Intervista con Pjer Žalica, regista di Gori Vatra

Un’intervista a Pjer Žalica, regista del film tragicomico "Gori Vatra" vincitore del Pardo d’argento al Festival di Locarno. Cineasta esordiente, dopo una lunga attività come documentarista e autore di corti durante il conflitto bosniaco ’92 – ’95 in cui filmò i combattimenti e la vita a Sarajevo sotto assedio, assieme all’eroico gruppo Saga

21/08/2003, Nicola Falcinella -

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Pjer Zalica - www.sagafilm.com

Qualcuno ha definito il suo un film politico

"Mi arrabbio a questa definizione. I politici, nella mia esperienza, sono sempre andati in direzione opposta alla mia. Io sono un artista, guardo le cose con i miei occhi, i politici che vedo in Bosnia sono in gran parte criminali riciclati mentre è la gente normale che paga le conseguenze di tutto. È la gente comune che ha combattuto ed è morta o ha dovuto fuggire. Ora è la gente normale che non ha lavoro e ha fame. Il film l’ho fatto per loro, per i bosniaci. Volevo fare un film sulla Bosnia nel dopoguerra e ho messo quello che è, cercando magari di far ridere per far arrivare meglio le cose allo spettatore. È uno stile e un approccio comune ad altri registi bosniaci".

Con alcuni di loro ha lavorato prima e durante la guerra nel gruppo Saga

"Con Kenović e Vuletić ho lavorato per anni, siamo molto amici. Ci troviamo in sintonia, facciamo cose diverse ma con uno spirito simile".

È un momento di grande vivacità per il cinema bosniaco, con diversi esordi

"E’ vero, c’è una situazione molto dinamica. C’è una grande generazione di attori giovani, come Enis Bešlagić o Senad Basić che sono i protagonisti del mio film, e anche autori interessanti che stanno esordendo come Srdjan Vuletić o Dino Mustafić. Ademir Kenović ebbe molte difficoltà a girare un nuovo film dopo "Il cerchio perfetto" del ’96, oggi dopo l’Oscar di Danis Tanović è un po’ più facile trovare finanziamenti. Si stanno girando dei bei corti e l’istituto nazionale sta cominciando a produrre, c’è una generazione di giovani produttori come Amra Bakšić preparati e decisi, stanno partendo coproduzioni con altri paesi europei. In rapporto alla popolazione e ai soldi a disposizione possiamo essere contenti".

Ha affermato che la pace spesso è peggio della guerra

"Sì, credo che la pace a volte sia peggio della guerra. Sotto i tiri dei mortai e dei cecchini eravamo uniti, avevamo lo scopo comune di sopravvivere, oggi ognuno va per conto suo e vivere dignitosamente è difficile, con le divisioni che restano e la corruzione diffusa. Io ho solo mostrato la situazione esistente, stupida e risibile quanto si vuole ma è così".

Nel finale c’è una riconciliazione tra serbi bosniaci e mussulmani, durante il film i pompieri dei diversi gruppi diventano amici

"Siamo tutti legati viviamo sulla stessa terra, abbiamo la stessa lingua e cultura, origini comuni. Ci apparteniamo, stare insieme è una questione naturale. Le differenze sono state create artificialmente dalla politica ma, anche se un po’ fa paura, non possiamo stare senza un gruppo dell’altro. Anche la Svizzera è composta da popoli che parlano lingue diverse ma che si sentono tutti svizzeri, no? Credo che solo unendo le forze e superando le divisioni si possa far crescere il Paese".

Nel film si sentono forti influenze da Kusturica e Fellini

"Sicuramente ci sono tante influenze di altri. Il paragone con questi cineasti mi fa piacere perché sono tra i migliori che conosca. La vera influenza è quella di Robert Altman, di "Nashville" per la storia corale e l’intreccio dei personaggi e "M.a.s.h." per l’atmosfera. Mi sono ispirato molto a lui nella struttura drammaturgica. Le storie di Kusturica non sono costruite così. Di Fellini sento molto vicino "La strada". E poi c’è l’influenza del neorealismo. Bosnia e Italia hanno delle cose in comune, come un certo approccio alla vita, un certo sentimento neorealistico che dipende dall’ambiente in cui si vive . In Bosnia poi c’è uno humor nero particolare, si ride e si piange insieme".

L’Italia nell’immaginario è rappresentata anche dalla canzone di Buscaglione "Guarda che luna" all’inizio e alla fine

"Sì, la musica italiana fa parte del nostro patrimonio, anche Kusturica in "Ti ricordi di Dolly Bell?" faceva cantare una canzone di Celentano".

La recensione del film

"Gori Vatra – al fuoco", ha vinto il Pardo d’argento, il secondo premio del Festival del film di Locarno conclusosi sabato 16 agosto. Il cineasta, che durante il conflitto ’92 – ’95 realizzò documentari (nel gruppo Saga, con Ademir Kenović insieme al quale scrisse nel 1996 la sceneggiatura de "Il cerchio perfetto", primo lungometraggio bosniaco del dopoguerra) e cortometraggi sui combattimenti e sulla vita nella Sarajevo sotto assedio, racconta tra riso e pianto una pace precaria dopo gli accordi di Dayton.

E’ il 1996. Nel piccolo villaggio di Tešanj le persone affrontano quotidianamente i segni lasciati dalla guerra. Zaim è un padre, ex poliziotto, che vuole sapere che ne è stato del figlio scomparso durante il conflitto: lo crede vivo e lo "vede" la sera nel cortile della casa sulla collina. L’altro figlio Faruk è un vigile del fuoco che incontra dopo anni una vecchia fiamma rientrata dopo essere fuggita in Germania: subito dopo l’incontro la ragazza incappa in una mina inesplosa.

La vita del villaggio viene turbata dall’arrivo, portata da un elicottero, dell’auto del presidente americano Bill Clinton annunciato per una visita. I rappresentanti della comunità internazionale fanno pressioni sulle autorità locali perché si preparino all’illustre ospite ripulendo la zona dalle attività illegali e dai t[]isti e perché mussulmani e serbi collaborino.

Tra realismo e surrealismo, con il tipico humor nero balcanico a farla da padrone, tutto sembra filare per il verso giusto. Zaim, sempre più spinto dalla follia dopo che scopre il cadavere del figlio, si fa esplodere nella propria abitazione proprio mentre Clinton sta attraversando la strada principale di Tešanj, mandando a monte tutto. A piangere l’ex poliziotto si ritrovano insieme uomini dei due gruppi, in un finale che lascia spazio alla speranza.

I preparativi di un villaggio diviso in due per accogliere il presidente americano Clinton in visita sono vanificati dalle ferite ancora aperte della guerra e dal dolore della perdita dei propri cari, ma un seme di convivenza è gettato. Un film corale e sfaccettato, ricco di riferimenti a grandi cineasti da Altman a Fellini a Kusturica. Il premio segnala, dopo l’Oscar a "No Man’s Land", il bel momento della cinematografia bosniaca ("Remake" di Dino Mustafić fu inserito in gara al Festival di Rotterdam nello scorso gennaio), anche se Žalica non vale Tanović, le situazioni sono più schematiche e la messa in scena più povera. La rappresentazione della Bosnia Erzegovina del dopoguerra sa però di verità e pure gli americani macchietta corrispondono all’immagine che hanno fra i bosniaci.

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