Knin, vivere nel limbo

La Krajina, Knin, la guerra e la famigerata operazione Tempesta. Il conflitto in questi luoghi ha lasciato dietro di sé memorie conflittuali. Ne abbiamo parlato con l’antropologo e fotografo Igor Čoko coautore, con il sociologo Slaven Rašković, del volume “Vita nel limbo. Il libro delle cicatrici”

02/10/2020, Francesca Rolandi -

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© Igor Čoko

Nell’estate del 1990, nelle zone della Krajina croata a maggioranza serba, fecero la loro comparsa i blocchi stradali (la cosiddetta “rivoluzione dei tronchi”) che tagliarono i collegamenti tra la Dalmazia e il resto della Croazia. La stagione turistica era al suo picco, le elezioni multipartitiche avevano portato al potere il partito nazionalista HDZ di Franjo Tuđman, la Jugoslavia si avviava alla dissoluzione. Dietro ai blocchi vi erano i locali leader separatisti serbi che sfruttarono le paure della popolazione serba di Croazia che si sentiva minacciata dall’incalzante nazionalismo croato. Knin sarebbe a breve diventata la capitale dell’autoproclamata Regione autonoma serba della Krajina, mentre la popolazione croata, vittima di svariati crimini, lasciò a più riprese la città. L’operazione Tempesta (Oluja) portò il 5 agosto 1995 l’esercito croato alla riconquista della città, provocando una fuga di massa dei profughi, oltre a diffuse violenze sulla popolazione serba, che portarono alla morte di circa 100 civili nella sola città di Knin e a migliaia di sfollati.

Nell’ambito delle politiche della memoria croata, Knin è diventata sede delle celebrazioni della Giornata della Vittoria il 5 agosto, con manifestazioni e concerti dove è ormai di casa una simbologia ultranazionalista. Al contrario, nella memoria serba l’operazione Tempesta è doloroso sinonimo dell’espulsione della popolazione serba dalla città. La città, che ha visto un radicale ridimensionamento della componente serba, trasformatasi in minoranza, ha assistito alla costruzione di una nuova narrazione storica, incentrata sul mito della “città reale”, culla della Croazia medievale.

Sebbene nel 2020 la partecipazione del vicepremier Boris Milošević, del Partito democratico indipendente serbo, alla commemorazione dell’Operazione Tempesta abbia rappresentato un passo avanti istituzionale nella direzione del dialogo, la città di Knin continua a rappresentare un emblema delle memorie conflittuali.

Ad affrontarla, in un dialogo intimistico con una forte componente visuale, è stato di recente il libro “Život u limbu. Knjiga ožiljaka“ [Vita nel limbo. Il libro delle cicatrici]. Ne abbiamo discusso con il fotografo ed antropologo Igor Čoko, che firma il volume insieme al sociologo Slaven Rašković.

Partiamo dal titolo. Che cosa simboleggia la parola limbo nel vostro progetto?

I testi di Slaven Rašković comprendono il periodo 1990-1995. Le mie fotografie selezionate nel libro, che illustrano le storie, sono nate negli ultimi due anni, anche se a livello visivo potrebbero essere collocate anche nel 1995. Quindi tra lo svolgimento degli eventi descritti nei testi e le fotografie c’è una distanza di venticinque anni. Venticinque anni di un silenzio roboante e del nulla. Un vuoto all’interno del quale sia le persone che il tempo a Knin sono rimasti incastrati. Si tratta di quel limbo nel quale le persone, in attesa di qualche cambiamento che le trascini fuori da questo stato di letargia, trascorrono le proprie vite, sfuggendo alla necessità di fare i conti con il passato.

Originario di Knin, tu stesso hai vissuto l’esperienza della profuganza. Come hai iniziato ad occuparti di questo processo in diversi contesti, dal momento che da tempo ti occupi anche della rotta balcanica?

La mia esperienza di profuganza è stata traumatica, come per la maggior parte di coloro che durante l’operazione Tempesta e in situazioni simili durante i conflitti nei territori della ex Jugoslavia si sono trovati nella condizione di dover cambiare radicalmente e violentemente le proprie condizioni di vita.

