Kosovo: l’ora della diplomazia

Continua la crisi la nord del Kosovo. I serbi restano sulle barricate, mentre il governo di Pristina non rinuncia a voler assumere il controllo dei punti di passaggio di Jarinje e Brnjak, i cosiddetti gates 1 e 31. Isotta Galloni ha incontrato a Leposavić il negoziatore del governo serbo Borko Stefanović

26/09/2011, Isotta Galloni - Leposavić

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Sulle barricate © Livio Senigalliesi

I gates 1 e 31 "sono un’altra cosa". Il Nord serbo è un altra cosa, rispetto al Kosovo albanese e, complice la nuova crisi in corso, Belgrado si dice pronta a sdoganare questa realtà di fatto presso le cancellerie internazionali. "Stiamo dicendo quello che tutti in Europa sanno, ma che nessuno in questo momento dice", è l’assunto da cui parte Borislav Stefanović, capo del team negoziale di Belgrado nel dialogo con Pristina, intervistato da Osservatorio Balcani e Caucaso a Leposavić. Qui, come negli altri comuni del Nord del Kosovo, proseguono ormai da oltre una settimana le proteste della comunità serba contro il dispiegamento da parte del governo di Pristina di propri poliziotti e doganieri presso i due valichi di frontiera di Jarinje (gate 1) e Brnjak (gate 31), siti nei territori rimasti fedeli a Belgrado.

Qual è la situazione sul terreno, per quanto ancora le proteste si manterranno pacifiche?

La situazione è ancora tesa, la gente si aspetta che venga trovata una soluzione. I blocchi stradali sono stati rafforzati e le persone sono determinate a rimanere pacifiche e difendere i loro legittimi interessi. Non possono accettare azioni unilaterali di Pristina che, sfortunatamente, sono state adottate in coordinamento con Eulex. E, sfortunatamente, Eulex, assistendo a questa operazione è andata oltre il suo mandato di neutralità.

Lei parla di azioni unilaterali, secondo Pristina, invece, si tratta dell’applicazione dell’accordo che avete raggiunto il 2 settembre a Bruxelles, sul riconoscimento reciproco dei timbri doganali e relativa rimozione dell’embargo incrociato.

Il 2 settembre, a Bruxelles, ci siamo accordati nel delineare timbri e documentazione doganale che fossero accettabili per entrambe le parti, ma questo non ha nulla a che vedere con la situazione nel Nord. Per gli altri gates in Kosovo non c’è problema, poiché sono certo che, grazie a questa intesa, le cose andranno molto positivamente ed arriveremo presto ad un normale flusso di merci. Ma non c’è stata discussione circa i gates 1 e 31 e l’attuale applicazione dell’accordo è frutto di una loro interpretazione alla quale siamo fortemente contrari. Tengo a ribadirlo: i gates 1 e 31 sono differenti, sono specifici e abbiamo bisogno di avere là un regime differente.

Che tipo di regime? Qual è la proposta che avete presentato all’Unione europea?

Speriamo nella possibilità che l’Ue risponda alla nostra iniziativa per trovare una via d’uscita a questa situazione, per trovare il regime appropriato per i due gates. Come ho già detto, sono differenti dagli altri in Kosovo, in quanto sono stati concepiti per essere differenti dal piano in sei punti di Ban Ki-moon, che è stato adottato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La decisione del Consiglio di Sicurezza è che i gates 1 e 31 dovrebbero essere gestiti da funzionari doganali internazionali e che i proventi dovrebbero essere assegnati alla comunità locale. Per questo, noi crediamo fortemente che l’azione compiuta da Pristina è simbolica, e serve al governo di Hashim Thaci a guadagnare punti politici, ma non rappresenta assolutamente nulla di sostanziale.

Come pensate di procedere, quali strumenti intendete adottare per portare avanti la vostra iniziativa?

Continuiamo con qualcosa che desideriamo fortemente: il dialogo. Vogliamo continuare il dialogo con Pristina, abbiamo bisogno di risolvere i problemi, ma questo non è il modo:  con una parte che adotta azioni unilaterali e dice "questa è la nuova realtà, accettatela". Questo è un segnale molto negativo per i Balcani, un segnale negativo per noi. E’ un messaggio pericoloso perché dice: siete autorizzati a compiere passi unilaterali, poiché ciò aiuta a rafforzare la vostra posizione. Questa è la definizione di una crisi potenziale che può scoppiarci in faccia, abbiamo bisogno di evitare in ogni modo questo scenario.

Quindi il governo di Belgrado è determinato a trovare una soluzione pacifica della crisi? Crede di poter escludere ipotesi di nuove violenze?

