Inzko, il futuro della Bosnia e dei Balcani

Secondo Valentin Inzko, Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, il paese corre un grave rischio. L’idea di una sua "pacifica dissoluzione" inizierebbe a prendere piede anche negli ambienti di Bruxelles. È per questo a suo avviso necessario che l’UE cambi in fretta approccio rispetto ai Balcani e alla Bosnia Erzegovina

10/05/2021, Giovanni Vale - Zagabria

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Valentin Inzko  durante una seduta del Consiglio di sicureza dell'ONU - foto © a katz/Shutterstock

Nelle ultime settimane i Balcani occidentali sono stati scossi dalla pubblicazione di un controverso “non paper”, un documento attribuito al governo sloveno in cui si ipotizza la ridefinizione dei confini in ex Jugoslavia e in particolare in Bosnia Erzegovina. Si tratta del culmine di una retorica che va avanti da anni, ma che di recente sembra essersi normalizzata, quasi non fosse più un tabù nemmeno all’interno dell’Unione europea. Perché è sbagliato (e pericoloso) mettere mano ai confini e cosa bisognerebbe fare invece? Nel giorno in cui si riunisce a Bruxelles il Consiglio degli Affari esteri dell’UE (con i Balcani al primo punto dell’ordine del giorno), abbiamo posto questa domanda a Valentin Inzko, l’Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina, in carica dal 2009 e il cui mandato scade quest’anno.

Nel suo ultimo discorso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite , lei ha espresso grande preoccupazione per la situazione in Bosnia Erzegovina. Perché?

Sono molto preoccupato perché fino a dieci anni fa nessuno osava parlare di referendum [d’indipendenza, ndr.]. Cinque anni fa, si è iniziato ad usare la parola “statehood” o “statualità” in riferimento alla Republika Srpska, e adesso si paventa persino una «dissoluzione pacifica» della Bosnia Erzegovina. È un’escalation. Si potrebbe pensare che si tratti solo di retorica: parole, parole, parole, come si dice… Ma no, le autorità della Republika Srpska stanno predisponendo un team di “negoziatori sul futuro della Bosnia Erzegovina” e sulla sua “pacifica dissoluzione”. Quindi è una cosa concreta, non sono solo parole.

Milorad Dodik, il membro serbo della presidenza tripartita bosniaca, non è nuovo a questo genere di dichiarazioni e di progetti. Ma la retorica del “cambiare i confini” sembra aver fatto scuola anche all’interno dell’UE. Cosa ne pensa?

In tutta onestà, sono scioccato. Chiunque parla di cambiare i confini dovrebbe prima visitare un cimitero militare, dalla Francia a Redipuglia fino a Stalingrado. Mettere mano ai confini significa spargere sangue, non c’è modo di farlo pacificamente. Per favore, non apriamo il vaso di Pandora. Per quanto riguarda poi questi “non paper”, io penso che non si tratti di una creazione del governo sloveno. Avevo già letto questi concetti tre anni fa, in un documento redatto da Steven Meyer, l’ex capo della CIA per i Balcani, uno dell’amministrazione Trump. Tre anni fa, lui parlava già di “dissoluzione pacifica” della Bosnia Erzegovina, quindi il governo sloveno non ha inventato nulla.

Cosa bisognerebbe fare invece di pensare a modificare i confini?

Io sono austriaco, per cui prendo l’esempio del Tirolo. Questa regione si compone di tre parti: il Tirolo settentrionale con capitale Innsbruck, il Tirolo meridionale con Bolzano e il Tirolo orientale con Lienz. È un’unica regione, ma non abbiamo dovuto modificare le frontiere per farla esistere. Per cui dico a chi vuole una Grande Serbia, Albania, Croazia, Bosnia o quel che è, create pure la vostra entità, la vostra fratellanza, ma senza cambiare i confini e fatelo all’interno della nostra comune casa europea. Ben vengano le collaborazioni tra Mostar e Spalato, Banja Luka e Belgrado, Sarajevo e Novi Pazar o tutte le combinazioni possibili, ben vengano gli investimenti da parte dei paesi vicini, ma senza mettere mano alle mappe. Non serve nemmeno ricordare, poi, che modificare le frontiere è vietato dagli accordi di Dayton.

Torniamo alla situazione interna alla Bosnia Erzegovina. Nel suo ultimo discorso all’ONU lei cita un trend negativo, con cui si cerca di indebolire le istituzioni centrali del paese. A cosa fa riferimento?

