Kosovo: noi siamo ‘noi’
Un Kosovo che emerge con tutta la sua ricchezza culturale e sociale. L’energia dei giovani, gli studenti di Pristina, le confraternite religiose di Gjakove/Dakovica, la minoranza serba. Al contempo emerge in tutte le sue drammatiche divisioni. Un reportage
Sei anni dopo il bombardamento NATO contro l’allora Federazione jugoslava e a un anno dalle violente manifestazioni contro serbi e rom del marzo 2004 il Kosovo è multietnico solo nei discorsi dei colletti bianchi della comunità internazionale.
La multietnicità non si vede, non si percepisce. Al contrario la divisione secondo linee etniche è onnipresente. In particolare serbi ed albanesi nella Provincia amministrata dalle Nazioni Unite vivono in due mondi separati. A partire dai menu dei ristoranti. Nelle enclaves serbe abbondano di rakia, grappa locale, mentre in città come Prizren e Pristina, abitate in grande maggioranza da albanesi, si trova sui menu solo whiskey e vodka. Poi la rakia la si può ordinare, ma nei menu è una bevanda troppo identificata con la comunità serba, e quindi assente.
L’energia albanese a favore dell’indipendenza
Nelle città e nei villaggi del Kosovo si percepisce immediatamente una forte energia, vitalità e molte risorse umane. La comunità albanese ha ricostruito le proprie case e nei mesi di marzo ed aprile si sono celebrati, come ogni anno, gli eroi dell’UCK, esercito di liberazione del Kosovo, sacrificatisi contro l’esercito e le milizie di Milosevic. Celebrazioni che assomigliano in modo marcato a quelle dedicate, nella Jugoslavia socialista, agli eroi partigiani.
Niente di nuovo a Pristina. La frase "Il Kosovo deve essere indipendente" è ancora onnipresente, il poster di Bill Clinton pende ancora all’inizio della via principale e cartine della "Grande Albania" possono ancora essere comperate per strada.
Clima simile si respira all’Università di Pristina. Ogni volta che mi ritrovo a parlare con alcuni studenti mi trovo spaesata notando un’evidente ideologia di autoreferenzialità che tende a vedere tutti i vicini – non solo i serbi ma anche macedoni e montenegrini – con antipatia solo perché slavi.
Una novità, a dire il vero l’ho trovata. Un atteggiamento diverso, e non positivo, anche nei confronti dei greci. In Università incontro tre studenti "Fatos Nano e Veton Surroi non ci piacciono proprio, sono filo-greci" affermano "devono difendere il territorio albanese della Chameria (nord della Grecia) ma non lo fanno!". Gli stessi studenti mi confermano che una strisciante greco-fobia sta emergendo tra i giovani kosovari che comunque si dichiarano convinti che prima o poi tutti i territori popolati da albanesi verranno unificati. E la Bulgaria? Chiedo io. "Oooo, mah, ci interessa solo uno sbocco sul Mar Nero", scherzano.
Mentre i progetti degli studenti sono francamente lontani dalle prospettive reali i politici del Kosovo continuano a ripetere, come mantra, i ritornelli suggeriti dalla comunità internazionale. L’unica differenza? Che sul tema dell’indipendenza del Kosovo sono inflessibili.
Skender Hyseni, consigliere del Presidente del Kosovo Rugova, si dice ottimista ed afferma che "entro un anno il Kosovo sarà uno stato indipendente". "Una volta che il Kosovo sarà pienamente indipendente cercheremo di instaurare rapporti con gli Stati vicini sul modello Schengen", spiega. Ma prima che questo accada è secondo Hyseni necessario che "l’indipendenza del Kosovo venga riconosciuta formalmente, anche se il Kosovo è nei fatti indipendente ha infatti necessità che questo venga riconosciuto anche formalmente".
