Jugoslavia: vacanze pagate, motore di modernizzazione
Dopo la Seconda guerra mondiale il giovane stato jugoslavo intende educare le masse operaie. E per farlo milioni di famiglie vennero mandate in vacanza sulla costa dell’Adriatico, a volte anche contro la loro volontà. Un’intervista allo storico Igor Duda
(Pubblicato originariamente da Lupiga il 26 febbraio 2014, selezionato e tradotto da Le Courrier des Balkans e OBC)
“La nostra magnifica costa dalmata è un luogo perfetto per mandarci in vacanza le masse operaie della Repubblica federale jugoslava. Dobbiamo creare stazioni balneari e sanatori, affinché tutti coloro i quali lavorano e contribuiscono alla costruzione della nostra comunità possano riposarsi per essere pronti a rimettersi al lavoro”.
Queste parole sono state pronunciate da Josip Broz Tito nel 1946, a Spalato, in occasione dell’adozione della normativa sulle vacanze pagate ai lavoratori, ai salariati e ai funzionari jugoslavi. Per lo storico Igor Duda, specializzato nella storia dell’industria del turismo e del divertimento, professore presso l’Università di Pola, questo “turismo sociale” fu motore della modernizzazione della società jugoslava.
Quando possiamo collocare le prime forme di turismo in Jugoslavia e cosa si intende per “turismo sociale”?
Sino alla prima metà degli anni ’60 la maggior parte dei cittadini jugoslavi, sovente ex contadini divenuti poi operai o funzionari di basso livello che non erano mai andati in vacanza prima della guerra, approfittarono delle vacanze pagate nel quadro di quello che viene chiamato “turismo sociale”.
Subito dopo il conflitto i lavoratori erano, per alcuni versi, forzati a riposare. Venivano distribuiti dei “biglietti per le vacanze” e li si mandava in particolare in Croazia, in quelle che si chiamavano “stazioni balneari di stato” (centri che appartengono ancora spesso ad aziende statali, ndt).
In questi complessi alberghieri vi erano letti per tutta la famiglia, con poi cucine e bagni in comune. I lavoratori potevano così riposarsi in compagnia dei colleghi. Questo “turismo sociale” aveva innanzitutto lo scopo di abituare la popolazione ad andare in vacanza. All’epoca infatti solo una parte del tutto marginale della società, parte della borghesia urbana, aveva l’abitudine di fare delle vacanze. Ma dopo la Seconda guerra mondiale lo stato comunista creò una nuova classe industriale e risultava essenziale riprodurre per questa classe le abitudini delle classi medie urbane.
Le vacanze pagate vennero così viste come un passaggio obbligato verso la creazione di uno stato moderno, di contrappunto al lavoro. Occorreva riprendere forze per poter essere più efficaci nelle fabbriche. Per contro la reazione degli operai negli anni ’50 fu spesso di sfiducia: “Non è roba per noi, è roba da signori, noi non abbiamo quelle abitudini”.
Le proposte e le idee per incoraggiare gli operai a partire in vacanza allora iniziarono a fiorire. Venne proposto ad esempio che fossero i turisti a portarsi lenzuola e tovaglioli: questo avrebbe permesso di fare delle economie nella gestione delle stazioni balneari ma soprattutto serviva a convincere i più recalcitranti ad andare, almeno per qualche giorno, lontano da casa loro.
All’inizio degli anni ’50 gli operai erano più disposti a partire per gite di un giorno ma avevano comunque ancora timore a lanciarsi verso ciò che non conoscevano. Alla fine del decennio però le stazioni balneari affidate alle aziende statali e alle fabbriche erano pressoché sempre al completo durante i tre mesi estivi.
A partire dagli anni ’60 la mentalità cambiò. Molti impiegati iniziarono a chiedersi se avevano voglia di trascorrere due o tre settimane in vacanze pagate e in compagnia dei colleghi, con cui erano in contatto tutto l’anno. E molti preferirono essere solo con i propri cari, senza dover porre attenzione a cosa si diceva e come ci si comportava.
All’epoca infatti la società era collettivista: si lavorava insieme, si riposava insieme. Ora si potrebbe definire “teambuilding”.
Per ragioni sociali o per un avanzamento lungo la scala sociale alcuni lavoratori cominciarono allora a rifuggire le stazioni balneari delle aziende. I vacanzieri iniziarono ad affittare camere d’albergo, a dormire a casa degli abitanti del posto, a fare campeggio e a far visita a parenti che abitavano sulla costa.
Quand’è che la costa adriatica ha iniziato ad attirare turisti stranieri?
Gli anni ’60 rappresentano una chiave di volta per il turismo in Jugoslavia. E’ a partire da quegli anni che si inizia ad interpretare il turismo come un possibile volano per l’economia.
Lo stato socialista nota che quest’attività genera risorse e può divenire fonte di valuta straniera, indispensabile per mantenere equilibrato il budget federale. La seconda metà degli anni ’60 è un periodo importante per la Croazia. Per la prima volta nella sua storia la costa dalmata accoglie più turisti stranieri che jugoslavi.
E’ in quel periodo inoltre che i turisti jugoslavi iniziano a pagare camere d’albergo e iniziano a frequentare sempre meno le stazioni balneari statali. Il 1967 è designato come “anno mondiale del turismo”. La Jugoslavia abolisce i visti ed apre le sue coste al mondo intero. Da allora i turisti internazionali saranno sempre maggiori di quelli jugoslavi.
E’ in quel momento che inizia la costruzione di grandi strutture turistiche sulla costa adriatica, sforzo edilizio che perdurerà sino alla metà degli anni ’70…
Si, si inizia a costruire grandi hotel e bungalow, soprattutto negli anni ’70. La politica del governo è ancora quella di fare del turismo uno strumento di armonizzazione sociale, destinato ad attenuare le disparità di classe e ad insegnare alla classe operaia a fare vacanze e divertirsi.
Nel 1986 in Croazia vi sarà un picco di viste, 86 milioni di pernottamenti, di cui 27 milioni di turisti jugoslavi. Ma negli ultimi due decenni della Jugoslavia solo un soggiorno turistico su quattro di quelli locali era effettuato in stazioni balneari statali.
Ma questo “turismo sociale” ha veramente cambiato le abitudini jugoslave?
Senza alcun dubbio. Prima dell’adozione di questi provvedimenti andare in vacanza era sostanzialmente inimmaginabile. Alla fine degli anni ’40 si inviava la gente in “vacanze forzate” nel quadro dei “divertimenti comandati”. Le stazioni balneari hanno permesso di democratizzare le vacanze.
Poi i lavoratori non sono più stati forzati ad iscriversi nelle liste. Chi voleva partire aveva la possibilità di farlo. Negli anni ’70 poi le località turistiche hanno iniziato a fare profitti.
Io credo che questi provvedimenti siano stati indispensabili per creare un mercato turistico. Si è riusciti a vendere il prodotto “vacanze” ai consumatori, vendendone di fatto il loro “ruolo sociale”.
Il turismo faceva allora parte del contratto sociale ed è stato allo stesso tempo simbolo e motore della modernizzazione.