Karahasan, addio al filosofo della tolleranza
Filosofo, scrittore, drammaturgo bosniaco-erzegovese. Con la morte di Dževad Karahasan avvenuta pochi giorni fa, l’Europa perde un uomo di cultura che con il suo pensiero e le sue opere si è battuto per difendere valori come il pluralismo culturale, il cosmopolitismo e la tolleranza. Il nostro ricordo
Nell’aprile del 2012, nel ventennale dell’inizio dell’assedio, Sarajevo è stata per giorni al “centro del mondo”. Noi di OBCT eravamo lì per raccontare la città e raccogliere le sue voci, tra i quali uno dei più importanti scrittori europei, il filosofo e drammaturgo bosniaco-erzegovese Dževad Karahasan [si veda l’intervista “Karahasan, il mosaico europeo”, ndr].
“Il centro del mondo ” è il titolo del suo libro scritto nel 1993, e primo libro uscito in Italia nel 1995 (titolo originale Dnevnik Selidbe). Pagine di testimonianza scritte a guerra in corso che disegnano con tagliente lucidità la quotidianità dell’assedio – il sottotitolo del libro non a caso è “Insegnamenti esoterici dell’esilio di Sarajevo” – ma da cui emerge sempre l’importanza dei valori che ha difeso fino all’ultimo.
Karahasan grida il suo dolore non per le sofferenze personali, ma per la perdita di quei valori. Lo sottolinea molto bene la scrittrice croata Slavenka Drakulić, autrice della lunga prefazione: “Quasi in ogni capitolo Karahasan ritorna sulla perdita della tolleranza fra nazioni, culture e religioni, e questo gli causa più dolore dei suoi problemi personali, del freddo o della mancanza d’acqua. L’insistere sull’importanza di valori, come il pluralismo culturale, il cosmopolitismo, la tolleranza e la moralità nel momento in cui la sua vita è in pericolo, è un tentativo molto simile a quello di cercare di ricordare i versi di Dante”.
Drakulić fa qui un parallelo con ciò che Primo Levi faceva nel lager – da lui raccontato in “Se questo è un uomo” – in cui si sforzava di richiamare alla memoria i versi del sommo poeta per “provare a se stesso di essere ancora un essere umano”. Perché, secondo Karahasan, si deve rimanere “esseri culturali”, e difendere la proprio dignità e la civiltà continuando, come cita Drakulić nella prefazione, “ad usare forchetta e coltello, a dire buongiorno e arrivederci, a scrivere, dipingere o recitare, come se non stesse succedendo niente”. Quella resistenza culturale che si è vista a Sarajevo, sorprendendo l’intera comunità internazionale, durante i 1425 giorni di assedio.
Una resistenza quotidiana alla barbarie, raccontata da Karahasan con quasi freddo distacco. Quella razionalità che gli serve per poter osservare attorno a sé lo stravolgimento di vite umane e raccontarle forse, come si chiede Drakulić, "per cercare di stabilire ordine nel caos".
Karahasan, dopo dieci mesi di assedio riesce ad uscire da Sarajevo e raggiungere Vienna. Si sentirà, come spesso ha dichiarato nelle interviste fino al suo ritorno a casa, un “esiliato”. Questa volta lui stesso, da profugo e scrittore, sradicato dall’origine del suo narrare; come era diventata città esiliata dalla sua natura culturale, la Sarajevo in guerra.
Una città che secondo Karahasan andava – e va ancora – salvata, perché simbolo dell’unico modello a cui l’Europa deve tendere, come ci aveva detto in quell’aprile 2012: “Sarajevo rappresenta una grande possibilità proprio per l’Unione Europea che oggi sta cercando se stessa. Sia Sarajevo che l’Europa si avvieranno verso la giusta strada se capiranno che finché viviamo noi siamo, e dobbiamo restare, esseri culturali. Non bestie nate per creare profitto, non semplici esseri fatti per andare a votare e pagare le tasse. (…) L’essere umano è un prodotto della cultura. Quando capiremo questo, sono certo che l’Europa si riconoscerà in se stessa e Sarajevo a sua volta riuscirà a ritrovarsi.”
Le stesse parole che avevamo sentito pronunciare in quei giorni dagli scrittori Marko Vesović e Abdulah Sidran, e dal fotografo Danilo Krstanović, durante la presentazione dell’antologia di testi e foto curata dal giornalista Piero del Giudice “Sarajevo. Il libro dell’assedio” (2012, ADV).