Secondo Hyseni entro cinque anni i kosovari potranno recarsi a Belgrado senza passaporto e lo stesso potrà accadere per i serbi che vogliano recarsi in Kosovo. Secca risposta invece in merito alla possibilità che il Kosovo divenga un protettorato dell’Unione europea: "Non abbiamo bisogno di rimpiazzare un protettorato con un altro. Anche se il nostro futuro è in Europa e vogliamo entrare nell’Unione il prima possibile. E’ benvenuta anche una presenza europea sul nostro territorio, un suo ruolo di monitoraggio … vogliamo raggiungere tutti gli standard richiesti per entrare nella grande famiglia di Bruxelles. Ma non penso ci sia più necessità di un protettorato …".
Skender Hyseni esclude poi qualsiasi idea di partizione del Kosovo. Crede infatti che rischierebbe di far esplodere nuovamente la violenza, come accaduto in altre parti dei Balcani. "Il Kosovo ha i suoi confini, gli stessi che aveva nell’ex Yugoslavia, e questi devono rimanere gli stessi".
Le ricette che enumera per migliorare lo status ed il rispetto dei diritti fondamentali della comunità serba e delle altre minoranze – ad esempio Ashkali e Gorani – sono semplici. "La leadership del Kosovo si è impegnata a rendere possibile il ritorno di ciascuno nelle proprie case. Naturalmente non possiamo garantire super-condizioni visto che la situazione è difficile anche per la maggioranza della popolazione e l’economia è bloccata. Creeremo comunque buone condizioni per tutti. Sfortunatamente Belgrado non è di molto aiuto. Invece di incoraggiare la comunità serba ad integrarsi in Kosovo li invita a non partecipare, a boicottare le istituzioni. Questo non aiuta molto, innanzitutto i serbi del Kosovo. Questi ultimi hanno un loro stato in Kosovo e dovrebbero partecipare, dovrebbero sentirsi partner del processo. Tutto può essere risolto in seno alle istituzioni. Niente boicottandole".
Bujar Bukoshi: la mafia al potere
Ho incontrato Bujar Bukoshi, l’ex primo ministro del governo in Kosovo in esilio, nel Grand Hotel a Pristina. Attualmente è il leader del Nuovo Partito del Kosovo, senza alcun rappresentante in Parlamento. "Non sono in grado di garantire la mia stessa incolumità! Ho ricevuto molteplici minacce ed una volta uscito dall’hotel qualcuno potrebbe uccidermi. E’ difficile dire ai serbi che possono rientrare in Kosovo e vivere una vita normale!". Secondo Bujar Bukoshi la comunità internazionale è naive sperando che serbi ed albanesi si bacino ogni mattina. "I civili serbi che non hanno commesso alcun crimine possono rientrare in Kosovo ma al momento il tasso di disoccupazione supera il 70% ed i serbi entreranno in queste percentuali, non avranno privilegi in merito", ha affermato Bukoshi.
Quest’ultimo è tra i più feroci critici dell’élite politica del Kosovo. "L’attuale politica è scontro. Gli attuali amministratori sono preoccupati di come arricchirsi, di come avere potere e soldi. Vi è una degenerazione degli ideali. Vi sono strutture mafiose che impregnano le alte sfere politiche. Dopo la guerra il partito di Hashim Taqi e l’AAK erano i partiti più mafiosi, ma attualmente l’LDK, la Lega Democratica del Kosovo, è doppiamente più mafiosa".
La febbre del sabato sera a Prizren
Prizren continua a mantenere l’atmosfera suggestiva data dal suo centro storico d’impronta ottomana. Molte delle case serbe sono però bruciate e nessuno gira liberamente in città. In centro i caffè, a pochi metri dal filo spinato che circonda la chiesa ortodossa bruciata nelle proteste del marzo 2004. Incontro alcuni giovani, seduti ai tavolini del Pasha café, al fianco della chiesa. Qual è il nome della chiesa ortodossa? Nessuna risposta.
A causa di una corrente elettrica che continua a mancare la sera non ci sono discoteche o night club ma a Prizren si respira una vera e propria febbre da sabato sera. Tanta gente e centinaia di ragazze e ragazzi che passeggiano lungo la via pedonale Prizrenska Bistrica, che costeggia il torrente che attraversa la città. I giovani emanano un’energia incredibile. Ma purtroppo il destino della maggior parte di loro è la disoccupazione. Circa 30.000 entrano ogni anno nel mercato del lavoro dove si scontrano con un tasso di disoccupazione del 55%. Allora non resta che sopravvivere grazie alle rimesse che arrivano dai parenti all’estero.
