Kosovo: estremismo religioso in crescita
Un’ampia operazione anti-t[]ismo in Kosovo ha rimesso il fenomeno dell’estremismo religioso al centro del dibattito. E se la radicalizzazione è un fenomeno in crescita, le istituzioni di Pristina promettono di agire per arginarla
La diffusione di t[]ismo e radicalismo religioso e il coinvolgimento di albanesi kosovari nei conflitti in corso in Siria e Iraq ha mobilitato la missione NATO in Kosovo, oltre alle forze di sicurezza nazionali. Il comandante italiano delle truppe di peacekeeping in Kosovo, il Maggiore generale Salvatore Farin, in seguito ad una ondata di arresti di sospetti combattenti kosovari in Siria e Iraq, ha convocato nel suo ufficio i leader religiosi di Pristina.
I rappresentanti delle comunità islamica, ortodossa e cattolica hanno rivolto un appello ai fedeli perché restino lontani da ogni forma di estremismo e violenza e sostengano la pace per un futuro migliore. I religiosi hanno inoltre condannato coloro che usano il nome di Dio per perpetrare crimini contro l’umanità, sottolineando che la religione non dovrebbe mai giustificare odio e violenza.
Operazione anti-t[]ismo
Le istituzioni di Pristina hanno aumentato la vigilanza e il parlamento ha in cantiere una legge che sanzioni la partecipazione di cittadini kosovari a conflitti in altri paesi prevedendo una condanna fino a quindici anni di carcere. L’impegno del parlamento arriva dopo la grande operazione di polizia di qualche giorno fa, che ha portato all’arresto di 40 persone in 60 diverse località kosovare per il sospetto coinvolgimento in organizzazioni t[]istiche impegnate nei conflitti in Medio oriente.
Durante l’operazione sono stati sequestrate armi, esplosivi e munizioni di diverso calibro. Le persone arrestate hanno negato di essere coinvolte in organizzazioni t[]istiche come ISIS e Al-Nusra. Tuttavia, ne è stata decisa la custodia cautelare a 30 giorni per avere minacciato la sicurezza nazionale e il sistema costituzionale kosovaro.
Altre tre persone sono state arrestate in un secondo momento, tra cui un imam di Gjilan, Zekirja Qazimi, sospettato di essere tra i principali ispirati del jihad in Kosovo, secondo quanto affermato dalla polizia. La forze dell’ordine kosovare sono ancora sulle tracce di una dozzina di sospetti: secondo gli inquirenti sono 96 le persone indagate.
La maggioranza della popolazione del Kosovo è di fede islamica. Secondo la Costituzione, la Repubblica del Kosovo è uno stato secolare e neutrale rispetto al credo religioso dei propri cittadini. La maggior parte dei musulmani del Kosovo hanno un atteggiamento liberale verso le altre religioni e vivono la fede come una questione privata. Per molti anni, la tolleranza religiosa ha costituito uno dei maggiori punti di forza del Kosovo. Il Dipartimento di stato in un rapporto del 2013 sui diritti religiosi ha però rilevato la crescita di sentimenti di odio e di un linguaggio antisemita tra alcune figure del clero locale.
L’imam Zekirja Qazimi rappresenta la figura più in alto nella gerarchia della comunità islamica tra le persone arrestate nei raid delle scorse settimane. L’arresto mostra che il reclutamento di persone da mandare a combattere in Siria e Iraq non è solo una scelta individuale. Al contrario, gli imam del Kosovo, sia all’interno che all’esterno della comunità islamica sono attivamente coinvolti.
"Il Kosovo non sarà un rifugio per i t[]isti"
La Presidente Atifete Jahjaga ha affermato che il Kosovo non sarà un rifugio per t[]isti. Il capo della comunità islamica kosovara, il mufti Naim Ternava, in un’intervista rilasciata a Voice of America, ha dichiarato che dal 2012 la sua comunità è impegnata in una campagna contro la partecipazione di giovani kosovari alle attività dell’ISIS o di altre organizzazioni t[]istiche, attività che "non hanno niente a che vedere con l’Islam vero, con i suoi principi e regole, con il Corano o l’Hadith".
Secondo le autorità di Pristina all’incirca 100-200 albanesi kosovari, soprattutto giovani, si sono uniti a gruppi t[]istici in Siria e Iraq; 16 sono le persone che hanno perso la vita fino ad ora. A luglio, la comunità islamica tradizionale è rimasta sotto shock per le immagini del giovane venticinquenne Lavdrim Muhaxheri, kosovaro di Kaçanik, che ha postato su Facebook una sua foto mentre decapitava un soldato siriano.
