Jugoslavia: “Il muro è morto, viva il muro!”

Il muro di Berlino è caduto trent’anni fa, da allora molti altri muri sono stati costruiti. Uno sguardo verso il passato e il presente dell’Europa dell’antropologo Ivan Čolović

06/11/2019, Ph.B. -

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Muro di Berlino (pixelklex/shutterstock)

(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 3 novembre 2019)

Sono trascorsi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e molta acqua è passato sotto i ponti. Come descrivereste la situazione attuale dei paesi dell’ex blocco dell’est?

Dieci anni fa ho pubblicato per la casa editrice Biblioteka XX vek (“Biblioteca del XXmo secolo”) una raccolta di saggi di più autori titolata ‘Il muro è morto, viva il muro’. L’idea alla base era che a vent’anni dalla caduta del Muro si assisteva, in questa parte d’Europa, all’apparizione di nuovi piccoli muri e barriere. Si profilava una nuova linea di divisione… Oggi è evidente che si sta creando e consolidando una coalizione di stati ex comunisti che si oppongono ai valori europei. Ricordiamo che l’Unione è fondata sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto, dei diritti umani, ivi compresi i diritti di chi appartiene a delle minoranze. Nel 2007, con il Trattato di Lisbona, questa Carta dei diritti fondamentali ha acquisito valore giuridico e obbligatorio.

Ora, i valori evidenziati come prioritari da un gran numero di stati ex comunisti che sono divenuti membri dell’UE dopo la caduta del Muro si ispirano ai tre valori fondamentali cristiani ormai promossi dalla Russia: fede, patria e famiglia. Valori che contrastano con la speranza nata trent’anni fa che questi paesi sarebbero entrati in una fase di transizione e si sarebbero integrati nei valori liberali del ‘mondo libero’. Non è stato il caso. Come diceva Milan Kundera, "in Europa, l’Europa non è più percepita come un valore".

Com’era percepita la Jugoslavia all’epoca dagli altri paesi del blocco dell’est?

La Jugoslavia occupava una posizione a parte. Era indipendente o, piuttosto, semi-indipendente. Era per alcuni versi un esperimento. Grazie al Movimento dei non-allineati, nato nell’estate del 1956 con la dichiarazione di Brioni sottoscritta da Tito, Nasser, Soekarno e Nehru godeva di grande prestigio in Africa e Asia ma anche presso una parte della sinistra europea che vi vedeva un modello di decentralizzazione del potere ed il coinvolgimento del mondo del lavoro nel prendere le decisioni in ambito economico e politico. Certo, si trattava di una Jugoslavia immaginaria, molto diversa da quella reale. Per i nostri vicini dell’est la Jugoslavia ha sempre rappresentato l’Occidente. Occorre dire che capitali come Budapest, Praga o Varsavia erano, ai tempi, città molto povere.

Mi ricordo di una sera, rientrando dall’Europa, mi sono fermato a Budapest. Viaggiavo con la mia macchina con l’adesivo YU ed un piccolo gruppo di persone si è raccolto di fronte all’hotel dove alloggiavo. Abbiamo chiacchierato. Erano tutti rapiti dall’incontro. Un ragazzo voleva comprare la mia camicia, un altro faceva finta di baciare Tito e sputare Stalin… Ai loro occhi, noi jugoslavi, eravamo quasi americani, quasi liberi. Ecco perché il suicidio della Jugoslavia, qualche anno dopo, li ha sorpresi così tanto, mentre a casa loro la transizione si è svolta pacificamente.

E nel frattempo in Jugoslavia sono apparsi muri tra i nuovi stati…

E questi muri sembrano ancora più alti e insuperabili del Muro di Berlino. Occorre interrogarsi sulle cause interne che hanno portato alla disgregazione violenta della Jugoslavia. Queste forze distruttive soggiacenti le si ritrova nella storia dei nazionalismi.