Kemal ha sessant’anni, indossa un copricapo bianco, tipico della tradizione albanese. "Il nome del torrente che attraversa Prizren è Ljumbardi, non Bistrica" mi dice. Kemal, circa 30 anni fa, è emigrato negli Stati Uniti, poi è tornato ed ora è proprietario di un ristorante di cucina italiana. Durante la nostra conversazione si rivolge ad un suo cameriere: "Portami una bottiglia d’acqua di quella imbottigliata in Kosovo, non in Serbia". Gli chiedo se è felice della sua situazione. "Contento proprio no, anche se me la cavo abbastanza bene. Sarò del tutto soddisfatto quando il Kosovo raggiungerà l’indipendenza".
Confraternite
Baba Mumin Lama, capo spirituale della confraternita sufi dei Bektasi, siede nella stanza degli ospiti del convento (tekke) di Gjakove/Dakovica. Non mi ha potuto accogliere nella stanza del culto perché quest’ultima è andata bruciata nel 1999. Alle sue spalle un poster di Yll Morina, soldato dell’UCK. "Era un Bektasi ed è morto per la libertà del Kosovo".
Un uomo dalla corporatura robusta entra nella stanza. E’ il comandante locale del TMK, la protezione civile kosovara che da alcuni è percepita come il nucleo di un futuro esercito. E’ anche lui un Bektasi. "Ho combattuto contro i serbi per due anni durante la guerra", afferma il comandante che in passato era ufficiale dell’esercito yugoslavo e che proprio a Belgrado ha ricevuto la propria formazione militare.
Il convento Bektasi di Gjakove/Dakovica ha ospitato per due anni, durante il sistema scolastico parallelo degli anni ’90, scolari albanesi. Poi il ’98 e ’99, anni nei quali la confraternita è diventata oggetto di repressione. "Avevamo altri 4 edifici, ma sono stati bruciati durante la guerra" ricorda il Baba. "La Serbia voleva distruggere la cultura albanese" continua il comandante del TMK "proprio non capisco come mai i soldati serbi abbiano deciso di distruggere i 1400 volumi custoditi da secoli nella nostra biblioteca".
I Bektasi fanno parte dell’ordine dei Tarikats (dervisci) assieme ad altri sette gruppi: Kadri, Havleti, Nakshipendi, Rufai, Saadi e Shazeli. Sono tutti gruppi molto attivi nella vita sociale e politica della città. "Non vi sono dati certi sul numero di Bektasi in città. Certo non siamo in molti e se ci riuniamo ci stiamo in una sola grande stanza", afferma il Baba Lama. "Abbiamo buone relazioni con gli altri e visitiamo spesso gli Imam".
Le enclaves serbe
La vita della comunità serba dopo gli scontri del marzo 2004 è segnata da fatiche, frustrazione e mancanza di prospettive. A volte si incontrano storie di rifugiati che hanno dovuto abbandonare il Kosovo due volte: la prima nel 1999 e poi in seguito alle violenze di marzo. I serbi del Kosovo continuano inoltre a boicottare le istituzioni provvisorie del Kosovo e procedono con le proprie istituzioni parallele.
Ho cercato di andare a vedere dove fossero finiti i serbi obbligati nella primavera del 2004 ad abbandonare Kosovo Polje e che avevo incontrato l’estate successiva in un centro collettivo di Gracanica, a 5 chilometri da Pristina. Adesso 70-80 di loro vivono in containers. Nessuno è rientrato nelle proprie case.
Gracanica è un’enclave serba. Non vi vive alcun albanese e vi è situato uno dei monasteri principali della Provincia oltre alla sede del Centro di coordinamento per il Kosovo, istituzione creata dalle autorità di Belgrado per gestire la situazione dei serbi del Kosovo. Si respira un’atmosfera di forte disagio. "Questa è la calma prima della tempesta, la calma prima che il Kosovo divenga indipendente", afferma Dragan, 30 anni, commesso in un negozio.
