Intrappolati lungo la rotta balcanica
Per quei migranti che non provengono dai paesi detti “SIA” – Siria, Iraq, Afghanistan – la rotta balcanica rischia ormai di essere una trappola in cui rimanere bloccati per vario tempo. Un reportage
Sisi a Evzonoi, in Grecia, Ashraf al confine meridionale della Macedonia, Salah a Preševo in Serbia e Karim alle porte della Croazia a Šid. Sono quattro ragazzi intrappolati sulla rotta dei Balcani per via della propria nazionalità. Da quando Germania e Austria hanno deciso a metà novembre di aprire i propri confini solo alle persone provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, alle frontiere interne della penisola balcanica un numero sempre maggiore di migranti e rifugiati si ritrova bloccato, senza la possibilità di continuare il proprio viaggio e senza la volontà (e spesso nemmeno i soldi) per immaginare il cammino a ritroso.
A Evzonoi, un paesino della Grecia settentrionale a pochi chilometri dal valico di Idomeni-Gevgelija per la Macedonia, Sisi se ne sta seduto nel bar di una stazione di servizio, adiacente all’autostrada Salonicco-Skopje. È afghano, assicura, ma ha perso i documenti che possono provarlo. Vera o falsa che sia questa versione, Sisi è fermo in Grecia da due giorni, da quando la polizia macedone lo ha trovato a Skopje e riaccompagnato al confine. “Avevo camminato per tre giorni per arrivare in Serbia”, ricorda Sisi, che ora pensa di accettare l’offerta di un trafficante, che ha promesso di portarlo in Serbia in auto per 2.000 euro. Nella speranza che gli vada meglio che ad Ahmed, un profugo 63enne che i volontari dell’ONG macedone Legis hanno trovato sull’autostrada la notte di capodanno. “Aveva pagato mille euro per attraversare la Macedonia – racconta Mare Bojkovska – invece è stato abbandonato dopo pochi chilometri. Era scalzo e, fuori, c’erano –5°: se non lo avessimo portato al caldo sarebbe morto”.
Sisi e i suoi compagni di viaggio sono ormai degli habitués del piccolo bar di Evzonoi e Giorgia, la proprietaria del locale, li conosce uno per uno. “Vengono qui per un paio di giorni, poi partono e spesso ritornano tre o quattro giorni più tardi”, racconta. Il ping-pong a cui queste persone sono costrette è talmente regolare che Giorgia fa persino credito sulle consumazioni, “tanto prima o poi tornano comunque a saldare”. Mentre parliamo, un gruppo esce dal bar e risale il pendio che porta all’autostrada, attraversa con attenzione le due corsie e si arrampica sulla collina brulla in direzione della Macedonia. Forse arriveranno a Preševo, in Serbia, senza che nessuno li noti, forse ritorneranno qui tra qualche giorno, più stanchi e più poveri.
Una frontiera a fisarmonica
Secondo un diplomatico europeo di stanza a Skopje, la frontiera meridionale della Macedonia è diventata nelle ultime settimane “una fisarmonica”, poiché “i migranti cominciano a disperdersi già a Polykastro, a 25 km dal valico ufficiale di Idomeni”. Infatti, nonostante le autorità di Skopje – di concerto con gli stati più a nord – abbiano deciso la settimana scorsa di issare una seconda barriera di filo spinato, parallela alla prima, su circa 37 km di confine con la Grecia, le alture tra i due paesi della penisola balcanica continuano ad essere attraversate in lungo e in largo. Il ramificarsi della rotta, per chi non proviene dai paesi detti “SIA” (Siria, Iraq, Afghanistan), inizia quindi già a Polykastro, o meglio dalla sua area di servizio lungo l’autostrada.
Dall’autogrill locale di questo comune greco, dove l’UNHCR ha posizionato la settimana scorsa 51 tende (in grado di accogliere un totale di circa 800 persone), si allontano ogni giorno dei piccoli gruppi diretti in Macedonia, a volte spingendosi ad est verso il lago Dojran e oltre, al confine con la Bulgaria. Il fenomeno è sicuramente destinato a crescere se, poco più a nord, il “filtro” di Skopje si farà come annunciato più restrittivo. Ufficialmente, l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati ha creato a Polykastro “un sito di transito temporaneo destinato ai profughi in viaggio verso Idomeni, nel caso in cui i bus dovessero fare una sosta prolungata”, come assicura Alexandros G. Voulgaris, responsabile del campo profughi di Idomeni per l’UNHCR. Ma tra gli attivisti, si teme che la stazione di servizio di Polykastro, con le sue cinquanta tende e la permanenza di Medici senza frontiere, non sia una soluzione temporanea, ma una precauzione presa in caso della chiusura della frontiera macedone.
