ogni merce necessaria alla vita cittadina. Gli abitanti lo chiamano il Bazar di Derexhik (Pazari i Derexhikut) – il bazar del piccolo torrente, in turco – a causa dei numerosi fiumiciattoli presenti nella regione, tanto che persino il nome della città secondo i linguisti più autorevoli deriva ugualmente dal termine krua che in albanese significa torrente.

Oggi il Bazar di Derexhik ospita solo una sessantina di negozi e la sua funzione è meramente turistica. Le agenzie turistiche offrono solitamente una breve sosta in città, combinando la visita con l’alloggio a Tirana. I turisti sono numerosi, i venditori sembrano soddisfatti e ottimisti.

“Devo ringraziare Enver Hoxha – dice Hysen, un lavoratore dello shajak, un materiale ottenuto dalla lana battuta con cui nella zona vengono prodotti vestiti invernali, scarpe, e il copricapo tradizionale bianco, il plis – è durante il regime che mi è stato detto di mollare tutto e di riprendere la tradizione della mia famiglia. Per generazioni la mia famiglia ha lavorato il shajak, ma durante la mia giovinezza il bazar era morto e io facevo il meccanico in un’officina statale. Poi, ad un certo punto, si è deciso di ricostruirlo e noi siamo ritornati alla tradizione di famiglia. I miei avi lavoravano due porte più in là”. A differenza di molte altre çarshije * albanesi, su cui i bulldozer hanno avuto la meglio in nome di una modernità all’insegna del cemento armato, Kruja è stata scelta come un campione di vita ottomana, da preservare, rivitalizzare e promuovere turisticamente e culturalmente. Il fatto che la città fosse legata al nome di Skanderbeg e la centralità di quest’ultimo nella storia albanese e nella mitologia nazional-comunista, ha naturalmente avuto un ruolo fondamentale nella scelta di non demolirlo.

Intorno al ’66 il regime di Hoxha ha intrapreso la ricostruzione della çarshija decaduta. Quest’ultima era allora ridotta a un vicolo infangato con un paio di negozietti che offrivano principalmente beni di prima necessità. Il regime di Hoxha ha messo all’opera il progetto di restaurazione dei negozi, e del kaldrem, lo strato di pietre che caratterizzava tutte le strade ottomane prima dell’arrivo dell’asfalto nei Balcani.

Ora la struttura architettonica sembra fedele a quella ottomana, nonostante qua e là sbuchino pezzi di mura in cemento, abusivismo tollerato che si iscrive nell’ondata che ha colpito l’intero territorio albanese negli ultimi anni. Molti artigiani sono stati formati dal regime per riuscire a continuare la tradizione di famiglia. Nelle çarshije in epoca ottomana i mestieri venivano ereditati. L’avvento del comunismo e il passaggio dal feudalesimo all’economia pianificata ha contribuito a far cadere in disuso tale tradizione. Le botteghe degli artigiani di Kruja vennero anch’esse statalizzate e si trasformarono in semplici banconi di vendita di quel che veniva prodotto nelle aziende artigianali statali. I figli degli artigiani, incentivati a seguire le tradizioni di famiglia, si sono trovati assunti nelle aziende statali che oggi sono rimaste al gergo cittadino come le Aziende Artistiche. Il fallimento e la privatizzazione delle aziende pubbliche nei primi anni ’90 non ha risparmiato neanche gli artigiani delle Artistiche, che ora si ritrovano tra le botteghe del Bazar di Derexhik, assunti, o in veste di piccoli imprenditori.

L’operazione di ricostruzione della tradizione risulta comunque difficile: è infatti quasi impossibile individuare un legame storico, formatosi di generazione in generazione, con il luogo dove gli artigiani ora producono e vendono i loro prodotti. In seguito al processo di privatizzazione le botteghe sono state vendute a privati e le modalità di questa transizione rimangono punti che in molti preferiscono sorvolare, spiegando di non essere stati i primi proprietari, ma di aver acquistato il negozio a privatizzazione ultimata, o semplicemente di essere assunti alle dipendenze di altri. Grazie ai numerosi turisti, con un piccolo negozio nel bazar si riesce a condurre una vita dignitosa nell’Albania di oggi.

Nonostante la crisi economica globale degli ultimi anni i turisti comprano i souvenir di Kruja. Il mercato offre numerosi prodotti tipici, tra cui i kilim, i costumi tradizionali ricamati ad arte, ornamenti di legno, ma sono numerose anche le merci di provenienza turca e cinese. Da questo punto di vista il mercato di Kruja non si distingue di molto dai negozi ordinari di souvenir. Negli ultimi anni però, con l’arrivo dei turisti, sta aumentando anche la consapevolezza che i souvenir globalizzati non sono un buon biglietto da visita. A volte si è anche ricorso a un compromesso, commissionando ai lavoratori in Cina prodotti tipicamente albanesi. Stupisce infatti vedere la bandiera albanese, o prodotti di legno con paesaggi albanesi che portano il marchio “made in China”.

Tra i souvenir non mancano i portacenere a forma di bunker, i portachiavi con la bandiera albanese e persino tazze con la foto del premier Berisha e del dittatore Enver Hoxha fianco a fianco. Sono questi i più venduti in tempi di crisi globale. I turisti stranieri, in gran maggioranza dell’ex blocco sovietico e dell’Europa del nord preferiscono comprare il cognac Skanderbeg. Tra i numerosi negozi si scorgono solo pochi artigiani. Ogni tanto si intravede qualche lavoratore dello shajak, sarte che cuciono i complessi costumi tradizionali e  tessitrici dei kilim dai motivi bianchi, rossi e neri. Tutta gente che ha più di cinquant’anni e che si ritiene l’ultima generazione che farà questo tipo di lavoro, laborioso e malpagato. “I giovani non hanno interesse, preferiscono lavorare in fabbrica tra le sostanze tossiche degli investitori stranieri” si sente dire. Però di tanto in tanto affermano che la domanda per i prodotti tradizionali è in aumento. “Negli ultimi anni c’è una crescente tendenza a indossare costumi tradizionali in occasione di matrimoni o festività varie. Per esempio le ragazze albanesi oggi preferiscono indossare almeno in uno dei giorni del matrimonio un vestito da sposa tradizionale. Anche nelle case private si trovano i kilim tradizionali e sono sempre più apprezzati”, afferma una ricamatrice all’entrata del bazar.

Le autorità locali sembrano meno pessimiste sulle difficoltà dei mestieri tradizionali e affermano di aver intenzione di istituire una scuola di formazione professionale in cui vengano insegnati i mestieri in via di estinzione, per non far perdere la tradizione e anche per dare un aspetto più autentico al bazar di Kruja. Il progetto potrebbe essere realizzato grazie a finanziamenti dell’Unione europea. L’istituzione di tale centro di formazione sarà cruciale per la città di Kruja, che oggi, come in passato, deve maggior parte delle sue risorse proprio al bazar.

I negozi, la merce esposta ovunque, i venditori gentili ma discreti fanno del Derexhik di Kruja una tappa obbligata se si vuole esplorare un pezzo di vita ottomana in salsa albanese. Ma anche questo bazar è immerso in un caos urbano che non lo distingue dal resto del Paese. “Questa città è ormai un villaggio di cemento”, denunciano molti cittadini, esprimendo il loro sconforto per l’esplosione edilizia che circonda il bazar. Palazzoni vengono costruiti uno sopra l’altro sfidando i criteri di ogni eventuale piano regolatore. Nonostante questo Kruja e il suo bazar rimangono un punto di forza del turismo culturale albanese che potrà essere valorizzato solo se si riuscirà ad affrontare le sfide della globalizzazione e dell’inurbamento selvaggio.

* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione ‘bchs’ (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull’Albania, l’ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.

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