Molti dei serbi di Gracanica hanno già comperato case in Serbia e si dichiarano pronti a partire immediatamente nel caso gli albanesi, che chiamano tutti con il termine peggiorativo "shiptari", ottengano l’indipendenza.
Mile e Nada, rifugiati per due volte
Pochi dei serbi attualmente residenti a Gracanica vi sono effettivamente nati. La maggioranza infatti è originaria di altre parti del Kosovo. Mile e Nada sono fratello e sorella, sulla cinquantina. Hanno vissuto in una piccola stanza nella facoltà di filosofia per più di un anno. Prima del 1999 avevano una piccola fattoria a Vucitrn, centro-nord del Kosovo, bruciata dagli albanesi. Poi si sono spostati in un centro collettivo di Kosovo Polje. "Eravamo come in un campo di concentramento, per cinque anni".
Il 17 marzo 2004 Mile e Nada sono stati obbligati a fuggire per la seconda volta. Alle 11 della sera un poliziotto albanese ha bussato alla loro porta dicendo loro di andarsene perché la folla furiosa si stava avvicinando e rischiavano la loro vita. Nada e Mila, dopo aver passato una notte con altre 200 persone riparati all’interno della stazione di polizia, hanno dovuto nuovamente andarsene e questa volta sono finiti a Gracanica. "Non ci sappiamo ancora spiegare come mai UNMIK e KFOR non siano stati in grado di difenderci", affermano. "L’unica possibilità che ci resta? Andarcene in Serbia, gli albanesi hanno raggiunto il loro obiettivo".
Mitrovica Nord, boicottaggio ed istituzioni parallele
Smilza Milisavlevic, ingegnere ed ex parlamentare nell’Asseblea del Kosovo, è membro del Partito dell’alternativa democratica. E’ drastica descrivendo la situazione a Mitrovica: "Non so come saremmo riusciti a sopravvivere senza le strutture parallele garantite dalla Serbia. Chiediamo il diritto dei nostri figli ad essere educati nella nostra madrelingua e cultura".
Le autorità serbe pagano ai funzionari dell’amministrazione parallela stipendi sul livello di quelli corrisposti a Belgrado aumentati di un 50%, il tutto si aggira sui 200 euro mensili, una cifra relativamente alta. Ma il problema è che sono in molti ad essere disoccupati e che non esiste alcuna assistenza sociale, solo aiuti umanitari. Le pensioni di anzianità sono di 30 euro al mese. E questo significa miseria.
Anche Tzveta Vujicic è stata parlamentare presso l’Assemblea del Kosovo. E’ laureata in medicina e prima della guerra lavorava a Pristina. Ora lavora presso una clinica Mitrovica Nord. Commenta un aumento drastico di forme tumorali. "Vi sono molti pazienti con varie forme di stress" racconta "a volte mi chiedo se almeno il 10% della gente che abita qui sia normale. Ho già preparato i miei documenti, se accade nuovamente qualcosa di simile al 17 marzo me ne vado da qui".
A suo avviso gli albanesi del Kosovo non se la cavano molto meglio. "A volte ingannano le case grandi in cui abitano. Ma i materiali da costruzione sono poco costosi e la manodopera ancora meno. Ma spesso sono case vuote, molti sono disoccupati. Vi è uno strato di popolazione molto ricca, ma la maggioranza vive con difficoltà".
Sia Smilza che Tzveta ritengono sia necessario un programma di assistenza per gli strati della comunità più disagiati. "La maggior parte delle persone nei villaggi-enclaves sono in una forte crisi economica. Basti pensare alla corrente elettrica: ogni mese ogni famiglia deve sborsare circa 50 euro e molti si trovano indebitati con la compagnia elettrica di 4-5.000 euro. Come fanno i disoccupati ad avere questi soldi? Lo Stato serbo deve perlomeno negoziare il pagamento delle bollette in arretrato".