Occupandomi della rotta balcanica, ascoltando ed entrando in contatto con le esperienze personali degli individui in cammino, ho capito che la mia avventura di 700 km e di una decina di giorni su un trattore attraverso la Bosnia era poca cosa al confronto della loro, sebbene non voglia minimizzare la sofferenza di nessuno. Ad accomunarci è un filo comune di distaccamento dalle proprie radici, e questo lo si riconosce anche nella comunicazione e nell’interazione.

Da questa prospettiva posso più facilmente capire la loro situazione, dal momento che abbiamo condiviso un’esperienza simile, dal dormire in luoghi improvvisati, in diversi centri collettivi, al doversi confrontare con le frontiere chiuse, con il rigetto e con i pregiudizi. Attraverso questo libro e quello successivo, sulla rotta balcanica, al quale sto lavorando, ho cercato di tracciare un parallelismo tra situazioni fondamentalmente diverse ma anche così simili.

Autori del libro siete tu e il sociologo Slaven Rašković. Entrambi nati e cresciuti a Knin, avete dovuto lasciare la città dopo l’operazione Tempesta. Mentre tu sei rimasto a Belgrado, Slaven è ritornato a Knin. Come i vostri diversi percorsi di vita hanno influenzato il vostro rapporto con la città e con il progetto stesso?

Ognuno di noi porta nella memoria una sua immagine di Knin. Proveniamo da generazioni diverse e anche solo per quello abbiamo diverse esperienze e ricordi della città. La famiglia di Slaven è stata una delle prime a ritornare a Knin. E anche lui ricorda bene quel ritorno traumatico nella città del dopoguerra. E Slaven in quella Knin è cresciuto, ha frequentato le scuole, si è integrato completamente nella società croata. Oggi vive e lavora a Zagabria.

Le circostanze invece mi hanno portato a Belgrado, anche se le cose sarebbero potute andare diversamente. La partenza da Knin era in ogni modo inevitabile. La relazione con la città, sia la sua che la mia, sono rimaste profondamente intime, sebbene al libro ci siamo approcciati tenendo le distanze dalle identità di appartenenza perché solo così, e a mente fredda, sarebbe stato possibile riassumere tutto quello che quella città ha attraversato nella prima metà degli anni novanta del secolo scorso. Abbiamo cercato di evitare la trappola del pathos del luogo natio, come anche di schierarci, e abbiamo fatto un libro che si propone di comunicare con una comunità più ampia e che in modo più trasparente possibile mostra le circostanze che entrambe le parti hanno vissuto, perché in linea di massima in queste narrative ci si scontra con verità unilaterali, che siano serbe o croate.

Come Slaven ha menzionato in un’intervista per il settimanale Novosti, degli avvenimenti a Knin dal 1991 al 1995 solitamente in Croazia non si parla, perché la città deve simboleggiare la vittoria, mentre Vukovar è la città-martire per antonomasia. Ogni anno a Knin la commemorazione dell’Operazione Tempesta è al centro di polemiche, sebbene quest’anno la stessa commemorazione conteneva degli elementi nuovi. Come è stato accolto il vostro progetto nella vostra città natale? Quali sono state le reazioni durante la lavorazione del progetto e nella presentazione che si è tenuta a Knin?

Su Vukovar ogni parola è superflua, una tragedia che, senza esagerazione, può essere paragonata a quella di Stalingrado. Una città rasa al suolo e ricostruita dalle ceneri. E come tale la rappresenta la pietà per le vittime e per la città-vittima. Knin è stata una attiva città di resistenza e rivolta, che per cinque anni ha fatto venire il sangue amaro a Zagabria e più tardi è stata brutalmente riportata all’allineamento. Per questo è stata proclamata città della vittoria, è stata issata sulla fortezza una bandiera di una ventina di metri, è stato distrutto il monumento alla lotta di liberazione sul monte Spas che rappresentava la lotta comune di serbi e croati, si è guadagnata l’epiteto di città “reale“ croata e la precedente identità etnica è stata radicalmente eliminata.

