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Kosovo: “Occorre depoliticizzare l’università”
Per formare le nuove generazioni che assicureranno poi il futuro del Kosovo occorre riformare profondamente le università del paese. È questo che ripete in continuazione il professor Arben Hajrullahu. Un’intervista
(Prodotto e pubblicato originariamente da Kosovo 2.0. È stato qui tradotto e pubblicato su loro permesso)
Nel sud-est Europa le università devono tutte affrontare sfide simili: qualità non eccellente degli insegnamenti, fuga di cervelli e influenza del mondo politico. Per contribuire a “rifondare” gli studi superiori nei Balcani, Kosovo 2.0 ha intervistato alcuni tra gli intellettuali più influenti della regione, tra cui Arben Hajrullahu, professore presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pristina (UP), dove insegna dal 2006. Titolare di un dottorato presso l’Università di Vienna, Arben Hajrullahu è uno delle prime persone del Kosovo ad essere stato definito un “whistleblower”. Ma lui non si considera tale, ma piuttosto come “un professore che tenta di adempiere ai suoi obblighi universitari”. Nel 2017 aveva denunciato che la sua mancata promozione in seno all’Università di Pristina era conseguenza delle critiche da lui mosse sul funzionamento dell’università stessa.
Quali sono le sue impressioni sul mondo universitario del Kosovo?
Sono numerosi gli scandali che mi hanno inseguito da quando lavoro in questa università. Senza parlare di chi era alla base di questi scandali, la cosa preoccupante è la mancanza di volontà tra i professori di contestare questi atti tutt’altro che irreprensibili. Alcune nomine in seno all’università sono semplicemente scandalose. Sulle mille persone di cui è composto il personale dell’Università di Pristina solo qualcuno ha il coraggio di dar seguito ai propri obblighi intellettuali e ad esprimersi in pubblico. Quindi il problema non sono solo coloro i quali frodano, ma anche quelli che preferiscono rimanere in silenzio. Il sistema funziona in modo tale che se si risponde ai propri obblighi intellettuali e professionali e ci si esprime a favore dell’interesse pubblico su questioni relative all’università o al sistema educativo, si rischiano guai seri.
Negli anni seguiti al 1999 in seno all’università è cresciuto un sistema clientelare ad alta tossicità, come del resto si è sviluppato nel mondo della politica. In questo sistema vi sono legioni pronte a manipolare ed il silenzio viene pagato con promozioni o denaro. Ogni avanzamento di carriera è legato all’essere membro di un partito. Ed è molto difficile rompere questo circolo vizioso unicamente con forze interne all’università. I ricercatori dovrebbero farsi forza del proprio senso critico piuttosto di flirtare con la politica. Siamo in trappola e dobbiamo mobilitare la società nel suo complesso, le persone con capacità intellettuali e buona volontà. Dobbiamo mobilitare i decisori politici per "liberare" il sistema universitario e l’intero sistema educativo.
Nel novembre 2015 l’istituto Democracy for Development (D4D) ha pubblicato un rapporto che sottolineava come l’Università di Pristina dovesse rispondere a nove grandi sfide tra cui la mancanza di personale qualificato, la politicizzazione delle organizzazioni studentesche, promozioni immeritate, ecc. Dove siamo quattro anni dopo questa pubblicazione?
Temo che potrebbero passarne quattro, otto o quaranta anni prima di fare qualche passo significativo se non vi è il desiderio di cambiare le cose. Non possiamo sperare in un miracolo e dobbiamo iniziare dalle basi. Tutti i professori di tutti i dipartimenti dell’Università dovrebbero essere supervisionati. E non solo a Pristina, ma anche nelle università pubbliche di tutto il Kosovo e in tutte le facoltà private. Dobbiamo determinare se vi sono conflitti di interesse nell’etica e nell’integrità accademica e, in tal caso, determinare la gravità di queste violazioni.
Alcuni insegnanti sono colpevoli di plagio. Alcuni addirittura hanno ottenuto così dei dottorati e successivamente hanno ottenuto posizioni importanti. Dobbiamo studiare il background di tutti gli insegnanti attuali e possibilmente chiudere alcuni dipartimenti universitari, se non funzionano. È meglio farne a meno e concentrarsi sul formare studenti di qualità.
Gli studenti arrivano all’età di 25 o 30 anni rendendosi conto di non avere competenze e si trovano ad affrontare il mercato del lavoro. Dopo sei o otto anni di studio, non sono più disponibili a fare lavori che richiedono bassi livelli di qualifica. È come se una spina fosse piantata nel cuore della nostra società. E gli insegnanti che fanno superare gli esami agli studenti senza valutarli adeguatamente sono responsabili di questo disastro e delle sue conseguenze, come l’esodo nel 2015 di decine di migliaia di cittadini del Kosovo.
Si è spesso detto che l’apertura di università a Prizren, Pëja o Mitrovica rappresentava un tentativo di "comprare" la pace sociale. Oggi, che tre di queste università hanno visto le proprie licenze sospese per il periodo di un anno, come spiega la loro creazione?
