Kosovo: le dicerie ed il grande esodo
Da novembre il Kosovo ha vissuto una nuova ondata emigratoria. E molti sembrano siano stati spinti a partire da voci infondate. La disperazione e l’illusione in questo reportage
(Articolo pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 7 aprile 2015, tit.orig."Rumors and Kosovo’s Big Exodus")
Il sogno europeo
Là è un altro mondo. Le città ed i loro edifici a più piani non finiscono mai. La gente guida belle macchine ed ha case fantastiche. E’ come essere in paradiso. Ognuno ha un lavoro e nessuno ha problemi con gli altri. Lavorano tutti, si costruiscono una vita ed anche chi non ha un lavoro sta bene. I campi sono pieni di frutti e di verdura che noi non abbiamo mai visto né abbiamo sentito parlare. Quando non hai soldi abbastanza, vai in banca, ne chiedi, te ne danno e poi non devi più restituirlo. Le ragazze sono carine e non ti dicono mai di no. E’ proprio un paradiso in terra qui. Vi sono mari infiniti e fiumi blu in ciascuna città. I negozi si chiamano “supermercati” perché il cibo che vi vendono è super. Il miele è più dolce del nostro e la neve sulle loro montagne ha il gusto di gelato. I loro cani non morsicano mai e le loro zanzare non pungono; tutt’altro, leccano. Lasciano le loro porte di casa aperte giorno e notte; nessuno ruba niente perché tutti hanno tutto. Laggiù non solo le galline depongono le uova, ma anche i galli. Tutto la è pieno di gioia. Là tutto è pavimentato e ricoperto d’oro. Là è come un bel sogno che si desidera duri per sempre.
(dal dramma teatrale “Peer Gynt del Kosovo” di Jeton Neziraj)
La campanella scolastica entra nell’ufficio di Bashkim Bytyqi come lo sfregolio di un sacchetto vuoto di patatine. Le tende sono chiuse. Su uno scaffale, tre trofei di trionfi scolastici nel ping pong, scacchi e tornei di calcio. Sulla sua scrivania, vicina ad una piccola bandiera della Repubblica del Kosovo, vi è una bobina di Tesla grande come un tostapane. Bytyqi, il robusto preside cinquantenne della scuola Mirash, gira la manovella per produrre la scarica elettrica blu tra i trasmettitori della bobina.
“Attenti, non toccate”, ci dice “rischiate una scossa”. Poi è lui stesso a toccare la bobina, a ritirare la mano rapidamente e a ridersela come un bambino, beccato a tirar la coda al gatto.
Dallo scorso novembre sono 20 gli scolari ad aver lasciato la scuola. Se ne sono andati coi loro genitori, a cercare asilo in Europa occidentale. In totale 80 delle 1700 persone residenti nel paese hanno raccolto le loro cose e sono partite per Germania, Austria, Svizzera e Belgio. Per ora, alla fine di marzo, dieci di loro sono già rientrate.
“Sono depressi, sanno d’aver giocato d’azzardo con il destino” racconta Bytyqi, che dal 2007 al 2014 è stato sindaco di Mirash ed è anche insegnante di storia. “E’ triste e doloroso vedere che così tanta gente ha lasciato il nostro villaggio. La maggior parte di loro aveva un lavoro, con uno stipendio medio considerando gli standard del Kosovo. Ad oggi non riesco a trovare i motivi della decisione di andarsene”.
Il think tank con sede a Pristina GAP stima che circa 120,000 cittadini kosovari hanno lasciato il paese dalla fine del 2014. I media l’hanno chiamato “Il grande esodo”. Un editorialista del quotidiano locale Koha Ditore mi ha detto che quest’ondata migratoria sarebbe partita proprio da Mirash.
“Vi sono dicerie secondo le quali tre ragazzi sono stati beccati mentre rubavano in un appartamento. Per evitare l’arresto sono fuggiti in Germania ed hanno tenuto aggiornati gli amici tramite Facebook, dicendo loro che se la stavano passando molto bene e raccontando dei ricchi sussidi tedeschi. I loro amici sarebbero quindi partiti a loro volta e la voce si è poi diffusa anche ad altri comuni”.
