Kakheti, nella valle del vino
È costruito di colori e profumi questo reportage che ci porta nel villaggio di Alvani, in Georgia. Alla scoperta di un paesaggio rurale dove domina la vite
Canta un gallo. Mi sveglio. Dove sono? Dove volevo essere, nel passato.
È una mattina estiva come tante altre, ad Alvani. Sorge il sole, il gallo canta. I fiori, nonostante il caldo, sono vivi e rigogliosi, coi loro colori e la loro vitale delicatezza riempono di dettagli gioiosi le mura crepate dal tempo. Con passo tremolante scendo le scale della grande casa dove ho passato la notte. Al pianterreno (che qui si definisce, alla russa, primo piano) il padrone di casa ci aspetta già – la colazione sul tavolo. "Dovresti bere un bicchierino di čača (liquore fatto in casa), gogo (ragazza), altrimenti non puoi cominciare la giornata". Rabbrividisco – ma sono in Georgia da abbastanza tempo per sapere che il nostro ospite non avrebbe accettato un “no” come risposta. Rosicchio una fetta di cetriolo e mando giù il bicchierino. Bisogna inspirare tutta l’aria possibile, poi ingollare lo spirito tutto d’un sorso, e poi buttar fuori l’aria, mi era stato spiegato. Funziona: con l’aria butti fuori la quantità extra di alcool a 70° evaporato all’interno del tuo povero palato.
Alvani è un villaggio nella regione di Kakheti – Cachezia, in italiano, ma noi utilizzeremo per ovvie ragioni il toponimo originale – abitato in larga parte da tusceti, e si trova lungo la riva “destra” (settentrionale) del fiume Alazani. Come altri villaggi analoghi, Alvani è collegato al mondo tramite una strada, definita iperbolicamente “di rilevanza interna”, ed è spesso tappa intermedia nel percorso che porta alcuni viaggiatori dalla capitale ai monti della Tuscezia, tramite quella che la BBC ha definito “una delle strade più pericolose al mondo”.
Secondo quanto riportato nella “Kartlis tskhovreba” (collezione medievale di cronache storiche georgiane), il rapporto fra i tusceti e la valle dell’Alazani sarebbe stato regolamentato per la prima volta a metà del XVI secolo, quando il Re Levan avrebbe concesso al popolo di montagna, in cambio della lealtà di questo, di pascolare le proprie greggi a valle, e di costruire lì i villaggi di Alvani – Kvemo (bassa) e Zemo (alta).
Ma ancor più affascinante è come ciò venga spiegato secondo la leggenda. Nel 1695 ebbe luogo la battaglia di Bakhtrioni – una Lepanto in salsa tkhemali (intingolo a base di prugne acerbe, ottimo con carni… e tutto il resto) – che vide opporsi il regno di Kakheti ai Safavidi persiani. Benché in ultimo fallimentare – i persiani continuarono a regnare su Kakheti – la battaglia, nella quale i popoli di montagna khevsuri, pshavi e tusceti si distinsero combattendo per il regno georgiano, entrò presto nella memoria collettiva di questa nazione, anche tramite grandi opere letterarie ad essa dedicate, come il poema “Bakhtrioni” di Vazha Pshavela. Fu dopo la presa di Bakhtrioni che il re di Kakheti volle premiare il coraggio e la lealtà dei popoli di montagna assegnando loro delle terre. Così, i tusceti, guidati da Zezva Gap’rindauli, chiesero che fossero loro assegnate le terre fin dove il cavallo di Zezva fosse arrivato a galoppare. Ma il destriero, già affaticato dalla battaglia, dopo aver passato qualche villaggio lungo l’Alazani, si accasciò stremato, e morì. Ed è da allora che secondo la narrazione popolare, i tusceti abitano la valle dell’Alazani.
Dopo la colazione, esco sotto il sole cocente per fare qualche foto. Attorno a me le galline razzolano libere nelle strade di campagna, nei cortili delle case grandi e assurde, anziane contadine siedono velate di nero secondo quanto previsto dall’usanza ortodossa in occasioni di lutto.
Il sole illumina di giallo le grandi strade sterrate e bianche, e ad ogni angolo si scoprono paperelle, bestiame da cortile e fienili dorati.
Posteggiate a fianco dei cancelli, ci sono molte di quelle leggendarie “Lada”, che ricordano di villeggiature intra-sovietiche, con le valigie allacciate sui tetti, e spesso, dentro i cortili, fanno sfoggio della propria immortalità quei camion bombati, “GAZ”, di colori turchese sbiadito o verde militare.
