Karabakh, l’invalicabile confine

Una delegazione del Parlamento europeo aveva in programma di recarsi da Baku in Nagorno Karabakh senza passare per la Georgia. Ma l’attraversamento di questo confine non riconosciuto si è rivelato per l’ennesima volta impossibile. Le riflessioni di Paolo Bergamaschi, Consigliere per gli Affari esteri del Parlamento europeo, su questo conflitto in cui la diplomazia non riesce a sbloccare lo status quo

11/05/2012, Paolo Bergamaschi -

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(coriehowell/flickr )

Questa volta pensavo davvero di farcela. È da quindici anni che cullo l’idea di poter attraversare la linea di contatto che separa i territori occupati dall’esercito armeno nei primi anni novanta dal resto dell’Azerbaijan. Ci avevo provato nel 1999, ai tempi in cui il Parlamento Europeo aveva affidato allo svedese Per Gahrton il compito di redigere la prima relazione sullo stato dei rapporti fra Unione Europea e il Caucaso meridionale e poi ancora nel 2005 con l’eurodeputata francese Marianne Isler-Beguin, Presidente delle Delegazione per le Relazioni con Armenia, Georgia e Azerbaijan. Sorrisi ed incoraggiamenti sia da Yerevan che da Baku ma nulla più. L’iniziativa era naufragata tra i veti incrociati della diplomazia internazionale. Quando quest’anno la Commissione Esteri ha deciso di inviare per la prima volta una missione ufficiale nella regione ho immediatamente rispolverato il mio vecchio sogno, rintanato ma mai abbandonato nel fondo di qualcuno dei cassetti del mio ufficio.

Il potente presidente tedesco Elmar Brok con una lettera ufficiale ai due ambasciatori ha ripreso la proposta sottolineando la valenza simbolica dell’azione in un contesto di ritorno al dialogo e ristabilimento della fiducia fra le parti. Gli ultimi vertici a Sochi e a Kazan fra i due capi di stato sotto la regia russa, infatti, lasciavano presagire un graduale scongelamento delle relazioni con l’apertura di un concreto spiraglio negoziale. Le prime risposte sembravano incoraggianti, con una adesione entusiasta dalle autorità azere ed un sostegno positivo, anche se sfumato, dal lato armeno. Poi nella definizione dei dettagli sono emersi i primi ostacoli che si sono gradualmente trasformati in un insormontabile diniego. Nelle occasioni precedenti erano stati gli azeri a far fallire l’operazione, questa volta è toccato agli armeni troncare ogni ulteriore discussione. Passare nell’Alto Karabakh dal territorio azero come previsto dal programma equivarrebbe, secondo il governo di Yerevan, al riconoscimento della giurisdizione di Baku su una regione che gli armeni, dopo la conquista sul campo di battaglia, non hanno alcuna intenzione di cedere.

Diplomazia infinita

Solo chi si avventura per la prima volta sul terreno accidentato del conflitto in Nagorno Karabakh può illudersi che la soluzione sia a portata di mano. Ai feroci scontri ed i massacri conclusi con il cessate-il-fuoco del 1994 è subentrata una lunga fase di calma apparente costellata da inutili quanto velleitari sforzi diplomatici volti a definire un quadro negoziale che portasse ad un piano complessivo di pace. Ventimila morti, più di un milione fra rifugiati e sfollati, il venti per cento del territorio azero occupato dalle forze armene e l’intera situazione geopolitica della regione sconvolta. Da una parte gli azeri con i cugini turchi a rompere le relazioni con Yerevan sigillando le frontiere, dall’altra gli armeni cui non resta che affidarsi all’Iran e alla Georgia per evitare lo strangolamento terrestre con i russi a ritagliarsi il ruolo di arbitro, al di sopra delle parti, dopo avere pesantemente interferito nel conflitto a favore dell’Armenia.

Ogni volta che torno nel Caucaso si ventilano nuove iniziative e si rinfocolano speranze di pace vuoi per una rinnovata disponibilità dei due lati, vuoi per una mutata situazione politica, vuoi perché Mosca deve dimostrare alla comunità internazionale di essere un partner affidabile in grado di svolgere un ruolo responsabile in quello che considera ancora il cortile di casa. Diciotto anni persi, siamo pressoché al punto di partenza. Nel frattempo, però, l’Azerbaijan ha moltiplicato in modo esponenziale il bilancio delle proprie forze armate mentre l’Armenia si è affidata ancora di più alla tutela di Mosca incrementando nelle basi militari russe che ospita sul proprio territorio il numero dei soldati, che provvedono anche al controllo delle frontiere. Baku non rappresenta più il paese scalcinato obbligato, di fatto, a sottoscrivere la resa alle forze occupanti. Il boom economico derivante dai proventi di gas e petrolio ha rimpolpato a dismisura le casse dello stato. Corteggiati da tutti i lati e vezzeggiati in tutti i consessi internazionali, i leader azeri hanno acquisito consapevolezza del proprio potenziale che si è tradotta in sicurezza psicologica, convinzione dei propri mezzi e assertività nelle richieste. L’Azerbaijan investe oggi in spese militari più di quanto l’Armenia spende annualmente nell’intero bilancio di stato. La linea di contatto concordata tra le parti con il cessate il fuoco è incandescente con incidenti, morti e feriti ogni mese. Sono molti gli osservatori che prevedono un’escalation militare nel giro di breve tempo.