Bytyqi nel suo ufficio ci serve caffè turco. Raccoglie poi le mani e ci racconta l’angoscia caduta sul villaggio: “Negli scorsi decenni circa 400 persone sono emigrate legalmente. E poi vi è un ragazzo che vive da un po’ in Germania. Ha fatto sapere che ora è garantita libertà di movimento. In 24 ore altri dieci sono partiti. La voce si è propagata in altri villaggi e si è trasformata in una sorta di euforia. All’inizio partivano solo i giovani. Poi si sono incamminate intere famiglie”.
Bytyqi indossa un completo nero, cravatta blu e porta il proprio nome su un distintivo. Tutti, nel villaggio, lo conoscono. E’ stato un politico “da sempre”. E’ particolarmente rattristato perché alcuni di quelli che sono partiti erano beneficiari di una fondazione lussemburghese che negli ultimi 4 anni ha investito 500.000 euro a Mirash. Con quei soldi sono stati anche rinnovati i mobili della scuola e allestito un centro sanitario. Sono state fornite inoltre a varie famiglie 60 grandi serre per la coltivazione di verdura da vendere sul mercato locale, che sono attualmente uno degli unici mezzi produttori di reddito della zona.
Mirash è costituita principalmente da case ad un piano di mattoni rossi, distribuite lungo la strada piena di buchi come perline lungo un filo. Il tasso di disoccupazione è del 40%, che è il 30% sotto la media effettiva del Kosovo.
Bytyqi racconta che uno dei “figli perduti” del villaggio, Valmir Murati, è rientrato pochi giorni prima e immediatamente ha trovato lavoro in un’azienda agricola. Fa una rapida telefonata e mi affretto ad incontrare il ragazzo. Venti minuti dopo siamo sotto una tettoia in legno nel mezzo di sette ettari di meli e piantagioni di fragole. Valmir, in pausa pranzo, siede al fianco del suo ex insegnante, Bytyqi.
Parla solo quando gli viene posta una domanda e con risposte di una sola frase. I suoi occhi verdi guardano mentre mi parla a qualcosa di indefinito, alle mie spalle. Ha solo 19 anni, ma sembra più vecchio “a causa del lavoro fisico” spiega Bytyqi, dandogli una paterna pacca sulla spalla.
Valmir è partito per la Germania lo scorso novembre, in cerca di una vita migliore. “Volevo un futuro stabile, godere di un certo progresso, volevo una macchina”, mi racconta. Aveva voglia di lavorare, con qualsiasi occupazione. Aveva sentito di un amico, che conosceva qualcuno, che conosceva qualcun altro che diceva che per gli stranieri era facile trovare un’occupazione. Così, con la benedizione della sua famiglia, ha raccolto le sue cose ed è partito. Le voci erano sufficienti per lui e per altri amici del posto per decidere di partire. “La mia ultima sera qui sono passati degli amici a salutare. Non ho fatto gran pubblicità delle mie intenzioni”, racconta.
Il primo di novembre si sono recati alla stazione degli autobus di Pristina ed hanno preso un autobus per Belgrado. Pensava che sarebbero stati fermati dalla polizia in Serbia ed invece è avvenuto in Ungheria. “Ci hanno tenuti in custodia per 24 ore, poi ci hanno restituito i soldi e ci hanno dato questa carta e ci hanno chiesto di andare a Szeged, dove vi è un campo per i rifugiati. Non ci siamo andati, siamo andati alla stazione dei treni”.
Da Budapest hanno preso un treno per Monaco e poi per Stoccarda. Lì si sono recati alla polizia per chiedere asilo. Lì è dove è stato separato dal suo amico perché Valmir è stato portato in un campo a Karlsruhe il suo compagno in uno a 300 chilometri di distanza. Valmir infila le mani nelle tasche della sua camicia rossa, s’appoggia al tavolo e descrive il posto: “La situazione era pericolosa nel campo improvvisato con container, c’erano accoltellamenti ed uccisioni ogni giorno”. Lui è stato vicino al gruppo pacifico degli albanesi ed ha evitato ogni problema.
Ogni mattina, alle 7, si alzava ed andava in cerca di un lavoro. Con le carte provvisorie che gli erano state consegnate dalle autorità tedesche andava di porta in porta nei villaggi e cittadine vicine sino alle 7 di sera. Poi di ritorno al campo, per continuare il giorno seguente.