“Polykastro serve ad evitare un collasso di Idomeni, nel caso in cui Skopje introduca dei nuovi criteri di controllo o restringa il numero di ingressi”, ammette una dipendente del campo frontaliero. Anche se nessuno conferma questo scenario (per l’UNHCR greco “tutto è possibile”), il viavai di poliziotti slovacchi, croati e sloveni recentemente arrivati a Gevgelija, più l’innalzarsi del nuovo muro di filo spinato (“regalato dall’Ungheria”, commenta Jasmin Redzepi dell’associazione Legis) fanno pensare che l’idea di un blocco, graduale o improvviso, non sia campata in aria. E per anticipare l’eventualità di una “Grecia lasciata a se stessa”, anche se solo per pochi giorni, i volontari stanno già facendo rotta sulla repubblica ellenica. Tra loro Molly e Kyle, due attivisti americani arrivati a Lesbo a inizio anno e ora accampati proprio a lato dell’autostrada a Polykastro, o come José Fernandez dell’associazione spagnola “SOS Remar” che anticipa: “Nelle prossime settimane apriremo una cucina mobile ad Atene”.
I respinti della rotta dei Balcani
La capitale greca è anche la destinazione di tutti i cittadini “non-SIA” che vengono intercettati dalle forze di polizia di Slovenia, Croazia, Serbia o Macedonia. Ad ogni frontiera, chi non è in possesso del documento giusto viene rimandato presto o tardi alla casella numero uno della rotta, dove è tenuto a fare domanda di asilo, ma da dove de facto riparte pochi giorni dopo per ritentare la fortuna sulla strada verso nord. “Più severi sono i criteri di ingresso al confine greco-macedone, più cresce il mercato nero dei trafficanti e dei fabbricanti di documenti”, illustra l’Ambasciatore d’Italia a Skopje, Ernesto Massimino Bellelli. Se l’Italia è già in contatto con Tirana per sorvegliare lo svilupparsi di un’eventuale nuova rotta attraverso l’Albania (“Tirana ha pronto un piano operativo al riguardo”, assicura il diplomatico), le ONG constatano il crescere delle attività sommerse legate al flusso migratorio. “Esistono già sette versioni false del documento rilasciato dal governo greco”, afferma Mare Bojkovska di Legis. E chi si presenta a Gevgelija con uno di quei sette esemplari vede il proprio foglio stracciato dagli agenti di Skopje.
La sera del 10 febbraio, al cancello che separa i campi di Idomeni e Gevgelija, cinque persone vengono rispedite senza troppi complimenti dalle forze dell’ordine macedoni. Ritrovatosi improvvisamente sul suolo greco, un ragazzo guarda un poliziotto greco e dice allargando le braccia: “No documents”. “Eh, problems, problems, my friend”, gli risponde l’altro, altrettanto incerto sul da farsi. Stando alla procedura, tutti e cinque i “respinti” dovrebbero tornare ad Atene a spese loro (15 euro), mentre chi non ha i soldi per il biglietto dovrebbe essere preso in carica dalla polizia. Ashraf, un 26enne di Meknes, è a metà strada tra il bus civile e quello blu degli agenti. Partito con 1.400 euro dal Marocco, ha finito i soldi, così come i suoi tre amici. “Penso che torneremo ad Atene in qualche modo e cercheremo un lavoretto per qualche settimana, poi ripartiremo. Io vorrei andare in Italia”, racconta quest’ex-studente di geografia all’Università di Meknes.