Non si possono aprire università durante le campagne elettorali. Ma ora dobbiamo vedere cosa possiamo fare. È troppo facile dire che queste strutture vanno chiuse. Al contrario a mio avviso dobbiamo guardare a come migliorare il loro livello. Queste sospensioni sono un duro colpo per il sistema universitario del Kosovo, ma sono il risultato di politiche a breve termine, politiche che creano università senza finanziarle. Se i politici rispettassero le promesse delle loro campagne elettorali aumenterebbero le capacità delle strutture esistenti e il numero di insegnanti. Sarebbe stato necessario combinare l’istruzione accademica e la formazione professionale. Non è un’idea rivoluzionaria, molti paesi occidentali l’hanno fatto prima di noi.
Non sto dicendo che i professori non possano essere coinvolti in politica, ma abbiamo casi in cui alcuni hanno sospeso la loro carriera accademica per quindici anni per fare qualcos’altro. Negli Stati Uniti, se un insegnante decide di seguire un percorso diverso dall’insegnamento, mantiene la sua posizione per quattro o sei anni, ma deve poi decidere. Anche il nostro paese soffre di fuga di cervelli. E i principali colpevoli della bancarotta nel mondo universitario sono quelli che mandano i propri figli a studiare all’estero.
Alcune università private sono diventate attori importanti del sistema educativo del Kosovo. Come valutate il loro livello?
Nei paesi sviluppati gli istituti privati che chiedono rette ingenti garantiscono solitamente un insegnamento di qualità superiore alle università pubbliche. Non è il caso del Kosovo. È un indicatore del fatto che abbiano venduto lauree senza alcun criterio. In Occidente alcune istituzioni private sono gestite come fondazioni e lo scopo non è quello di fare soldi. Qui siamo molto distanti da questo modello. Nel nostro paese funzionano come un chiosco che vende kebab: se avete soldi ottenete tutto quello che volete. Anche i professori di queste università dovrebbero essere valutati.
Durante l’ultima campagna elettorale alcuni politici hanno spiegato che il problema principale delle università del Kosovo è la mancanza di professori adeguatamente qualificati. Anche lei ha sollevato quest’aspetto. Quali le soluzioni possibili?
Abbiamo le risorse sufficienti perlomeno per avviare questo processo. Il primo passo è un’ispezione generale. La seconda tappa invece implica avere più tempo, e riguarda la formazione di nuovi professori e l’avvio di ciò che si definisce “la circolazione dei cervelli”. A Pristina ho avuto studenti che poi sono diventati professori presso alcune università europee. Alcuni vorrebbero collaborare con le istituzioni del Kosovo. Da noi si pensa che chi ha studiato all’estero non desidera certo rientrare e che chi rientra è chi ha fallito all’estero. Non dico che chi ha studiato fuori sia più competente di chi ha studiato qui in Kosovo, ma che qui siamo in pochi e che non possiamo permetterci il lusso di agire in modo irresponsabile nei confronti di chi ha studiato in università europee.
La guerra è finita da vent’anni e il Kosovo potrebbe entrare nella fase storica in cui, a seguito dei negoziati con la Serbia, si trova un accordo finale. Quale il ruolo del mondo accademico in questo processo?
Vent’anni, può darsi che i grandi cambiamenti arrivano in questo paese ogni dieci anni. La repressione degli anni ’90, la presenza internazionale negli anni 2000, poi un decennio di ruberie dei beni pubblici… Ma forse le cose possono cambiare? L’università potrebbe contribuire con competenze in determinati campi, per esempio nell’ambito giuridico. Ma per farlo vi è bisogno della volontà politica perché occorre essere in due per danzare. L’università può fornire consulenze, ma su basi scientifiche, non per fare dei piaceri al politico di turno.
Lavorate da anni all’università di Pristina. Avete individuato alcuni miglioramenti?
Vi sono sicuramente molti sviluppi positivi e sarebbe in effetti ingiusto non sottolinearli. Dopo la sua completa distruzione l’Università di Pristina si è presto rimessa in piedi. Sono stati ristrutturati gli edifici e le condizioni materiali vanno sempre meglio. Io sono arrivato all’Università di Pristina nel 2004 e sono rimasto. Oggi la qualità degli insegnanti è migliore che in passato, senza ombra di dubbio. L’adozione di un sistema digitale di voto ha limitato le possibili manipolazioni. Io ho vissuto in prima persona ad esempio il caso di una mia studentessa che aveva falsificato alcuni suoi voti, ma alcuni professori la lasciavano fare perché aveva dei legami politici.
Occorre che l’Università di Pristina raggiunga il livello delle università europee, ma per far questo serve più trasparenza nella gestione del budget e dobbiamo modernizzare i nostri metodi di insegnamento.
Vi è anche poca ricerca. Negli anni ’70 le pubblicazioni scientifiche erano molto più numerose. Questo ha però anche un aspetto positivo: obbliga i nostri studenti a pubblicare all’estero, quindi basandosi esclusivamente sul merito personale, senza ottenere sostegno dall’università di origine. La situazione, di sicuro, non è mai tutta nera o tutta bianca.