Quando gli ho chiesto della reazione della gente ha alzato le spalle. “Alcuni ci prendevano in giro, la maggior parte erano invece amichevoli ma ci dicevano che non potevano assumere persone senza regolare permesso di lavoro”. Ciononostante ha continuato a bussar porte per quattro mesi e mezzo. Ora è convinto che è impossibile trovare lavoro in un altro paese a meno che tu non abbia lì conoscenze o parenti.
Così, verso al fine di marzo, si è stufato di attendere una risposta delle autorità. In particolare perché a tutti i suoi amici che avevano ottenuto risposta l’asilo era stato negato. Ha allora chiesto in prestito 80 euro ai parenti ed ha comperato il biglietto aereo di ritorno. Di solito sono le autorità tedesche ad occuparsi del costo di rientro, ma lui lo ha fatto volontariamente. In tutto l’avventura gli è costata 580 euro.
Valmir nasconde la testa tra le spalle e lancia uno sguardo a Bytyqi, come se cercasse sostegno. Il suo ex insegnante gioca in modo assente con le chiavi della macchina e con un bottone rotto della sua giacca. Poi il ragazzo dice, come per scusarsi: “Sono stato il primo a partire ma non ho mai detto a nessuno di seguirmi. Ho raccontato a tutti quanto ho sofferto là”.
Di ritorno a Pristina incontro un uomo che mi è stato presentato come “l’autista”, nonostante ufficialmente sia il direttore di un’organizzazione umanitaria nazionale che si occupa di rifugiati, Balkan Sunflowers . Il suo nome è Muhamet Arifi, ha 42 anni, spalle larghe e capelli corvini. Finisce ogni sua frase con “Si?” e ti obbliga così a rispondere di rimando sempre “Si”. Mi porta a Plementina, un villaggio di 1400 persone, a sei chilometri dalla capitale.
Arifi ha prestato a suo fratello 1500 euro per lasciare il paese, cosa non molto coerente con il suo lavoro. “Innanzitutto vi è il diritto di ciascun essere vivente di andare nel posto dove desidera vivere. E chi può criticare chi parte data la situazione in cui versa il Kosovo?”, Afferma Arifi mentre ci dirigiamo verso Plementina.
Anche questo villaggio ha subito un’ondata di emigrazione, anche se non è comparabile col caso di Mirash. Le strade sono letteralmente coperte con milioni di pezzi di plastica. Nell’aria l’odore acro di rifiuti bruciati. I bambini razzolano tra i container di immondizia. Altri giocano su un’altalena improvvisata di stracci legata ai pali della corrente elettrica. Altri girano per le strade del villaggio su biciclette autoprodotte. Sembra la versione triste di un film di Wes Anderson.
Circa 400 persone appartenenti alle comunità rom, ashkali ed egiziani sono stati sistemati a Plementina dopo la guerra del 1999. La maggior parte di loro abita in due edifici costruiti nel 2005 vicino ai binari della ferrovia. Su quasi ogni balcone vi sono vestiti ad asciugare al sole.
Sopra di loro una delle peggiori fonti di inquinamento in Europa: due centrali a carbone che esalano coltri di fumo marrone. Secondo l’Unhcr il rischio di ammalarsi di tumore qui è del 30% superiore rispetto al resto del Kosovo.
Il fratello di Arifi, con la moglie e i quattro figli, è fuggito in Germania la scorsa estate. “Ha richiesto asilo anche se è consapevole che probabilmente non l’otterrà. Ma nel frattempo riceve circa 1500 euro di sussidi al mese. Pensate a quanti soldi riesce a risparmiare, anche dopo le spese. Non potrebbe guadagnarlo qui in una vita intera. Cercherà di rimanere il più a lungo possibile. Non è comprensibile?”. Mi guarda dallo specchietto posteriore e fa una pausa sino a quando io non do un segno di assenso. Dice che gli dispiace solo per i nipoti, che perderanno un anno si scuola.
Arifi poi mi chiede di scendere dalla macchina, una Opel familiare nuova, perché altrimenti sarebbe troppo difficile salire sino al giardino della sede del Centro di formazione di Plemetina, dove la sua organizzazione lavora sull’inclusione sociale dei gruppi emarginati.