Osce, l’"organizzazione dello status quo"

Negli ambienti diplomatici l’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa (Osce) passa ironicamente per l’organizzazione dello “status quo”. Nata ai tempi della guerra fredda rappresentava il ponte fra i paesi del vecchio continente divisi dalla cortina di ferro in due rigide alleanze militari contrapposte, la Nato ed il Patto di Varsavia. Sopravvissuta al crollo del muro di Berlino è stata riconvertita ad organo deputato ad accompagnare la transizione democratica degli ex-paesi comunisti e a svolgere ruoli di mediazione e pacificazione nei conflitti scoppiati con lo sgretolamento della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica. “I processi di pace gestiti dall’Osce”, mi confidavano amichevolmente gli ambasciatori incontrati occasionalmente durante i miei primi viaggi nelle regioni di guerra, “sono destinati a non trovare sbocco alcuno rimanendo perennemente congelati”.

Ed è proprio la definizione di “conflitti congelati” quella che ricorre più frequentemente quando si parla di Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh. Nessuno, di questi a distanza di quasi vent’anni dalla cessazione ufficiale delle ostilità, ha preso una piega decisa verso una composizione pacifica globale, nessuno ha avuto un impulso credibile verso un compromesso sostenibile fra le parti. A meno che non si consideri un progresso sostanziale la crisi dell’agosto del 2008 in Ossezia del Sud con le forze di Mosca intervenute a liberare Tskhinvali e dintorni dall’esercito georgiano e il successivo riconoscimento da parte russa dell’indipendenza dell’Ossezia e dell’Abkhazia. Punto a capo. Si riparte con i principi definiti a Madrid nel 2009 che prevedono il ritorno dei territori che circondano il Nagorno Karabakh all’Azerbaijan, uno statuto provvisorio per la stessa enclave armena con un corridoio che la collega direttamente all’Armenia, un referendum in cui le popolazioni del Nagorno Karabakh possono esprimere liberamente la propria volontà, il ritorno dei rifugiati ai luoghi originari di residenza e una missione internazionale di mantenimento della pace a garanzia della sicurezza delle operazioni. Accettati da ambo le parti i sei punti richiedono, in apparenza, solo l’applicazione non fosse che per l’Armenia tutto il piano andrebbe messo in atto simultaneamente mentre per l’Azerbaijan l’implementazione dovrebbe essere graduale lasciando la determinazione dello statuto finale dell’Alto Karabakh come ultima fase.

A volte mi chiedo se i diplomatici provino mai qualche frustrazione quando si rendono conto che i loro sforzi non portano da nessuna parte. È una questione di professionalità oltre che di dignità. Le prestazioni in genere sono commisurate ai successi. Non è così per questa categoria. La presidenza tripartita del cosiddetto Gruppo di Minsk delegato in seno all’Osce a promuovere il processo di pace non ha cavato un ragno dal buco. Russia, Francia e Usa hanno condotto i negoziati in tutti questi anni senza produrre alcun risultato tangibile sul terreno. Armenia ed Azerbaijan rimangono distanti anni luce non solo nel merito ma anche nella forma. Il Nagorno Karabakh continua ad essere un campo minato sia sul piano pratico che su quello teorico. Occorrerebbe un sussulto di orgoglio, un lampo di creatività, anche un piccolo gesto per sbloccare il processo di pace ma all’orizzonte non si intravede nulla. L’attraversamento della linea di contatto da parte di una delegazione del Parlamento Europeo avrebbe potuto rappresentare l’apertura di un primo varco in una barriera quasi impenetrabile, oltrepassata solo eccezionalmente dal personale dell’Osce incaricato di monitorare il cessate-il-fuoco.

Cui prodest?

In questo viaggio ho provato a chiedere ai miei interlocutori a chi giova l’attuale situazione di stallo. All’Armenia, hanno risposto all’unisono gli azeri incontrati, perché più passa il tempo più l’occupazione si consolida sul terreno e Yerevan conta di fare accettare il fatto compiuto. Per gli armeni, invece, è l’elite al potere in Azerbaijan che trae beneficio dallo stato di guerra puntando sulla demonizzazione del nemico per mettere a tacere l’opposizione interna ed evitare qualsiasi riforma democratica. Un analista di un think-tank che incontro a Yerevan non manca di rilevare, ironicamente, che gli unici a guadagnarci sono i diplomatici dell’Osce con tessera ”frequent-flyer” che fanno la spola fra il Caucaso meridionale ed i rispettivi paesi di origine.