Alla fine degli anni ’80 Slobodan Milošević si è impadronito del potere con uno slogan: "L’emancipazione del popolo". La sua propaganda sosteneva che ciò che era iniziato ad est stava già avvenendo in Jugoslavia e cioè che la rivoluzione anti-burocratica avrebbe portato all’“avvento del popolo” (serbo). A suo avviso, la Serbia era in prima linea in questi cambiamenti. Ecco perché, nei suoi discorsi, ha esaltato le "qualità democratiche innate" del popolo serbo. Questo era ovviamente un mito. In questo senso Milošević era un populista della prima ora. Tuttavia, con poche eccezioni, tra cui Ivan Stambolić che fu assassinato dieci anni dopo, l’élite comunista lo seguì: accettando di allearsi con l’opposizione nazionalista serba, si è trasformata in un’élite nazionalista. Può sembrare strano, ma durante i grandi raduni politici si poteva sentire la folla che in coro affermava: "Milošević, sei comunista, ti amiamo come Gesù Cristo"… La stessa trasformazione ha avuto luogo in Croazia, quando Franjo Tuđman, un ex generale di Tito, si è affermato come campione del nazionalismo. Anche lì, gli uomini dell’apparato sono riusciti a rimanere al potere liberandosi della divisa comunista. Va anche detto che l’ideologia comunista ha prevalso all’interno del progetto jugoslavo, con la lotta dei partigiani durante la Seconda guerra mondiale, mentre nei paesi orientali è stata imposta dall’esterno da Mosca.

È dall’inizio della “transizione” che intellettuali polacchi hanno iniziato ad interessarsi alle vostre opere e a tradurle…

Intorno al 1991-92, Magdalena Petryńska, addetta all’ambasciata polacca a Belgrado, specializzata in lingue e civiltà slave, mi raccontò della sua intenzione di tradurre in polacco scrittori locali. Da lì sono nati gli scambi tra intellettuali dei due paesi. Le questioni che più li interessavano riguardavano il ruolo della Chiesa e del nazionalismo, il mito dell’ideologia nazionale, la politica dei confini e dei simboli. Nel 1992, Adam Michnik, storico, giornalista, saggista ed ex attivista dell’opposizione polacca, ha partecipato alle riunioni del Circolo di Belgrado, una ONG indipendente fondata un anno prima e contraria al nazionalismo e alla politica di Milošević. Krzysztof Czyżewski, attivista interculturale, poeta, saggista, traduttore ed editore polacco, mi ha invitato alla Fondazione Pogranicze (Borderland) da lui creata al confine con la Lituania. A mia volta, ho pubblicato in serbo alcune delle sue opere, così come quelle di Andrzej Mencwel, scrittore e storico della cultura polacca… Queste condivisioni si sono presto diffuse ad altri paesi dell’est. Sto pensando in particolare a Vintilă Mihăilescu, un’antropologa culturale rumena che ha lavorato sul "fascino della differenza", o Maria Todorova, la famosa storica bulgara, autrice di “Immaginando i Balcani” che ho pubblicato in serbo nell’estate del 1999, subito dopo il bombardamento della NATO.

Avevate immaginato che la Jugoslavia si sarebbe disgregata?

No, assolutamente no. Ritenevo la Jugoslavia un paese stabile. Il mio amico, il sociologo Nebojša Popov, morto nel 2016, che aveva sostenuto apertamente Solidarność, e questo gli valse qualche giorno di prigione, era anche lui molto imbarazzato quando gli si poneva questa domanda. Poi, ha trovato una risposta: “Solo uno spirito criminale avrebbe potuto anticipare ciò che sarebbe poi accaduto”. Per condividere la mia cecità vi racconterò un aneddoto. Era l’estate del 1990, ero su un traghetto che mi portava su un isola della Croazia dove i miei genitori avevano costruito una casa. Improvvisamente un uomo si è avvicinato alla mia macchina, le ha dato un calcio urlando: "Questa non mi piace proprio". Si riferiva ovviamente alla targa che riportava BG, per Belgrado. Io non ho capito niente, pensavo non gli piacesse la mia Lada… Il problema è che ancor oggi non ci si può esimere, viaggiando in questi paesi dell’ex spazio jugoslavo, di essere timorosi. Nuovi muri sono cresciuti nelle nostre teste.

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