Posso dare qualche esempio. Le autorità di Banja Luka dicono che la Bosnia Erzegovina non ha un governo, ma solo “un consiglio”, che può dunque dare “solo suggerimenti”, come dice Dodik. In realtà si tratta di un consiglio dei ministri che, come in Italia o in Austria, è un governo a tutti gli effetti. Al tempo stesso, si mina anche l’istituzione della Corte costituzionale, non rispettandone le sentenze. Dieci o undici anni fa, la Corte ha sancito che le proprietà dello stato appartengono… allo stato (ride). Chiarissimo no? In altre parole, le proprietà militari sono di competenza del ministero della Difesa di Sarajevo. Ma Dodik sostiene di no, per lui le caserme che si trovano nella Republika Srpska appartengono all’entità e non allo stato. Stessa cosa per i fiumi, perché Banja Luka vuole costruire delle centrali elettriche sulla Drina e sta facendo accordi bilaterali con la Serbia. In sostanza le istituzioni dello stato vengono minate, indebolite. Dodik ha anche introdotto un ministero degli Affari esteri, certo lo chiama diversamente, “ministero dell’integrazione europea e della cooperazione internazionale” ma di quello si tratta. E ha anche 6.000 poliziotti che in sostanza sono un esercito, perché l’entità sta comprando armi pesanti, elicotteri, mezzi corazzati, cose che non servono ad una forza di polizia. Questo è il trend: indebolire lo stato centrale e rafforzare l’entità.

Come siamo arrivati fin qui? Ad un punto in cui la stabilità della Bosnia Erzegovina è minata e in cui si discute apertamente di come smantellare anche la sua integrità territoriale?

Molto semplice. Quando io ero ambasciatore dell’Austria a Sarajevo [tra il 1996 e il 1999, ndr.], la comunità internazionale era molto solida, prescrittiva… All’epoca noi abbiamo dato una medicina forte alla Bosnia Erzegovina e abbiamo ottenuto grandi successi. Oggi, ad esempio, le macchine bosniache hanno una targa unica, prima ce n’erano tre. Oggi c’è un esercito, prima ce n’erano tre. C’è una sola bandiera e non più tre. Abbiamo fatto un gran lavoro. Dopo la guerra, non c’era nemmeno una polizia di frontiera, potevi entrare senza problemi in Bosnia. Non c’era controllo del traffico aereo… Ma quando siamo riusciti a istituire sei ministeri e un unico ministero della Difesa, la comunità internazionale ha cambiato completamente il suo approccio, troppo velocemente a mio avviso. Dall’interventismo si è passati alla responsabilità locale e questo è stato un fallimento.

Il suo mandato termina quest’anno. Che approccio spera che adotterà la comunità internazionale in futuro?

Una via di mezzo tra l’interventismo e la responsabilità locale. Il mio successore dovrebbe essere il tedesco Christian Schmidt, che ha alle sue spalle una lunga carriera da ministro e da deputato del Bundestag e che ha il mio pieno sostegno. Abbiamo oggi una grande opportunità che non va sprecata. La riassumo nella formula BBB: Berlino con Christian Schmidt; Biden, la cui amministrazione ricorda gli accordi di Dayton e infine Bruxelles, ma solo se l’Unione europea cambierà strategia nei Balcani. Solo dopo che la situazione in Bosnia Erzegovina si sarà davvero stabilizzata si potrà allora chiudere l’ufficio dell’Alto rappresentante, ma ora non è il momento.

Ha menzionato l’Unione europea. In che modo Bruxelles dovrebbe cambiare approccio riguardo ai Balcani e alla Bosnia Erzegovina?

Mi spiace dirlo, ma serve un approccio più energico, con maggiori interventi e con un vero senso d’urgenza. L’agenda di Salonicco è stata firmata nel 2003. Ciò significa che se la Bosnia Erzegovina entrerà nell’UE tra dodici anni – una data che mi pare verosimile – i bosniaci avranno aspettato trent’anni, dal 2003 al 2033. Una prospettiva del genere è una Fata Morgana, quando è così lontana! Bisogna essere creativi, magari invitare i rappresentanti degli stati dei Balcani a Bruxelles durante le riunioni del Consiglio, anche senza diritto di voto. Oppure, concedere la liberalizzazione dei visti al Kosovo. O ancora creare una televisione “Arte Balkan”, o aprire il programma Erasmus alla regione, insomma fare in modo che anche qui si arrivi a quella riconciliazione che c’è stata tra Germania e Francia, o tra Austria e Italia nel Tirolo. Anche chi è contrario all’allargamento deve riconoscere che nella stabilità di questa regione sta la chiave della sicurezza di tutta Europa. Senza stato di diritto da queste parti non c’è infatti possibilità di fermare il traffico di armi, droghe o persone in direzione dell’Europa.

Nonostante tutte queste criticità ci sono alcuni elementi che la fanno ben sperare per il futuro della Bosnia Erzegovina e della regione in generale?

Sì. In Bosnia Erzegovina ci sono tanti piccoli Nelson Mandela, magari non figurano tra i politici, ma ci sono e la gente è in grado di convivere. Mi viene in mente Hasan Ahmetlić, il musulmano di Tešanj che ha ristrutturato la chiesa cattolica locale, oppure i serbi che a Trebinje hanno pulito la moschea assieme all’Hodja. Tutti fatti recenti! I cittadini bosniaci sono spesso più avanti dei loro rappresentanti. E ci sono anche tre nuovi sindaci che mi fanno ben sperare, a Mostar, a Sarajevo e a Banja Luka, le tre città più simboliche. Staremo a vedere.

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