Smilka poi spiega perché i serbi del Kosovo abbiano deciso di boicottare le istituzioni del Kosovo. "Il 17 marzo è stato realizzato un vero e proprio pogrom. Era impossibile organizzare elezioni pochi mesi dopo. La comunità internazionale ci dice che gli albanesi sono frustrati ma anche noi lo siamo e per questo abbiamo boicottato le elezioni. Perché la comunità internazionale spiega tutto con la frustrazione albanese? Se gli internazionali ci abbandonano possono anche preparare le nostre bare". Ma nessun ottimismo? "Ma siamo ottimiste, siamo qui, non ce ne siamo andate. Nel caso si realizzasse un vero decentramento amministrativo, vera autonomia, potremo stare qui a vivere".
Siamo "Noi"
Zhupa è una regione montagnosa nei pressi di Prizren. Vi abita una piccola comunità non-albanese, slavi convertiti all’Islam durante il periodo dell’Impero ottomano. Si identificano completamente con il posto in
cui vivono. Definiscono la loro lingua "la nostra" – è un misto di lingue slave e turco – ed anche la loro comunità non ha un nome particolare se non "noi". Sono 12 i villaggi situati in questa regione.
L’occupazione tradizionale degli uomini è l’edilizia. Per secoli i capofamiglia sono partiti per lavorare all’estero. E le abilità di questa comunità si notano fin da subito in un paesaggio molto curato.
Al ristorante Fuki, nel villaggio di Recane, la televisione è sintonizzata sul canale Planeta TV, che trasmette tutto il giorno chalga, musica tradizionale bulgara reinterpretata in chiave dance. "Vengono anche molti albanesi in questo ristorante" mi dicono dei clienti "se al posto del chalga si trasmettesse turbo folk serbo il proprietario avrebbe parecchi problemi".
A 5 chilomteri da Recane vi è uno dei villaggi principali della regione, Ljubinska Bistrica. Qui è come se il tempo si fosse fermato e gli abitanti vivessero del tutto isolati dal resto del Kosovo. Le donne del posto sono alte ed hanno i capi coperti di fazzoletti. Non vogliono essere fotografate. Che lingua parlate? "La nostra".
Xhavit Redzhepi è insegnante in una scuola locale e si è occupato dell’identità della propria comunità. Iniziamo con un viaggio nei suffissi dei cognomi: "Negli anni ’20 tutti i cognomi sono stati bulgarizzati con i suffissi -ov e -ova, poi dopo il 1947 siamo diventati serbi con il suffisso -ic e recentemente siamo diventati albanesi con il suffisso -i. Le minoranze rischiano sempre di essere manipolate". A suo avviso la regione di Zhupa iniziò ad essere abitata attorno al III – IV secolo d.c. "Siamo arrivati qui prima degli albanesi e prima dei serbi. Spesso non lo si vuole accettare", racconta aggiungendo poi che a suo avviso i propri antenati si erano convertiti all’Islam attorno al 14mo secolo. Xhavit si è anche recato sino ad Istanbul, per ricercare ulteriori informazioni relative alla propria comunità negli archivi che raccolgono i documenti dell’Impero Ottomano. Trovandone però solo scritti in un vecchio alfabeto ottomano che solo gli studiosi di quell’epoca sono capaci di leggere.
Ma anche se questa regione è "isolata" dal resto del Kosovo, ne condivide uno dei problemi principali: la disoccupazione cronica. Gli unici lavori sono quelli legati all’amministrazione. Un insegnante prende 150 euro al mese, un poliziotto 235, un medico 250. Più di metà della popolazione lavora poi in Svizzera, Germania, Italia e Svezia.
Seifo vive in uno dei villaggi della regione. Si prende cura della grande casa di famiglia. Ha due fratelli, uno lavora in Svizzera e l’altro in Germania. "Viviamo di rimesse dall’estero. Qui in paese funzionano solo le scuole e la polizia, poi si coltiva qualcosa nell’orto", racconta.
Le montagne sulle quali vive questa comunità hanno costituito per secoli una barriera naturale ed hanno preservato le tradizioni e la lingua di questa piccola comunità. Che ora però si percepisce sotto pressione, soprattutto perché, in un’eventuale Kosovo indipendente, si sentirebbe a disagio non parlando l’albanese. Quale sarà il loro destino? Preserveranno "i nostri" la loro identità o si dovranno adeguare alla modernità delle loro nuove patrie, in Kosovo ed all’estero?