Ciondolando sognante, incontro un anziano contadino, che sta foraggiando i suoi vitelli. Sorride, mi porta a casa sua dove la moglie, che sta lavorando il nadughi (un formaggio fresco a metà fra la ricotta e i fiocchi di latte), mi accoglie con un caffè e quattro chiacchiere.
Saluto, e ricomincio a vagabondare per Alvani.
Arrivata alla piazza centrale, scorgo uno strano monumento: è una statua di Stalin, che troneggia in mezzo a un muro in memoria dei morti del paese. La statua venne rimossa nel 2012, e reinstallata per volere di alcuni abitanti di Zemo Alvani dopo un anno, in occasione del 133esimo compleanno dello statista georgiano. Benché i crimini della sua dittatura siano ricordati e documentati, la sua rimane una figura la cui memoria è controversa, specialmente in Georgia, sua terra natale. Il monumento, dopo essere stato rimosso, poi reinstallato, poi dipinto di rosa, poi ripulito… rimane lì, in un angolo che un passante ha definito “uno dei nostri posti segreti”, voluto indietro da chi ricorda ancora “come la nonna pianse quando Stalin morì”.
Ma a pochi isolati da quella piazza, c’è chi ci spiega bene perché di quel passato non abbia alcuna nostalgia.
"Questa casa fu costruita più di cent’anni fa dal mio bisnonno", mi racconta Shota, vinificatore. Quando, dopo la breve esperienza di indipendenza della Repubblica Democratica di Georgia (1918-1921) la regione venne occupata dai bolscevichi, fra le varie ordinanze venne il divieto di costruire case a due piani. "Ma ci sono molti modi per adattarsi", così molti abitanti della regione elusero il problema dichiarando il primo piano una “cantina”. "Certo, il tetto doveva essere piuttosto basso…", ma la casa di Shota sopravvisse. E adesso, in quella casa, si continua come allora a produrre vino naturale e ad accogliere ospiti.
La cultura del vino
La cultura del vino e dell’accoglienza, in Georgia, fanno parte dell’identità nazionale. La domesticazione della vitis vinifera e il suo uso per vinificare risalgono, secondo uno studio condotto dal Museo nazionale della Georgia in collaborazione con l’Università della Pennsylvania e fra, gli altri, l’Università degli studi di Milano e il Museo lombardo di storia dell’agricoltura a Sant’Angelo Lodigiano, addirittura al VI millennio a. C..
La produzione di vino naturale avviene all’interno della qvevri, un’anfora di terracotta la cui peculiare fattura richiede la maestranza di artigiani specializzati. La qvevri viene seppellita sotto terra in modo che la temperatura si mantenga costante anche in assenza di condizionamento atmosferico. Attualmente, le terre attorno l’Alazani, tanto benedette da non necessitare neppure di irrigazione, vista la continua umidità del terreno prodotta dal discioglimento dei ghiacci montani, producono vitigni bianchi, quali lo Rkatsiteli e lo Mtsvane, e il famosissimo rosso Saperavi.
Il vino naturale che ne viene estratto è detto vino ambra, con riferimento al colore ambrato dei vini bianchi, e forse, anche al suo aroma particolarissimo, visto che “vino ambra” viene chiamato anche il rosso prodotto con metodo naturale, ma che di color ambra non è di certo.
Naturalmente, un tale radicamento tecnico non può che accompagnarsi a una tradizione dagli aspetti antropologici davvero marcati. La produzione di vino naturale nelle qvevri è uno degli esempi di commistione fra produzione agricola e vita che avviene in queste valli. Per fare degli esempi: per purificare il vino già parzialmente fermentato dalle bucce e raspe contenute nella qvevri originaria, esso viene travasato in un’altra qvevri: tale processo è designato, con un’immagine molto suggestiva, con la locuzione di “separazione dalla madre”.
Oppure: è usanza, in occasione della nascita di un figlio, di preparare una qvevri dedicata a questi, che sarà utilizzata solo nel giorno del suo matrimonio. Inoltre, in occasione del passaggio a miglior vita di un viticoltore, era uso che venisse seppellito all’interno di una delle proprie qvevri. Tutti costumi che evidenziano lo stretto rapporto fra le fasi della vita individuale e quelle della produzione del vino; rapporto che non manca neppure al livello sociale, quando si pensa al ruolo che la supra, la tradizionale tavolata, svolge tutt’oggi fra i georgiani, e che salta all’occhio anche appena arrivati nella capitale, quando si scorge il monumento alla Deda Kartlis, la madre dei Kartli, che tiene nella mano destra una spada – per i nemici, nella sinistra una coppa di vino – per gli ospiti.