Noi rappresentanti del governo serbo siamo qui per aiutare la comunità locale a mantenere la pace, a mantenere il coordinamento, ad isolare ogni elemento estremista che, certamente, è presente. La sola cosa che conta sono i cittadini ed è comune interesse che estremisti e criminali – e ve ne sono diversi, lo devo dire – vengano isolati: è esattamente quello che vuole la gente. Il 98% della gente qui è pacifica, sono lavoratori che non vogliono lasciare le loro case. Sono molto spaventati perché sanno cosa è successo in altre aree serbe del  Kosovo, dopo l’instaurazione delle istituzioni di Pristina: a loro questo non piace perché è uno scenario di corruzione e criminalità.

Le persone qui sono determinate a difendere i loro legittimi interessi, a rimanere calme e pacifiche. Ma, come avete visto, questa situazione non può durare a lungo e siamo piuttosto sicuri che il solo modo per uscirne è trovare un accordo, siamo pronti a trovarlo, a negoziare in ogni posto e ovunque.

Ma per Pristina la questione dei gates è chiusa.

Borko Stefanović

Borko Stefanović

Stiamo aspettando un’iniziativa dell’UE, del cosiddetto Quintetto (gruppo di 5 paesi supervisori dell’indipendenza del Kosovo, Italia inclusa) di Kfor, per negoziare.

Abbiamo paura del silenzio, della politica del fare niente di alcune capitali, al fine di rafforzare azioni unilaterali di Pristina: alcuni credono che questo sia il modo giusto di sostenere il Kosovo indipendente, il modo giusto, dicono, di finirla con il Nord.

Io penso che questo sia il modo sbagliato, che alimenta il confronto, le tensioni, le violenze. Pertanto, non ritengo che vi sarà rimozione dei blocchi stradali, nessuna pace e stabilità, senza accordo sul tavolo. Dobbiamo tornare al processo, non riusciamo a capire questa ostinazione e questa posizione veramente distruttiva di Pristina: loro non vogliono parlare con noi perché credono che questo è il loro Paese. Ma anche noi crediamo che questo è il nostro Paese.

Quindi siete più che mai determinati a difendere gli interessi della comunità serba del Nord del Kosovo, anche in questa fase delicata del vostro processo di integrazione nell’UE. Non temete ripercussioni negative in tal senso?

Il Nord è il nodo chiave della questione Kosovo e noi siamo pronti a scioglierlo nel modo giusto, poiché il nostro obiettivo strategico è aderire all’Unione europea: sappiamo che falliremo nella difesa dei nostri legittimi interessi in Kosovo se ci isoliamo dal sogno europeo. Questo è il motivo per cui dobbiamo trovare la forza di continuare con l’integrazione europea: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per proseguire e rispettare i nostri obblighi di cooperazione con il Tribunale dell’Aja.

Dobbiamo fare qualunque cosa per evitare che la Serbia si trovi sotto ricatto politico riguardo al Kosovo. Certamente, siamo consapevoli della realtà, ma capiamo anche che l’Europa adesso è sulla nostra strada: stiamo guardando l’Europa negli occhi e la stiamo aspettando. Il modo c’è, ma ci serve una chance per emergere da questo processo, per raggiungere risultati congiunti sul Nord e risolvere, finalmente, il problema del Kosovo prima di entrare nell’Unione europea, perché noi non vogliamo importare il problema del Kosovo nell’Ue.

Come intendete affrontare il prossimo round negoziale con Pristina a Bruxelles?

Sfortunatamente, questa situazione indesiderata influenza la continuazione del dialogo con Pristina, siamo pienamente determinati a continuare il dialogo. Ma è molto difficile guardare al prossimo round di negoziati a Bruxelles, e parlare di telecomunicazioni ed elettricità, quando abbiamo questa crisi. Quindi o raggiungiamo un accordo sui gates prima del prossimo incontro, o lo teniamo riservato a risolvere la questione.

Questa sfortunata situazione ci sta obbligando a mettere la questione in agenda. Non deve essere una modalità formale, non dobbiamo parlare in un modo tale per cui anche Pristina si trova a tornare a casa in una cattiva posizione: noi capiamo loro e i loro problemi politici. Ma poiché a loro piace chiamare in causa la realtà, anche questa è realtà. Politicamente parlando non puoi far sparire 1,6 milioni di albanesi che non vogliono vivere con i serbi: la realtà è che loro non vogliono vivere in Serbia. Ma la realtà è anche che in serbi del Kosovo non vogliono vivere in qualcosa chiamato Kosovo indipendente. Quindi, ora non è tempo per grandi storie e grande chiacchiere, è tempo per un duro lavoro diplomatico.

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