Kosovo, democrazia lontana

L’elezione del nuovo presidente, le difficoltà nelle relazioni con la Serbia, la Corte speciale sui crimini di guerra. Il Kosovo rimane un paese ancora lontano da una quotidianità democratica

02/05/2016, Francesco Martino -

Kosovo-democrazia-lontana

Pristina, capitale del Kosovo - (Vegim Zhitija/flickr)

(Quest’articolo è stato originariamente pubblicato dalla Rivista Missioni Consolata del mese di maggio)

26 febbraio 2016. Il parlamento di Pristina, capitale del Kosovo, elegge il nuovo presidente della giovane repubblica. Con 71 voti (su 120) al terzo scrutinio viene nominato il leader del Partito democratico del Kosovo (PDK) Hashim Thaçi.

L’elezione di Thaçi, frutto di accordi politici con il junior partner di governo, la Lega democratica del Kosovo (LDK), non è arrivato a sorpresa: il segretario del PDK è uno degli uomini politici più in vista, “eroe” della guerra combattuta nel 1999 – col supporto decisivo dell’aviazione NATO – per ottenere l’indipendenza dalla Serbia di Slobodan Milošević, nei panni di leader politico e militare della guerriglia albanese-kosovara, l’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK).

Il 17 febbraio 2008, stavolta come primo ministro, Thaçi è l’uomo che ha pronunciato la sospirata ed attesa dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accolta con giubilo dalla folla festante nelle strade e piazze di Pristina.

A prima vista, l’investitura di Thaçi dovrebbe quindi segnare non solo il coronamento della sua carriera politica, ma anche un momento di unione e celebrazione dell’intera società kosovara. Le cose, però, sono andate diversamente.

Il dibattito che ha preceduto il voto è stato interrotto più volte dall’opposizione che – come già successo più volte nei mesi precedenti – ha tentato di bloccare la procedura lanciando fumogeni nell’aula parlamentare: protesta che ha portato all’espulsione di numerosi deputati.

Nelle strade del centro di Pristina, intanto, andavano in scena pesanti scontri tra polizia e manifestanti, soprattutto sostenitori del movimento radicale Vetëvendosje (“Autodeterminazione”), scesi in piazza al grido “Thaçi corrotto!” e terminate con un pesante bilancio di arresti e feriti.

Le parole solenni di Thaçi dopo la sua investitura “Mi impegno a costruire un nuovo Kosovo, un Kosovo europeo”, non sono bastate a calmare gli animi: l’opposizione ha infatti annunciato ricorsi sulla regolarità del voto alla Corte costituzionale.

E come se non bastasse, il nuovo presidente rischia ora un’incriminazione da parte della nuova Corte Speciale, che dal 2016 indagherà sui presunti crimini di guerra dell’UÇK durante e dopo il conflitto armato.

Un paese spaccato

Lo scontro cruento sull’elezione di Thaçi è la fotografia che meglio cattura le divisioni e le fratture che oggi spaccano “il paese più giovane d’Europa”, figlio della dissoluzione della Jugoslavia, del conflitto inter-etnico tra la comunità albanese e quella serba, di una guerra sanguinosa e della contestatissima dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia (oggi riconosciuta da più di 100 paesi, ma non dalla stessa Serbia, né da Russia, Cina e cinque paesi dell’UE) del 2008.

La prima faglia si annida nelle difficoltà del sistema politico di dare vita a una democrazia sostanziale. Le ultime elezioni (giugno 2014), hanno disegnato un parlamento diviso, con il PDK di Thaçi da una parte e una coalizione di partiti d’opposizione decisi a detronizzarlo dall’altra. Incapaci di trovare una soluzione mediata, i leader kosovari hanno dato vita ad un autistico muro contro muro, che ha lasciato il paese senza governo per quasi sei mesi.

La crisi è stata risolta solo con il pesante intervento della comunità internazionale, che ha portato ad un “patto innaturale” tra il PDK e il principale partito d’opposizione, la LDK che ha voltato le spalle al patto anti-Thaçi.

L’esito di quello scontro ha sciolto il nodo del governo, ma ha esacerbato la vita politica kosovara, portandola ad un livello parossistico di costante tensione, con l’opposizione ormai convinta di non avere alcuna possibilità di arrivare al potere tramite le urne.

Il confronto si è spostato quindi sempre di più nelle piazze, e qui ha incontrato una seconda faglia di tensione, quella che ancora divide il Kosovo lungo linee etniche.

La protesta si concentra infatti su alcuni aspetti dello storico accordo sulla normalizzazione dei rapporti reciproci raggiunto nell’aprile 2013 tra Kosovo e Serbia. L’intesa, primo accordo formale firmato dai due avversari, prevede un faticoso scambio: Belgrado si impegna a non interferire negli “affari interni” del Kosovo, smantellando le sue strutture di sicurezza ancora presenti sul territorio dell'(ex) provincia, Pristina acconsente alla creazione di un’Associazione delle municipalità serbe in Kosovo, che dovrebbe garantire ai serbi rimasti di godere di un’ampia autonomia locale.