La supra
Dopo la visita alla cantina, dove le qvevri sono al lavoro sepolte sotto terra e gli attrezzi sono gli stessi di quelli di secoli fa, Shota ci invita alla sua tavola. La grande tavola di legno viene imbandita con diversi piatti di portata, tutte pietanze tipiche, fatte in casa con ingredienti naturali. C’è la tradizionale insalata di pomodori e cetrioli; ci sono formaggi straordinari: l’imeruli, un formaggio fresco e lattiginoso della regione di Imereti, e il gouda, un formaggio stagionato o semi-stagionato di pecora tipico di Tusheti; c’è il pane a forma di barca, lo Shotis puri, fatto nel tipico tone, forno di argilla; c’è pane anche per i celiaci, l’ottimo mchadi, fatto interamente di farina di mais; ci sono gli pkhali, dei companatici nel vero senso della parola, che comprendono diversi tipi di paté vegetali e il nadughi insaporito con mentuccia ed erba cipollina; ci sono gli mtsvadi, tocchetti di carne arrostiti alla brace; c’è il chashushuli, una particolare ricetta di carne in umido (tradizionalmente agnello, ma spesso manzo o addirittura coniglio)… e c’è il vino, un sacco di vino.
A capo tavola, siede il tamada, né più né meno che il simposiarca greco, che detta i tempi e gli argomenti dei brindisi che scandiscono il banchetto. Esistono delle sequenze classiche di brindisi, ma il nostro tamada va a stile libero, intervallando il pasto con spiegazioni sulla produzione e sulle specificità dei vini che berremo. I convitati, via via meno timidi, sono incoraggiati a proporre un brindisi a ciò che sta loro maggiormente a cuore. La famiglia, i cari morti, gli amici lontani, la vita che verrà, la pace nel mondo come Miss Italia, si brinda di cuore, assieme con persone che un’ora prima non avevi mai visto. È la supra. Un’esperienza mistica.
I vigneti e il Grande Caucaso
Con la pancia piena e una certa allegria nell’aria, Shota ci invita a visitare i suoi vigneti. Saliamo su una jeep e ci avviamo. Usciti dal paese, ci addentriamo nella campagna. Attraversiamo dei campi pieni di fiori, da lontano si scorge un antico monastero. Dei cani simili a orsi beige ci inseguono abbaiando – sono i pastori del Caucaso, e lì vicino brucano inebetite e pacifiche le loro greggi. Per arrivare ai vigneti dobbiamo guadare un fiume: è una parte meno profonda dell’Alazani. Ci divertiamo come bambini. Fra ciottoli umidi, sabbia, sterpaglie, arriviamo infine agli ordinati viottoli fra le vigne.
Scendendo dall’auto ciò che vedo è indescrivibile. I filari di vite, ordinati e già carichi di frutti, prendono il sole del tardo pomeriggio. Alle spalle le montagne, il Grande Caucaso. I colori che degradano dal cielo azzurro al marrone della terra dissodata sulla quale poggio i piedi, cangiano dal verde profondo delle foreste sui monti, al blu inverosimile delle parti già adombrate. Le foglie brillano verdi illuminate dal crepuscolo incipiente. Presto quel cielo si tinge di rosa. Torniamo indietro, prima che arrivi il buio.
Siedo al fresco secolare di questa grande casa antica. Sui muri in pietra, tradizionali tappeti colorati, un ritratto di Erekle II, grandi tavole in legno pesante e flaconi pieni di alcolici ed erbette. Fuori un pergolato, con dei piccoli fiori rosa, vita che si arrampica sulle travi sottili. Una donna prepara churchkhela – dolce a base di vinaccia e noci. L’atmosfera è quieta, silenziosa, mi ricorda la campagna siciliana dove sono cresciuta – ma è più verdeggiante.
Non fosse per ciò che resta del passato sovietico, questi paesaggi bucolici, nella loro calma immutabile, sembrerebbero proprio gli stessi di quelli dei dipinti di Pirosmani, che col suo primitivismo “naif” ha colto l’anima idillica di un mondo pastorale che, nonostante tutto, non accenna a tramontare.
Presto, anche grazie a investimenti italiani, Tusheti e le regioni periferiche e montagnose della Georgia non saranno più esclusivamente raggiungibili tramite “strade di rilevanza interna”, ma con infrastrutture all’avanguardia progettate e realizzata da consorzi internazionali, come presentato al recente “Italy-Georgia Business Forum” a Tbilisi.
Questa è un’ottima occasione per coloro che cercano un investimento all’avanguardia, o, per coloro che come me amano viaggiare nel tempo, per affrettarsi a visitare questa meravigliosa regione.