Ma in questa nuova veste lo stato croato ha instaurato una relazione cinica con la città che, a causa di questo suo vissuto precedente, è stata lasciata a marcire, abbandonata in tutti i sensi. Una città reale con i cenci addosso. Sebbene siano stati duri e tragici, i traumi dei croati di Knin sono stati rimossi, dopo essere stati centrali solo nel ’91, ’92. Per la tragedia c’era già l’incontestabile Vukovar. Ora in quella Knin vivono persone che ne hanno abbastanza dei pregiudizi e in parte vogliono uscirne da questa dimensione, distruggerla. Questo progetto non è stato accettato a Knin nel modo più felice perché è stato percepito come un’operazione di scavo nelle ferite. Le persone non capiscono che, oltre la vita reale, il passato compare e comparirà costantemente. Per esempio ogni 5 agosto. Ma lo scopo di questo libro non è quello di scavare nelle ferite, né di sconvolgere una realtà letargica. Al contrario è partito con una prospettiva del tutto diversa, con il desiderio di essere simbolicamente presentato proprio a Knin, e in questo modo di chiudere questo circolo infernale, distruggere il limbo. Per perdonare, sul luogo stesso, tutti i propri nemici interni, incensarli, e lasciarli andare nel dimenticatoio.

Sebbene la convivenza nella Knin di oggi appaia idilliaca, sotto la superficie non è così, come ha mostrato la presentazione in loco. Le persone hanno ancora paura di parlare apertamente di questo tema, è palpabile il trauma del confronto con il passato. Sono felice che, nonostante tutti questi problemi, la presentazione del libro abbia avuto luogo comunque a Knin, ma ad eccezione di determinati individui, credo che l’uscita dal limbo, la catarsi, sia ancora lontana. Il fatto che ci siano persone che si occupano di creatività e provano a portare avanti qualcosa di differente, di per sé è un’illusione e una fuga da questa realtà dura e traumatica. Perché la città vive le cicatrici e le persone portano ancora sotto pelle quegli stessi traumi.

Qual è il posto di Knin nella cultura della memoria ufficiale in Serbia? Quanto la memoria degli ex profughi di Knin coincide con la narrazione ufficiale?

Questo appare nel migliore dei modi in quel 5 agosto, quando la politica ufficiale serba si lancia in un patetico lamento sulla persecuzione subita dai serbi durante l’operazione Tempesta. La Tempesta è l’epilogo di tutto quello che è successo dalla celebrazione dei 600 anni dalla battaglia del Kosovo a Dalmatinsko Kosovo fino al 5 agosto 1995. È stato creato uno stato che, come lucidamente ha messo a fuoco Emir Imamović Pirke, non credeva neppure lui di essere uno stato.

La politica di Slobodan Milošević ha sfacciatamente sfruttato i serbi di Croazia. Attraverso la guerra, attraverso la diffusione del nazionalismo come risposta all’estremismo croato e, successivamente, dopo l’operazione Tempesta, ha sfruttato queste persone mantenendole prive di diritti per un decennio nello status di profughi, manipolandoli, nel momento in cui dall’altra parte la Croazia si sforzava in ogni modo di impedirne il ritorno, usurpandone le proprietà. E anche questo in qualche modo era parte del limbo. L’attuale politica serba si ricorda di Knin nel giorno del pogrom con un lamento patetico e nulla più.

Nel libro si menziona la testimonianza di un abitante di Knin che parla del paradosso della sua vita “tra due fuochi“, ricordando che il paese contro il quale si è ribellato gli ha dato i documenti quasi subito dopo la guerra, mentre il paese che lo ha portato alla guerra lo ha poi tenuto nella condizione di profugo per dieci anni. Quante persone sono rimaste imprigionate in mezzo alle tensioni tra i due paesi?