Ma quali sono i motivi che spingono alcuni musulmani del Kosovo ad unirsi ai militanti islamisti in Siria e Iraq? Come spiega Xhabir Hamiti, docente della Facoltà di Studi Islamici e tra i maggiori studiosi di religione kosovari, "alcuni individui in Kosovo cadono nella rete della propaganda di persone che vivono fuori dal Kosovo e che chiamando ad unirsi ad una guerra ‘olistica’. Penso che la ragione principale sia un cieco indottrinamento religioso che avviene attraverso internet e i video che incitano i giovani di tutto il mondo ad unirsi alla lotta per rovesciare il regime di Assad, una lotta che è poi diventata la guerra settaria che osserviamo oggi".
Alcune ONG del Medio oriente hanno operato nel Kosovo del dopoguerra sotto l’ombrello dell’attività umanitaria, ma si ritiene che abbiano contribuito alla diffusione di un’interpretazione militante dell’Islam, soprattutto tra le persone meno istruite e più povere. Secondo Serbeze Haxhiaj, giornalista investigativa di Pristina, la mancanza di occasioni di lavoro per le giovani generazioni e la difficile situazione socio-economica sono elementi imprescindibili per capire perché alcuni giovani possano essere sedotti dall’idea di partecipare, in modo retribuito, alle attività dei gruppi radicali.
"Penso che i giovani che vanno a combattere subiscano prima di partire il lavaggio del cervello da parte di diversi leader religiosi e predicatori educati nel mondo arabo. Di sicuro le loro preghiere sono in contraddizione con l’islam tradizionale che è un islam moderato e liberale se comparato all’Islam praticato nei paesi arabi", fa notare Haxhiaj.
Radicalizzazione, fenomeno in crescita
Il direttore esecutivo del Kosovo Center for Security Studies, Florian Qehaja sostiene che la radicalizzazione religiosa in Kosovo sia cresciuta nel tempo, partendo da un livello molto basso nell’immediato dopoguerra, fino a diventare una minaccia importante oggi. Come spiega Qehaja,"ci sono numerosi indicatori di questa mutata situazione: in primo luogo, i gruppi radicali che spingono sull’idea dell’islam politico non riescono più ad allargare ulteriormente la propria sfera di influenza nelle comunità in cui vivono con mezzi pacifici, e quindi puntano a farlo attraverso l’uso della violenza; in secondo luogo, il fatto che molti kosovari sono andati in Medio oriente li rende soggetti pronti al combattimento e all’uso della forza; infine, i gruppi radicali in Kosovo sono ben organizzati, finanziati e preparati".
Gli analisti avvertono che il coinvolgimento dei giovani kosovari nelle attività t[]istiche in Siria e Iraq può mettere in pericolo la sicurezza nazionale, sia attraverso il reclutamento e la creazione di reti t[]istiche, sia a causa di un eventuale uso della forza contro obiettivi dello stato. Inoltre, gli eventi degli ultimi mesi hanno indebolito gli sforzi del Kosovo nella sua battaglia per il riconoscimento internazionale. "Gli ultimi eventi rafforzano l’argomento di paesi avversi all’indipendenza di Pristina, che tendono a vedere la società kosovara attraverso la prospettiva religiosa (islam) e non attraverso la prospettiva reale di una società prevalentemente secolare. Il secolarismo si è sviluppato ampiamente in Kosovo, sopratutto ai tempi del comunismo e come risultato di una visione dell’islam moderata applicata nella regione durante il dominio ottomano", spiega Florian Qehaja.
Dopo gli eventi delle ultime settimane, è chiara la necessità per il Kosovo di sviluppare un approccio sistematico per contrastare la diffusione del radicalismo religioso e del t[]ismo. Il professore di teologia Xhabir Hamiti spiega che è necessario accrescere la consapevolezza tra le giovani generazioni che l’estremismo non è parte di alcuna religione, men che meno dell’islam. Come illustra il professor Hamiti, la comunità islamica dovrebbe porsi alla guida di questo tipo di educazione e una campagna di consapevolezza in questo senso dovrebbe essere sostenuta dalle istituzioni nazionali, dai media e dalla società civile.