Ismet Prcić: schegge
Nel romanzo d’esordio di Ismet Prcić, giovane scrittore bosniaco trapiantato in California, la guerra esplode, inesorabile, nella propria interiorità. Una recensione
Il debutto sulla scena letteraria di Ismet Prcić (Tuzla, 1977) ha tutta la velocità, la follia, la dispersione casuale di una scheggia. La bomba cade, l’asfalto va in frantumi e la scheggia parte per un viaggio folle, brevissimo e imprevedibile, verso un nuovo schianto. Di schegge è fatta la vita, frammenti, scampoli di un intero perduto. Di schegge è fatta la guerra: quando il frammento impazzito di una bomba schizza via verso un punto precisato del tempo e dello spazio – ad esempio a Tuzla, Bosnia, nel 1995 – e colpisce qualcun altro e non te, taglia un altro destino e non il tuo, allora anche la tua personalità va in frantumi e si riduce in schegge; la storia di chi muore e quella di chi resta si mescolano, si confondono, si tormentano. Perché io e non Mustafa?
Schegge è un esordio fortemente autobiografico, come spesso è ogni buon esordio. È un romanzo che viene da Tuzla, ma parla inglese, perché dopo quel 25 maggio 1995 Ismet Prcić lascia il suo paese e va in California, dove vive tutt’ora. Fuga dalla guerra sì, ma forse anche fuga dalla pace. Perché chi lascia la propria terra martoriata per andare in cerca di salvezza, speranze, gioventù, la guerra se la porta dentro. La combatte da solo ogni giorno contro se stesso, contro il senso di colpa e la memoria, contro il dolore e la paura, contro un’integrità psicologica che passo dopo passo si frammenta, si confonde, miscela ciecamente presente e passato in un cocktail al veleno che va rigettato fuori. Possibilmente su carta, come fa Ismet Prcić in questo suo sofferto, angosciato e potente romanzo.
Schegge racconta la storia di Ismet, un adolescente che cresce guardando il suo paese andare in frantumi. Un padre disamorato, un fratello lontano, una madre invece vicina ma alle prese con continue crisi depressive, interminabili sigarette, ripetuti tentativi di suicidio. E uno zio lontano, in California. Ismet si muove sotto le bombe, in mezzo ai coetanei che si preparano a imbracciare le armi e ai compagni che discutono di musica e libri, di ragazze e di illusioni, mentre scoprono il peso di un’identità sempre più difficile da maneggiare nei dintorni: essere bosniaci e musulmani. Se non fosse per l’invadenza della storia che arriva in forma di esplosioni a sparigliare destini e spargerli attorno come schegge, Ismet sembrerebbe un giovane come tanti, alla prese con la scoperta del demone dolce dell’amore e intento a coltivare sogni da artista: il teatro è la sua passione. Ma nella Bosnia degli anni Novanta la scenografia la disegnano gli eserciti, i monologhi sono i sibili delle bombe e la linea del palcoscenico in realtà è la trincea. E così, quando le cose iniziano a mettersi davvero male, il teatro diventa anche il foglio di via per Ismet. Un viaggio ad Edimburgo con la sua compagnia di teatro per il Fringe Festival diventa il primo passo verso la fuga dalla Bosnia in guerra. Dopo una sosta a Zagabria, Ismet attraverserà l’oceano per arrivare negli Stati Uniti. Apparentemente un passo verso la libertà, ma in verità un primo passo verso l’aprirsi di una voragine interiore. Ismet si salva, evita la coscrizione, sfugge alla guerra, ma nel fardello della memoria del rifugiato, la vita dei vivi e quella dei morti si confondono. Il pensiero di chi rimane a combattere e a morire al suo posto diventa un’ossessione; il ricordo delle bombe esplose a Tuzla rimane sottopelle a farlo saltare in aria a ogni suono di clacson. Per di più per Ismet la vita in America non è affatto facile; come si può vivere tranquillamente, positivamente, inseguire i propri sogni e innamorarsi quando dentro di te piovono granate, esplodono mortai, raffiche di kalashnikov risuonano continuamente? Dove si possono trovare le parole in una lingua straniera, per spiegare il fischio, il sibilo, il taglio di una scheggia che ti sfiora le tempie e si infila nell’addome di qualcuno a pochi passi da te?
Schegge ci appare come il diario di una persona affetta da disturbo post-traumatico da stress; è un’opera aggressiva, viscerale e travagliata, che ha il valore di una confessione. Ci conduce dentro al dolore, alla devastazione personale generata da eventi tragici come la guerra, dentro alla solitudine del rifugiato, dentro al confondersi di presente e passato. E allo stesso tempo ci conduce dentro al valore catartico della scrittura e della condivisione del trauma. Ci presenta il mondo interiore di uno scrittore di origine bosniaca pieno di talento e sicuramente da tenere d’occhio.