Il vero obiettivo dell’intesa è “normalizzare” la situazione nel nord del Kosovo, area a larghissima maggioranza serba che, dalla guerra del ’99, rifiuta ogni tipo di integrazione nelle istituzioni di Pristina.

Quella che per il governo kosovaro è una concessione dolorosa, ma necessaria, per l’opposizione è un patto scellerato che rischia di creare un’ingestibile “entità serba” in Kosovo, sul modello della “Republika Srpska” in Bosnia.

Una prospettiva da contrastare a tutti i costi, sia nell’aula parlamentare, trasformata in una curva di stadio dal ripetuto lancio di fumogeni, che nelle strade e piazze del Kosovo.

Fuga dal Kosovo

Se la politica arranca, ampie fasce della società attraversano acque estremamente agitate. Il Kosovo resta una delle aree più povere del continente europeo, con un’economia basata soprattutto sulle rimesse della diaspora e dal consumo privato, mentre la produzione resta quasi assente.

Dopo anni relativamente positivi, il 2014 ha segnato lo stallo dei principali indicatori, con una debole crescita del PIL (0,9%), l’aumento del deficit nella bilancia dei pagamenti (-8%) e un calo negli investimenti diretti dall’estero (2,3% del PIL).

Il dato più preoccupante riguarda però la mancanza di lavoro. Se il tasso di disoccupazione generale è al 35,3% (oltre il 38% tra le donne) quello giovanile registra uno stellare 61% . Secondo i report della Commissione europea, il Kosovo è oggi in Europa il paese con i più bassi tassi di occupazione e partecipazione attiva alla vita economica.

Una situazione ormai incancrenita, che negli ultimi anni ha spinto decine di migliaia di persone a cercare opportunità una vita migliore verso i paesi ricchi dell’Europa centro-settentrionale, utilizzando lo strumento della richiesta di asilo politico.

Un escamotage reso necessario dal fatto che il Kosovo – unico tra i paesi della regione – rimane ancora escluso dalla politica di liberalizzazione dei visti con l’area Schengen. Dalle 20mila richieste depositate da cittadini kosovari in stati UE nel 2013, si è passati alle 37mila dell’anno successivo, fino ad arrivare ad una vera esplosione nel corso del primo semestre 2015, con 62860 richieste.

Il vero e proprio esodo (la popolazione totale del paese si aggira intorno ai due milioni di abitanti) è stato tamponato con una forte stretta sui controlli alle frontiere e con migliaia di rimpatri, volontari o forzati.

Le cause profonde alla base della fuga non sono però state risolte. Accanto a difficoltà economiche e disoccupazione, ad affossare le speranze nate con la dichiarazione d’indipendenza del 2008 sono anche corruzione diffusa, emarginazione di gruppi sociali ed etnici (come ad esempio i rom) scarsa qualità dei servizi forniti dallo stato.

Tutti fattori che contribuiscono all’infiammabilità della situazione sociale e politica e, secondo molti osservatori, costituiscono terreno fertile per la tentazione jihadista. Secondo varie stime, circa 300 giovani kosovari si sono arruolati negli ultimi anni nelle fazioni più radicali impegnate nei conflitti in Siria ed Iraq, come il fronte al-Nusra e il sedicente Stato Islamico.

Numeri preoccupanti, che oggi fanno del Kosovo il paese europeo col maggior numero di foreign fighters pro-capita, nonostante le frequenti operazioni di polizia e forze di sicurezza contro il fenomeno.

Missione Eulex e Corte Speciale

Nonostante la prossima entrata in vigore dell’Accordo di Stabilità e Associazione con l’UE, primo ed importante passo sulla strada dell’integrazione, il Kosovo resta oggi il paese balcanico più lontano da una futura membership europea.

Al tempo stesso, però, dal febbraio 2008 il paese ospita EULEX – la più grande missione UE all’estero – schierata da Bruxelles per aiutare Pristina a consolidare le proprie istituzioni, soprattutto nel campo giudiziario e nella lotta a criminalità organizzata e corruzione.

Forte di 1600 membri e di un budget annuale intorno ai 110 milioni di euro, Eulex – attualmente guidata dal diplomatico italiano Gabriele Meucci – è partita con grandi aspettative, ma si è scontrata sul terreno con la resistenza di parte della società kosovara e con una capacità limitata di incidere nel cambiamento, soprattutto nel settore al centro dichiarato delle sue attività: la lotta a corruzione e criminalità organizzata.