In realtà chi ha tutto l’interesse che il conflitto non si ricomponga è la Russia che tiene in scacco sia l’Armenia che l’Azerbaijan in un’area nevralgica per il controllo delle risorse petrolifere e dei corridoi di transito. Da una parte Yerevan non potrebbe sopportare una nuova guerra senza la protezione militare russa, dall’altra l’unica speranza per Baku di riottenere il controllo dei territori occupati è la cessazione dell’assistenza russa all’Armenia. Ciò, però, può avvenire solo in cambio di un assoggettamento della politica estera azera agli interessi geostrategici di Mosca, cosa che Baku si guarda bene dal fare. La diplomazia europea si muove prudente in questo rompicapo sempre più ingarbugliato per evitare di scontentare le parti con il risultato che alla fine tutte le parti si lamentano della scarsa efficacia dell’azione dell’Unione.

Tbilisi

Non mi dispiace ritornare a Tbilisi anche se avrei preferito farlo in condizioni diverse. Da Baku a Yerevan, però, non esiste alcun collegamento diretto (anche le linee telefoniche sono interrotte) e la capitale georgiana è il punto di passaggio obbligato per chi deve visitare i due paesi in guerra. È un comodo aereo delle aviolinee del Qatar quello che mi conduce a Tbilisi nella tarda serata. Una passeggiata nel Meidan, la parte vecchia della città, è il miglior modo per rimettere ordine ai miei pensieri dopo gli incontri di Baku e prepararmi alla trasferimento del giorno successivo a Yerevan. La scarsa illuminazione rende i miei passi più incerti anche se la ridotta velocità mi consente di apprezzare particolari architettonici che mi erano sfuggiti in altre occasioni. Purtroppo le case pericolanti, puntellate dopo il terremoto del 2002, sono crollate o, forse, sono state rase al suolo lasciando un vuoto che sarà presto colmato da qualche nuovo edificio in stridente contrasto con lo stile di quelli vicino. L’influenza occidentale sta gradualmente cambiando le abitudini alimentari e invece di una classica cena con menù caucasico che stavo già pregustando mi devo adeguare ad un asettico pasto europeo con un piatto di insalata di roquefort e noci seguito da pannacotta nel ristorante di una nota catena internazionale di hotel. È il momento di riprendere per qualche ora gli affari della Georgia che si sta preparando alle elezioni generali previste in autunno precedute, come sempre, da accuse al governo di manipolazione e censura da parte delle forze di opposizione. Anche sul fronte osseto ed abkhazo nulla di nuovo salvo qualche lieve miglioramento per quanto riguarda i profughi che ogni giorno si muovono avanti e indietro dalle rispettive proprietà collocate, adesso, oltre linee amministrative che la Russia ha trasformato in confini di stato. Più il presidente georgiano Saakashvili si avvicina a Washington più si approfondisce il solco che ormai divide la Georgia dai due ex territori autonomi. Con buona pace per tutte le risorse diplomatiche investite dalle organizzazioni internazionali nella regione, Osce in testa.

Risoluzione dei conflitti e democrazia vanno di pari passo? È l’interrogativo che sempre più spesso mi pongo alla luce delle mie esperienze nei Balcani e nel Caucaso, per non parlare di Cipro dove nel 2004 l’accordo di pace faticosamente negoziato dalle parti è stato fatto saltare con il netto "no" espresso dalla comunità greco-cipriota nel referendum convocato per l’occasione. Ovunque chi urla più forte vince le elezioni, ovunque chi promette guerra sembra avere partita vinta nei confronti di chi si batte per la pace, ovunque i falchi prevalgono sulle colombe. È un duro colpo alla mia formazione e alle mie convinzioni più profonde. Sul Nagorno Karabakh, Armenia ed Azerbaijan non perdono occasione per scambiarsi accuse reciproche e speculare sulla cultura del nemico quando l’obiettivo principale di chi si trova al potere sarebbe quello di preparare il terreno al compromesso nelle rispettive opinioni pubbliche. La retorica dello scontro porta voti, quella dell’incontro no. Chi a Yerevan predicava la necessità di qualche dolorosa rinuncia è stato messo ben presto a tacere così come nessuno a Baku si azzarda a contraddire la versione ufficiale delle autorità nel timore di qualche dura reprimenda. Anche questa volta sono costretto a riporre il mio sogno nel cassetto ma non mi arrendo. I tempi corti della democrazia e quelli lunghi della diplomazia, purtroppo, mi daranno modo di riprovarci.

*Consigliere per gli Affari esteri del Parlamento europeo

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