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Kosovo tra reale e virtuale
E’ stato recentemente nominato facilitatore per l’Unione Europea nel nord del Kosovo. E’ l’ambasciatore italiano a Pristina Michael L. Giffoni. Lo abbiamo incontrato perché ci spiegasse il senso di questo nuovo incarico
Lei è stato recentemente nominato facilitatore dell’Unione Europea per il Kosovo settentrionale. Che cosa comporta esattamente questo ruolo?
Occorre precisare che non si tratta di una vera e propria nomina, bensì di un incarico ad personam voluto dal Consiglio UE data la mia personale conoscenza dei Balcani occidentali e dei meccanismi comunitari. Il tutto è stato reso possibile da uno scambio di lettere avvenuto tra l’Alto Rappresentante per la PESC Solana e il governo italiano, decisione ratificata dal Comitato Politico e di Sicurezza dell’UE a fine ottobre dello scorso anno.
L’obiettivo è quello di accrescere la visibilità e la credibilità dell’UE nel nord del paese, dove attualmente è difficile operare a livello politico senza tenere conto della complessità del contesto. Tale complessità della situazione politico-istituzionale a nord dell’Ibar è dovuta principalmente al fatto che la comunità serba non si riconosce nelle istituzioni della Repubblica del Kosovo, di cui tuttavia geograficamente ed istituzionalmente fa parte. Ma è anche uno degli elementi principali della complessità generale, ed in un certo senso paradossale, del Kosovo attuale, caratterizzato dalla compresenza di più livelli di realtà e virtualità.
Da un lato ci sono le istituzioni della Repubblica del Kosovo, riconosciute da parte della comunità internazionale con un processo di consolidamento decisamente avviato che consente loro di esercitare una sovranità sul territorio sostanzialmente piena, anche se incompleta per alcuni aspetti. Tali aspetti di incompletezza sono legati alla Risoluzione 1244, formalmente ancora vigente in Kosovo, ma presente si potrebbe dire in maniera virtuale, perché non più in linea con la situazione reale sul terreno. Allo stesso tempo, parte della comunità serba, in proporzione decisamente schiacciante nel Nord ma non più preponderante nelle enclaves nel resto del paese, non si sente parte di tale contesto istituzionale statale.
Sono almeno tre livelli di realtà (e virtualità) che bisogna cercare di rendere sempre più vicini e contigui per poterci avvicinare ad una soluzione senza conflittualità: questo penso sia il compito della comunità internazionale, ed in particolare dell’Unione Europea.
Come valuta la posizione della popolazione serba del Kosovo a quasi due anni dalla dichiarazione d’indipendenza delle autorità di Pristina?
Esiste una frattura sempre più estesa all’interno della comunità serba tra chi vive a nord e chi a sud dell’Ibar. Quest’ultima componente della popolazione serba sta gradualmente decidendo di prendere parte alla vita civile del paese e fruisce già di diversi servizi, più a livello municipale che statale. La cospicua partecipazione dei serbi alle ultime elezioni amministrative kosovare ne è la prova. I serbi delle "enclaves" hanno seguito un percorso in parte autonomo in questi anni rispetto a quanto successo al nord. Ovviamente si tratta solo di un inizio di integrazione, ma qualcosa si muove.
Per la popolazione serba residente al nord, questo processo risulta più difficile per una serie di aspetti direi di natura strutturale, in primo luogo la contiguità territoriale con la Serbia e la compattezza della loro presenza sul territorio. Ma ciò non significa che a nord non si possa intraprendere un cammino di integrazione almeno a livello amministrativo, se ciò risponde a quelle che sono le esigenze primarie della comunità serba stessa. Del resto, i serbi del nord hanno prestato nell’ultimo periodo una crescente attenzione a quello che sta succedendo nelle comunità serbe residenti a sud di Mitrovica ed alle motivazioni che sottendono alla loro partecipazione alle elezioni.
Quali sono i primi passi che intende compiere in questa sua nuova veste?