Già nel 2012 un report della Corte dei conti europea metteva in risalto che l’attività di supporto di Eulex era stata generalmente inefficace, mentre la corruzione rimaneva “endemica” in Kosovo.

Ad intaccare ulteriormente la credibilità della missione, nel 2014 è poi arrivato un grave scandalo: Maria Bamieh, procuratore britannico, ha accusato pubblicamente Eulex di aver coperto un caso di corruzione giudiziaria al proprio interno. Le accuse hanno spinto Federica Mogherini, Alto rappresentante UE per gli affari esteri, a chiedere un rapporto sullo stato della missione, affidato a Jean-Paul Jacque, professore di diritto francese.

Il rapporto, pur smentendo le accuse di corruzione, ha gettato però luce sulle gravi carenze strutturali della missione, che è parsa incapace, o disinteressata, a combattere fino in fondo l’elité criminale che, in Kosovo, si sovrappone significativamente all’élite politica.

Nel frattempo, una nuova iniziativa europea è comparsa sullo scenario kosovaro, in risposta al rapporto prodotto nel 2010 per Consiglio d’Europa dal senatore svizzero Dick Marty. Nel rapporto leader di spicco dell’UÇK – e oggi leader politici – vengono accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, soprattutto nei confronti delle comunità serba e rom. Secondo Marty, tra i crimini commessi c’è anche quello – infamante – dell’esproprio di organi a prigionieri a fini di lucro.

Per indagare su accuse così pesanti, l’UE ha creato una Special Investigative Task Force (SITF), che nel 2014 ha confermato la fondatezza del “rapporto Marty”. Ora le prove e le imputazioni raccolte dalla SIFT aspettano di essere presentate di fronte ad una Corte Speciale, che dovrebbe aprire i battenti entro il 2016.

Ufficialmente la Corte fa parte del sistema giudiziario kosovaro, ma avrà sede all’Aja, per proteggere i testimoni da pressioni e minacce, problema che ha minato molti dei processi a ex leader UÇK già tenuti dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, terminati in gran parte in contestate assoluzioni.

Tra i nomi dei possibili imputati, il più discusso è proprio il neo-presidente Hashim Thaçi, citato più volte nel rapporto Marty come “esponente di spicco del mondo criminale kosovaro”, ma anche numerosi leader sia della compagine governativa che dell’opposizione.

Difficile prevedere l’impatto della Corte sulla vita politica del Kosovo: potenzialmente, il nuovo tribunale potrebbe però causare un vero terremoto politico a Pristina e dintorni.

Voglia di normalità

Nonostante la situazione socio-economica e politica, segnata più da ombre che da luci, tanti kosovari, soprattutto tra i giovani, non si rassegnano al presente e cercano con determinazione di costruire la propria strada verso il futuro.

Un esempio importante è quello del gruppo di lavoro – coordinato dal fondatore e amministratore delegato Mergim Cahani – di “Gijrafa.com” piattaforma e motore di ricerca tutto dedicato alle informazioni online in lingua albanese. Un progetto coltivato per anni e che, recentemente, ha attirato investimenti per oltre due milioni di dollari, cifra ragguardevole per il Kosovo.

Anche nel cinema le idee e le iniziative non mancano. Nato nel 2002 per iniziativa di un gruppo di amici, il DokuFest di Prizren, città nel Kosovo sud- occidentale, è diventato negli anni uno dei punti di riferimento per il cinema documentario a livello sia europeo che internazionale e, nel 2014, ha registrato non meno di 18mila presenze.

Più recentemente, nel 2015, è stata invece una produzione anglo-kosovara a far parlare di sé: il cortometraggio “Shok” (“Amico”), diretto dalla regista inglese Jamie Donoughue, ma con un cast tutto kosovaro, che dopo aver vinto numerosi riconoscimenti è stato nominato agli Oscar 2015 nella categoria “film brevi”.

Se c’è una storia che più di ogni altra rappresenta la voglia di farcela nonostante tutto, è però quella di Majlinda Kelmendi. Nata nel 1991 a Peja/Pec, Majlinda si è imposta negli ultimi anni come uno dei talenti più puri del judo internazionale vincendo quasi tutto quello che si può vincere, – campionato del mondo incluso- nonostante tutte le difficoltà dovute allo status incerto della federazione kosovara.

Ai giochi olimpici di Londra 2012 Majlinda ha dovuto partecipare con la squadra dell’Albania, visto che all’epoca il Kosovo non era stato ancora ammesso al Comitato olimpico internazionale. Oggi, però, dopo l’ingresso a pieno titolo del paese (2014), Majlinda può realizzare il suo sogno ed entrare nella storia: portabandiera designato, durante la cerimonia di apertura dei giochi di Rio de Janeiro di questa estate sarà la prima a far sventolare alle Olimpiadi i colori del Kosovo.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta