Kosovo del nord, un anno dopo la crisi
I due valichi di Jarinje e Brnjak, presidiati dalle forze internazionali, separano oggi di fatto la Serbia centrale dal Kosovo del nord. La distanza tra Pristina e Mitrovica, tuttavia, non è diminuita, e il recente terremoto politico a Belgrado rappresenta un’incognita sulla ripresa dei negoziati tra serbi e albanesi. La crisi dei valichi di confine, un anno dopo
Un anno dopo l’inizio della crisi dei valichi nel nord del Kosovo, la situazione rimane difficile. Nonostante la violenza sia diminuita negli ultimi mesi in confronto alle tensioni della prima metà dell’anno, non è escluso possa tornare ad esplodere in autunno. Una nuova tornata di colloqui Belgrado-Pristina, sponsorizzati da Bruxelles e centrati esclusivamente sul nord Kosovo, riprenderà dopo una lunga pausa durante la quale Belgrado ha vissuto un terremoto politico.
L’ex presidente Tadić ha perso le elezioni, e il governo è cambiato. Il nuovo presidente Tomislav Nikolić e i suoi alleati di governo hanno annunciato la personale partecipazione ai colloqui. In tal caso, sarà la prima volta in dodici anni che le massime cariche politiche di Belgrado e Pristina dialogheranno ufficialmente.
La controversa questione della sovranità su questa parte del Kosovo rimane dunque nella futura agenda del governo di Pristina e dei suoi sponsor internazionali. Improvvise esplosioni di violenza potrebbero però provocare repentini cambiamenti nel calendario politico.
Barricate
Le diverse parti coinvolte interpretano la crisi secondo le proprie percezioni e i propri interessi. Per alcuni la situazione sul campo è cambiata enormemente, per altri non abbastanza. La maggior parte dei serbi locali ammette, dodici mesi dopo, che l’immenso dispiego di milizie internazionali e polizia ai due valichi verso la Serbia centrale, Jarinje e Brnjak, mirato a far rispettare la giurisdizione di confine, è di fatto una separazione del Kosovo settentrionale dalla Serbia centrale. Le forze Kfor sono state dispiegate anche in paesi e villaggi, cercando di controllare i movimenti della popolazione, ma anche di controllare tutte le strade alternative.
“Hanno fatto in dodici mesi quello che non erano riusciti a fare in dodici anni. Vedi questo posto di blocco enorme al confine?! E a Jarinje è ancora più grande”, dice Bojan V. (34), guidando lentamente verso Brnjak, lungo il lago Gazivode. È estate, fa caldo, e un folto gruppo di amici, come molti residenti di Mitrovica, si dirige "dall’altra parte del fiume" per pescare e prendere il sole. Il veicolo si ferma al segnale di stop KFOR, poi prosegue lentamente al gesto del soldato, e si ferma da un agente di polizia Eulex. Al primo sguardo si tratta di una procedura di routine. Soldati e agenti di polizia sono calmi e cortesi, i viaggiatori collaborano. Ma sotto la superficie, gli abitanti del luogo sono infelici e arrabbiati.
“Ci hanno portato via la nostra terra e hanno bloccato quella che era una strada per la Serbia”, aggiunge Bojan.
Il posto di blocco con militari e polizia, circondato da filo spinato e sacchi di sabbia, e completo di torre di guardia, sembra davvero grande. Una nuova procedura, da mesi annunciata come "presto in vigore", richiederà ai viaggiatori di presentare una carta d’identità kosovara. Si tratterebbe di un accordo fra Pristina e Belgrado, raggiunto dal precedente governo serbo, ma che la stessa Belgrado continua sporadicamente e con poca convinzione a dire che non è valido.
Confini etnici e confini di Stato
“Siamo nella situazione in cui era il sud del fiume Ibar nel 1999, fisicamente separato dalla Serbia”, afferma Bojan. Anni di pressione politica e militare della comunità internazionale contro la divisione tra serbi e albanesi hanno spostato il nodo della questione della divisione fra i serbi del nord Kosovo e i loro concittadini in Serbia centrale a Jarinje e Brnjak.
I cumuli di detriti e la tenda con i simboli serbi sbiadita dal sole continuano a bloccare il ponte principale per il traffico veicolare. L’ultimo progetto politico di Pristina, però, prevede la sostituzione della divisione etnica con la creazione di confini tra i due paesi.
Serbi del Kosovo – buoni o cattivi?
Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 2008, la strategia politica di Pristina, fortemente appoggiata dai suoi sponsor internazionali, è consistita in workshop politici impreziositi dalla partecipazione e dall’integrazione dei serbi del Kosovo. La violenza contro anziani ritornanti serbi, tuttavia, negli ultimi mesi è in aumento.
La maggioranza dei serbi del Kosovo continua ad essere sul libro paga di Belgrado, attraverso la partecipazione alle istituzioni sponsorizzate dalla Serbia su entrambe le sponde dell’Ibar. A sud, tuttavia, alcune piccole aree serbe sono ufficialmente e di fatto politicamente controllate da Pristina, con alcuni serbi fedeli al governo del Kosovo che spesso criticano le azioni dei serbi del nord.
I serbi del nord sono ormai spesso negativamente ritratti come facinorosi fuorilegge, pericolosi per la pace e la prosperità del Kosovo. Questa immagine negativa nel pubblico occidentale si è fortemente intensificata negli ultimi mesi, dopo l’erezione di posti di blocco su tutte le strade da sud a nord per contrastare le azioni di Pristina. Per la prima volta in dodici anni, tale immagine negativa è sostenuta anche da voci vicine a Belgrado.
A differenza dei serbi di Belgrado, che spesso hanno definito i loro concittadini come "quella gente laggiù", il primo ministro del Kosovo Thaci però ha esercitato un’attenta retorica politica, riferendosi ai serbi nel nord del Kosovo come ai "nostri cittadini". In linea con tale retorica, molti internazionali in Kosovo e funzionari albanesi parlano ora di "un pugno di criminali che tiene in ostaggio la maggioranza di cittadini onesti".
La Serbia rimane in nord Kosovo
Il desiderio dei serbi del nord di vivere "una vita decente, libera e tranquilla con più posti di lavoro e un’economia ben sviluppata" è stato spesso male interpretato da alcuni rappresentanti internazionali a Pristina come un desiderio di integrarsi nella nuova società del Kosovo. Sulla base di valutazioni di intelligence preparate da alcuni consulenti internazionali, si era così erroneamente previsto che il piano Rosu, l’anno scorso, sarebbe stato completato con successo, e seguito a breve dalla piena attuazione del piano Ahtisaari e della strategia per il nord del Kosovo, che prevedeva maggiori fondi internazionali per investire nell’economia del nord del Kosovo e nella società civile.
Da questo punto di vista, il governo del Kosovo e i suoi sostenitori internazionali non hanno di che gioire. Il piano Ahtisaari resterà non implementabile per anni. L’Ufficio civile internazionale, a cui è stato fino ad oggi negato platealmente l’accesso a nord, interromperà la sua missione al più presto. L’Eulex non ha mai osato lasciare la propria sede per pattugliare le strade del nord. I serbi continuando ad usare le strade alternative dalla Serbia centrale per il trasporto di merci. A dispetto dei piani per il nord, ad oggi non sono previste nemmeno le elezioni, per ora c’è solo la recente installazione di un controverso ufficio amministrativo del governo kosovaro. Mancano anche gli ambiziosi piani d’investimento per il nord, per ora si sono visti solo investimenti mordi-e-fuggi con molti dubbi circa la trasparenza dei flussi di cassa.
D’altro canto, le istituzioni serbe rimangono operative, con alcuni adattamenti per le circostanze createsi dopo il 1999, e la comunità locale rimane loro pienamente fedele. Nonostante gli sforzi di Pristina di cancellare i confini etnici tra serbi e albanesi dichiarandoli tutti kosovari e, contemporaneamente, instaurare un altro confine statale tra il nord del Kosovo e la Serbia, i serbi del Kosovo rimangono ancora lontani dall’adesione alla nuova società desiderata dal governo di Pristina. Questi sono i veri problemi nelle valigie di chi andrà a negoziare a Bruxelles.