La priorità è quella di presentare la visione che l’Unione Europea ha del Kosovo anche nella parte settentrionale del paese, dal momento che ne è parte integrante. Al momento l’UE ha scarsa visibilità al nord e questo conduce all’erronea credenza che non esista una politica europea per tale area. A breve verrà aperta una "EU-House" a Mitrovica nord. Nell’immediato questa struttura servirà a dare un segno tangibile della presenza e della vicinanza europea alla popolazione. Nel lungo periodo nutriamo la speranza che essa possa diventare una sede permanente dell’UE nel nord del paese.
Ovviamente non si tratterà di un intervento mirante solo ad accrescere la visibilità dell’UE. Si cercherà anche di colmare il gap di comunicabilità che divide serbi ed albanesi cercando di trovare soluzioni condivise a problematiche di vita quotidiana comuni a entrambi i gruppi. E per farlo si farà ricorso alla massima flessibilità ("soft powers") e alla depoliticizzazione delle tematiche che di volta in volta verranno affrontate.
Si tratta di uno sforzo che solamente l’UE, in quanto soggetto politico, è in grado di sostenere. Le autorità di Pristina, infatti, non sono per nulla accettate al nord, come oramai la missione UNMIK non lo è nel resto del paese. E’ solo risolvendo i problemi di tutti i giorni che si acquista credibilità presso la popolazione.
Può fare alcuni esempi di problemi con i quali la gente si scontra quotidianamente e che intende affrontare?
I problemi che la gente del nord affronta sono tanti e di diversa natura. Ritengo tuttavia che siano prioritari la ricostruzione delle abitazioni per gli sfollati e i rifugiati, la questione della proprietà della terra e degli immobili e l’approvvigionamento di energia elettrica.
Prendiamo ad esempio quest’ultimo aspetto. Come pensa di muoversi per arrivare a una soluzione utile a entrambe le parti?
Di per sé la soluzione al problema è semplice dal momento che la rete elettrica è già integrata. Occorre far funzionare in maniera completa un sistema che possa essere accettato da tutti, non dimenticando che stiamo parlando di un servizio essenziale. Questo è possibile solo se il problema viene depoliticizzato da un lato e, dall’altro lato, non viene considerato come una pura questione commerciale. Se la si considera solo come una questione politica, Belgrado si sente in diritto di imporre ai cittadini serbi del nord del Kosovo di non pagare per il servizio che ricevono, che deriva da un sistema che non riconosce. Se invece si affronta il problema dal punto di vista commerciale, è la KEK che ovviamente pretende un’uniformità nella concessione dei servizi e nella riscossione dei pagamenti.
E’ necessario interrompere questo circolo vizioso attraverso il ricorso a una soluzione tecnica nel breve periodo e la ricerca di un accordo più ampio nel lungo periodo. Una via di uscita potrebbe essere il raggiungimento di un "armistizio tecnico" che difenda, da un lato, l’integralità della rete elettrica e garantisca, dall’altro, la fornitura di energia alla comunità serba. Più nel lungo periodo, un’idea perseguibile potrebbe essere quella, ad esempio, di delegare a dei subcontractors la gestione dei servizi di approvvigionamento elettrico nel nord del paese (che dipenderebbero formalmente dalla KEK ma senza un coinvolgimento diretto).
Nei mesi scorsi, probabilmente a causa delle difficoltà incontrate da EULEX nel dispiegarsi e nel controllo del nord del paese, sembra aver ripreso piede anche in ambienti diplomatici europei ed americani l’ipotesi della partizione. Qual è la posizione dell’Italia sulla questione?
In realtà nessun governo occidentale ha mai dichiarato sino ad oggi il suo sostegno all’ipotesi di partizione del territorio della Repubblica del Kosovo. Lei forse si riferisce ad opinioni singole di alcuni diplomatici o esperti di politica internazionale, ma mai delle posizioni ufficiali.
Su questo punto sono intervenuto varie volte e non mancherò mai di ripetere la mia profonda convinzione, che mi sembra in linea con quella della maggior parte degli attori coinvolti e dei semplici osservatori delle complesse questioni balcaniche. Se concordiamo sul fatto che l’obiettivo fondamentale sia quello di stabilizzare i Balcani occidentali, anche attraverso il loro avvicinamento a Bruxelles, l’ipotesi di una partizione o di uno scambio di territori tra Kosovo e Serbia non può essere nemmeno presa in considerazione. La partizione non è una soluzione. Mettendo di nuovo mano ai confini, infatti, si creerebbe solamente una escalation di rivendicazioni e potenziali tensioni a livello regionale difficilmente ricomponibile.
La partizione non risolverebbe il problema, ma ne genererebbe di nuovi perché verrebbe rimessa nuovamente al centro la questione dei confini, rendendola ancora più acuta e importante invece di marginalizzarla come la logica dell’integrazione vorrebbe.
Ritengo, inoltre, che la partizione non soddisfi nemmeno la Serbia, per la quale la soluzione del problema kosovaro non può coincidere con l’annessione di una striscia di terra. A Belgrado dovrebbe interessare unicamente il benessere ed il progresso delle comunità serbe del Kosovo. E la stessa cosa dicasi per i serbi di Bosnia, o per gli albanesi della Macedonia, e così via.
Nella recente Conferenza Internazionale di Roma sul Kosovo, organizzata dal coordinamento delle ong italiane operanti nella regione, un accademico kosovaro ha sottolineato come l’Italia, da un lato, sia presente ai massimi livelli in Kosovo sin dal ’99 attraverso il suo personale impegnato nelle diverse missioni internazionali (UNMIK, KFOR, EULEX, ecc.) e, dall’altro, non sia capace di fare sistema. Che cosa pensa di questa affermazione?
Non credo che sia un problema solo italiano. Ad ogni modo, mi sembra che spesso si usi un po’ troppo superficialmente e genericamente questa espressione "fare sistema", senza specificarne bene l’ambito di applicazione. Se tale ambito non è una competizione sportiva, ma la presenza nel quadro internazionale con l’obiettivo fondamentale di garantire la coerenza tra i principi di fondo che ispirano la propria azione e gli strumenti e gli attori con i quali tale azione si esercita, allora non mi pare che l’Italia qui in Kosovo non abbia fatto sistema, anzi è vero proprio il contrario.
Mi sembra che sia la rilevante presenza all’interno delle organizzazioni internazionali (politiche, militari e di "rule of law") sia gli interventi bilaterali o multilaterali di cooperazione ed assistenza siano coerenti e ben coordinati in loco e lavoriamo tutti per continuare a migliorare e rendere più efficiente questo quadro di coerenza.
Volendo tracciare un bilancio del suo primo anno in Kosovo, quali sono a suo avviso i principali risultati ottenuti?
Sul piano bilaterale il risultato di maggior rilievo è dato senza dubbio dal consolidamento della presenza e della posizione dell’Italia come paese che offre uno dei contributi più significativi al processo di rafforzamento e consolidamento istituzionale, economico e sociale del Kosovo. A questo proposito è da notare come elemento positivo non solo l’incremento della presenza imprenditoriale italiana nel paese, ma anche di soggetti italiani di ogni tipologia (enti, imprese, ONG) che partecipano alle gare d’appalto indette dall’UE. Si sono intensificate inoltre anche le relazioni istituzionali tra i due paesi. In sintesi il bilancio delle relazioni bilaterali tra i due paesi è da considerarsi più che positivo.
Inoltre, un risultato di rilievo è costituito dal fatto che gran parte del nostro contributo per il consolidamento della Repubblica del Kosovo (quasi tredici milioni di euro promessi alla Conferenza dei Donatori del luglio 2008) sia stato già erogato o sia in fase di erogazione, in tre settori prioritari: agricoltura, sanità, tutela del patrimonio artistico e culturale.
Mi preme comunque sottolineare che l’impegno italiano per il Kosovo si inquadra in quello per la regione balcanica nel suo complesso. Si tratta di una visione più ampia non composta da interventi sporadici, ma da una strategia precisa che vede nell’integrazione europea dei Balcani occidentali il suo punto di arrivo. L’incarico che mi è stato assegnato per il nord del Kosovo è anche un segno della credibilità che il nostro paese si è guadagnato in ambito europeo per quanto riguarda l’azione nella regione balcanica.