Il pensiero di Karahasan è rimasto inciso nella memoria di molti, come dimostra il cordoglio che ha abbattuto ogni frontiera della regione dei Balcani. In tanti, tra media, personaggi pubblici, semplici cittadini e cittadine oltre che amici, hanno espresso commozione riprendendo frasi da lui scritte o pronunciate in pubblico.
Abbiamo deciso di partecipare al cordoglio per questa perdita, facendo ciò che cerchiamo di fare da 22 anni: dare voce al mondo a est di Trieste, per comprenderlo e riconoscerci in esso. Qui di seguito un piccolo estratto di questi “manifesti”, raccolti dal portale Autonomija , che Karahasan ci ha lasciato in eredità.
Sui tempi di conflitto
Penso che i problemi sorgano soprattutto quando la paura compare nelle società e quando le comunità cominciano a raccogliersi attorno a persone che a loro volta diffondono paura e promettono sicurezza. Questi sono tempi di disordini che danno vita al nazionalismo e al fanatismo, e quando improvvisamente emergono persone che offrono soluzioni semplici e concetti radicali. In tempi simili, è molto più facile per la gente comune nascondersi nella propria ristretta cerchia e nella propria piccola comunità piuttosto che esporsi alle tempeste della storia.
Sui fantasmi nazionalisti
La paura è una parte importante dei nostri "fantasmi nazionalisti" , paura di ‘quegli altri’, che stanno "preparando la nostra distruzione". Un’altra parte di quei fantasmi è la convinzione che siamo migliori degli altri, a causa della nostra mera appartenenza a questa nazione (alla gente piace essere migliore). La terza parte di quei fantasmi è una narrazione del nostro glorioso passato e del terribile stato in cui ci troviamo oggi. Naturalmente, quella narrazione contiene la promessa che, non appena diventeremo abbastanza folli, restituiremo tutto ciò che abbiamo avuto nel glorioso passato. So per esperienza che è più difficile diventare sobri se ci si ubriaca mescolando bevande, e in questi nostri fantasmi avete esattamente una miscela di bevande.
Sulla cultura pura
Proprio come non può esserci vita pura, non può esserci nemmeno cultura pura. Tu, mentre vivi, sei connesso a tutto. Ogni residente di questa città ha esperienza di cattolicesimo, ortodossia, ebraismo, islam, cultura serba, croata, ebraica, russa, inglese, tedesca. La nostra idea del romanzo si basa su Bora Stanković, tanto quanto su Alija Isaković, Meša Selimović, Ivo Andrić… E poi sono arrivate alcune persone che giustificano le catene con la cultura, il desiderio di pura cultura…”
Sulla libertà e la paura
Un uomo spaventato non è capace di libertà. Invece di confidare nella vita, nel mondo, nell’esistenza, in Dio, negli altri, un uomo spaventato ha solo dipendenza. Un uomo spaventato riconosce solo le sue dipendenze.
Dževad Karahasan (Duvno, oggi Tomislavgrad, 1953 – Vienna, 2023), dopo il liceo classico si iscrive all’università di Sarajevo e si laurea in letteratura e teatro. Drammaturgo, ha diretto il Teatro Stabile di Zenica e organizzato vari festival teatrali nazionali. Docente di drammaturgia all’accademia delle Arti Teatrali di Sarajevo, ne diventa preside all’inizio dell’assedio. Ha insegnato come visiting professor in parecchie università europee: Salisburgo, Innsbruck, Berlino, Gottinga.
È stato insignito di diversi premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Herder (1999), il Premio della Fiera del libro di Lipsia per le relazioni europee (2004), il Premio onorifico della Heinrich-Heine-Gesellschaft (2012) e la Medaglia-Goethe (2012).
È autore di oltre una dozzina di opere, tradotte in venti lingue. Di questi, tradotti in italiano: Istočni divan, Sarajevo 1989 [Il divano orientale, Il saggiatore, Milano 1997]; Dnevnik selidbe, Zagreb 1993 [Il centro del mondo. Gli insegnamento esoterici dell’esilio di Sarajevo, Il saggiatore, Milano 1995 e 1997] di cui alcuni testi sono stati poi inseriti nella raccolta di autori VV. “Sarajevo, il libro dell’assedio” (ADV 2012).
Nel 1990, il romanzo Istočni divan ha ottenuto il premio come miglior libro della Federazione jugoslava.
Il suo ultimo libro uscito nel 2022, intitolato Uvod u lebdenje [Introduzione al galleggiamento], è ambientato a Sarajevo nella primavera del 1992. Qui l’intervista da noi pubblicata di recente.