L’Italia è anche la destinazione di Salah, un ragazzo di Casablanca che ha vissuto per 13 anni nel Belpaese prima di ritornare a casa più di 5 anni fa. Dopo dieci giorni di cammino, è riuscito ad attraversare la Grecia settentrionale e la Macedonia e ora si riposa accanto ai binari della stazione di Preševo, in Serbia. “Dormivo nella campagna e la mattina, quando mi svegliavo, la bottiglia d’acqua che tenevo con me si era congelata!”, dice Salah, che ora può contare sulle tende riscaldate che “Medici senza frontiere” ha sistemato all’ingresso del campo ufficiale di Preševo, dove non può entrare chi non viene da Siria, Iraq e Afghanistan. Salah e i suoi compagni di viaggio, marocchini e algerini, non sanno bene come raggiungere la propria meta (chi la Francia, chi la Germania o ancora l’Italia). Inizialmente, pensavano di passare per l’Ungheria, ora prendono in considerazione la Croazia. “Ci sono controlli alla frontiera?”, chiedono. “Come? anche in Slovenia?!”, si sorprendono.
Per chi parte con i documenti sbagliati da Atene, o ne è privo, i Balcani sono in effetti un susseguirsi di ostacoli. Anche a 1.200 km a nord della capitale greca, a Šid in Voivodina, si corre il rischio di ricominciare tutto daccapo. Alla frontiera serbo-croata, il destino di migranti e rifugiati è nelle mani di una traduttrice, incaricata di individuare sulla base dell’accento l’esatta provenienza degli intervistati. I documenti greci di Karim, ad esempio, assicurano che è siriano, ma lui, un 28enne di Algeri, proprio non ce la fa a imitare la parlata di Damasco. “Mi ha fatto dire i numeri da uno a dieci, al 4 mi ha interrotto e detto di uscire”, racconta divertito. È fermo a Šid da due giorni, come altri algerini, marocchini e iraniani. La Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 dà loro il diritto di fare richiesta di asilo in Croazia, a prescindere dalla propria nazionalità (poiché si può essere perseguitati anche in Algeria o in Marocco), ma il confine per loro è chiuso.
“Aspetterò qui qualche giorno – prosegue Karim – bisogna solo fare attenzione, perché appena ci sono 60, 100 persone non-SIA, la polizia organizza un paio di bus per la Macedonia”. Le soluzioni possibili non sono molte: salire in qualche modo su un treno (magari merci), passare a piedi o pagare 1.200 euro per farsi portare in auto. Karim andrà a piedi. Si è dato due mesi di tempo e se non va, tornerà in Algeria: “In quel caso, pas de chance, che vuoi che ti dica! E pensare che mio nonno ha vissuto a Parigi per 40 anni… ci fosse rimasto!”. Nell’attesa potrebbe anche imparare l’accento siriano, visto che tra i respinti, c’è paradossalmente anche un ragazzo di Damasco. “È Kassem! Non l’hai incontrato? Vieni che te lo presento, lui è un siriano vero, mica come noi!”, scherza Karim. Kassem è stato respinto alla frontiera slovena, perché il suo dossier, dice Lubiana, è già stato aperto in Ungheria, quando Kassem è passato il 10 settembre scorso, prima di essere deportato nuovamente in Turchia. La storia è talmente complicata che tutti – tranne Kassem – se la ridono.
Il ragazzo siriano ora vuole raggiungere il resto della famiglia (madre, moglie e figli) che le autorità slovene hanno lasciato passare e che ora si trova in Germania. “Vorrei chiudere il mio dossier in Ungheria e riaprirlo in Germania, ma non so come farlo sapere alla Slovenia”, spiega Kassem, che sembra incarnare l’assurdità di quanto sta succedendo sulla rotta dei Balcani. Se il suo caso è forse uno scherzo del destino, quello di Sisi, Ashraf, Salah e Karim è invece il risultato diretto della politica degli ingressi attualmente applicata lungo la penisola balcanica.
Per i “non-SIA”, la strada ordinaria passa per la campagna dei Balcani, anche perché la via ufficiale, quella della burocrazia che inizia a Rabat o Algeri, rimane inaccessibile. “Abbiamo fatto richiesta di visto all’ambasciata francese, inglese, spagnola… – ripetono i ragazzi algerini bloccati a Šid – Ogni volta abbiamo ricevuto una risposta negativa”. E allora si parte, con un volo per la Turchia e un sacco di coraggio per risalire i Balcani. A forza di respingimenti, prima o poi, si arriverà all’area Schengen.