Di nuovo a Pristina Bashkim Ibishi, che guida la ong KAAD (Kosovo Agency for Advocacy and Development) mi dice: “Di fatto il ‘Grande esodo’ non è iniziato a novembre. Quello è stato il momento in cui gli albanesi hanno iniziato ad andarsene in massa. Ma rom, ashkali e egiziani hanno iniziato ad andarsene prima, a partire dal giugno scorso”. Secondo i dati in suo possesso 2867 membri delle tre minoranze del Kosovo se ne sono andati negli ultimi 8 mesi, una cifra che corrisponde all’8% di loro.
Vivono segregati sia da parte della comunità albanese che da quella serba. Le loro comunità soffrono di un tasso di disoccupazione del 99%, anche secondo le stime ufficiali. La legislazione kosovara contempla tra i più forti diritti per le minoranze in Europa. “Ma esistono solo sulla carta”, commenta Ibishi. “Di solito non hanno accesso equo a sanità, educazione, mondo del lavoro”. Nel giugno scorso Bashkim Ibishi ha allertato il governo sull’improvvisa onda di emigrazione. Ha inviato anche comunicati stampa ai media, ma nessuno ha reagito.
Non tutti si stanno giocando le proprie possibilità in modo così razionale come sta facendo il fratello di Arifi. Una delle voci girate che ha fatto partire in molti – racconta Ibishi – è che in Germania vi fosse un numero di concessioni di asilo garantito. Nello specifico si diceva che in Germania vi fosse una legge in cui si affermava che vi dovessero essere un certo numero di rifugiati “neri” ed un certo numero di rifugiati “bianchi”. E dato che vi erano così tanti “africani e arabi” che si erano mossi verso la Germania recentemente, ora avevano bisogno di rifugiati “bianchi”, come gli albanesi, per bilanciare la situazione.
Un altro pettegolezzo che mi ha riportato un giornalista di K-TV è che il Canada era disposto ad accogliere i kosovari che erano arrivati sino in Germania: questo perché avrebbero bisogno di forza lavoro ma non hanno sufficienti rifugiati che arrivano fino a lì, così avrebbero chiesto alle autorità tedesche di passare loro i kosovari che non avevano ottenuto l’asilo.
Altra voce girata: la società tedesca ha bisogno di sangue fresco. L’età media è troppo alta e la gente non ha più figli. Presto asili e scuole saranno vuoti. Ecco perché garantiscono asilo ai giovani kosovari.
La popolazione del Kosovo, in effetti è la più giovane d’Europa. Uno studio realizzato dal FES mostra come il 55% della popolazione è sotto i trent’anni. E la stessa percentuale esprime il desiderio di emigrare.
La situazione ricorda in parte le grandi ondate migratorie avvenute dall’est Europa durante le carestie del 19mo e dei primi anni del 20mo secolo. Allora intere famiglie s’ammassarono sulle navi ed attraversarono l’oceano, spinti dalla speranza della terra promessa. A quei tempi erano gli Stati uniti. Ora è l’Unione europea, che però è più chiusa. Solo allo 0.3 percento dei kosovari emigrati in Germania è stato concesso il diritto di asilo, hanno reso noto le autorità tedesche.
Tornando a Mirash il direttore Bytyqi, alla guida di una Mercedes E 190, rossa, di almeno trent’anni, mi porta in una stanza del villaggio adibita alle feste. E’ una stanza di 70 metri quadri, sopra il supermercato. Assomiglia agli uffici di un garage ma è dotata di calcetto, tavolo da ping pong, tavolo da biliardo, freccette e televisore. C’è anche un piccolo bar, ma senza bottiglie. "Qui tutte le età si incontrano in armonia", afferma Bytyqi, sedendosi ad un tavolo vicino ad una finestra, con una bellissima vista sul cimitero e sulle montagne.
Bytyqi è orgoglioso di quello che chiama il centro sociale. I momenti più felici sono d’estate, quando tutti gli emigrati fanno ritorno a Mirazh. “Allora questa stanza è sempre piena”, racconta e si perde nei suoi pensieri, per poi sobbalzare al suono del proprio cellulare. La soneria è Roadhouse Blues .