Questa è proprio l’immagine dello stato della consapevolezza e delle difficoltà di adattamento che segue il destino di queste persone. Alcuni di loro si sono integrati, altri no, e hanno creato nel frattempo un insediamento di profughi ai bordi di Belgrado dove si vive in una specie di autoghettizzazione e nel ricordo dei tempi andati, cercando la propria identità in una rivitalizzazione di usanze e abitudini del passato. Perché si è mostrata con tutta chiarezza la differenza culturologica tra i serbi della Croazia e i serbi che vivono nel paese. Qualche volta si tratta di differenze insuperabili.

C’è qualcosa che non vi aspettavate prima di iniziare a lavorare a questo progetto?

Tutto nel libro si è ben incastrato. Da quando ho iniziato a muovere i primi passi fotografici in direzione del libro, intorno al 2013, ho semplicemente aspettato che Slaven comparisse perché l’idea assumesse forma e senso. Non ci conoscevamo da prima, ci siamo conosciuti proprio l’anno scorso e come coautori siamo arrivati ad un livello perfetto di reciproco completamento, perfezionamento, sebbene abbiamo delle visioni opposte su alcune cose. Evidentemente il libro doveva venire alla luce in questo modo. L’editore, l’ufficio belgradese dell’associazione governativa tedesca Forum ZFD, ne ha riconosciuto il significato e ne ha reso possibile la sua realizzazione.

Quanto questo è un libro su Knin piuttosto che in generale sulla dissoluzione della Jugoslavia? Quanto Knin ha una sua parabola specifica in quel contesto?

Knin ha un ruolo specifico proprio perché qui viene dichiarato lo stato di guerra in Croazia il 15 agosto 1990, con l’inizio della “rivoluzione dei tronchi” e della sollevazione dei serbi, la prima vera rottura nel processo di dissoluzione della Jugoslavia, e perché è il luogo in cui è finita la guerra in Croazia con l’operazione militare e di polizia Tempesta del 5 agosto 1995. Una città dalla convivenza idilliaca, la cui identità è stata distrutta, vittima delle politiche ufficiali di Zagabria e Belgrado che su di essa hanno riflettuto i propri interessi. La prima di una serie di città distrutte. Knin qui è un caso studio e un contesto nel quale si può riconoscere la sofferenza di altre città nell’area della ex Jugoslavia.

Hai un profilo particolare, sei sia un fotografo che un antropologo. Quanto questi due profili si completano e quanto sono in conflitto l’uno con l’altro?

Fotografia e antropologia sono un’unione perfetta che nella pratica rendono possibile uno sguardo stratificato, complesso e analitico sulla realtà, sulla comprensione dei fenomeni e infine sulla loro rappresentazione.

Nel libro descrivi come la guerra sia stata preparata sui muri cittadini, con l’apparizione sempre più frequente di graffiti nazionalistici che hanno normalizzato il discorso dell’odio. A differenza degli anni ’80, quando rappresentavano dei simboli di ribellione e di subculture, anche oggi i graffiti sono spesso parte di una narrazione ultranazionalistica che richiama l’intolleranza e la mancanza di rispetto per l’Altro. Come si può restituire ai muri quel vecchio ruolo sovversivo? O forse oggi mancano delle vere subculture che rappresentino spazi di libertà?

Oggi non ci sono scontri fisici aperti, ma la guerra cova sui muri. E finché la situazione è questa, dobbiamo stare attenti nei riguardi di un potenziale revival della stessa. Forse le guerre sui muri sembrano innocue, ma in realtà sono pericolose. Con i graffiti degli anni ’90 si è innescata la fiamma, non vedo perché la situazione oggi dovrebbe essere differente. Le generazioni del dopoguerra crescono sui miti e sulle leggende degli anni ’90, e questa è sempre una bomba a orologeria, una mina. In sostanza tutto dipende dalla gente. E credo che la gente abbia imparato la lezione degli anni ’90. Per come stanno le cose oggi è impossibile cambiare di fatto l’estremismo di destra radicato, ma l’attivismo e il buon vecchio spirito sovversivo sono oasi di libertà, in cui è possibile opporsi all’attuale establishment nazionalista. Per frapporsi e creare problemi.

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