Immaginando i Balcani
Una recensione di Claudio Bazzocchi ad un libro di Maria Todorova, uscito in Italia con Argo edizioni, che indaga nell’immaginario occidentale sui Balcani
È un libro molto importante questo di Maria Todorova, storica bulgara, attualmente docente presso l’Università della Florida. Non tragga in inganno il titolo. Non è un libro di sognante nostalgia per i Balcani, né un racconto di viaggio. Il libro tratta della creazione dell’immagine stereotipata dei Balcani da parte della cultura occidentale, che da almeno cent’anni ne fa il ricettacolo di tutte le nefandezze e violenze di cui siano capaci gli uomini, e il luogo per eccellenza dell’instabilità politica e della conseguente frammentazione statuale.
Tale processo di creazione è stato così radicale che la parola "balcanizzazione" viene utilizzata in vari campi della vita sociale anche in paesi e culture molto lontane dal sud-est Europa. Di più, Todorova ci dice che il termine balcanizzazione si era così staccato dal luogo di origine che in qualche modo è stato riapplicato ai Balcani stessi in occasione dell’ultimo conflitto degli anni Novanta, che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia.
Per Todorova i Balcani e la balcanizzazione, intesi come nomi, sono il frutto di una insidiosa tradizione intellettuale occidentale che ne ha fatto lo specchio in cui l’Europa occidentale ha potuto guardarsi, mondato di tutte le proprie contraddizioni e nefandezze.
Orientalismo e balcanismo
Il punto di partenza della ricerca di Todorova è rappresentato dalla famosa nozione di "orientalismo", proposta da Edward Said (1) e divenuta ben presto famosa in tutto il mondo, non solo quello accademico. Come si sa, per Said l’orientalismo è quell’insieme di discipline accademiche del mondo occidentale che per decenni hanno studiato l’Oriente da lontano e dall’alto, definendo così tutto ciò che altro dall’Occidente in modo semplicistico, "ratificando giudizi nei suoi confronti, descrivendolo, insegnandolo, fissandolo, governandolo". Per Said l’orientalismo è il modo occidentale per dominare, ristrutturare e padroneggiare l’Oriente.
Todorova ritiene che il discorso sui Balcani sia una retorica con forti similitudini con quella dell’orientalismo, ma comunque con tali differenze da farle ritenere sia necessario parlare di balcanismo, come categoria a sé, distinta dall’orientalismo:
Il balcanismo si è sviluppato in gran misura indipendentemente dall’orientalismo e, per certi aspetti, contro e nonostante l’orientalismo. Una ragione era di natura geopolitica: all’interno della complessa storia orientale, un approccio separato ai Balcani, come sfera strategica distinta da Vicino e Medio Oriente. L’assenza di un’eredità coloniale è (a dispetto di analogie spesso utilizzate) è un’altra differenza significativa. … Il carattere prevalentemente cristiano dei Balcani, inoltre, ha alimentato a lungo il potenziale crociato del Cristianesimo contro l’Islam. … Costituisce infine un’altra differenza significativa la costruzione di un’autoidentità idiosincratica balcanica, o piuttosto di più autoidentità balcaniche: esse si ergevano immancabilmente contro un "orientale" altro: e questo poteva essere o il vicino e nemico geografico (per lo più l’impero ottomano e la Turchia, ma anche, all’interno della stessa regione, l’embrione di orientalismo nella ex Jugoslavia) ovvero l’"orientalizzazione" di parti del proprio passato storico (di solito, il periodo ottomano e l’eredità ottomana).
Prima che si cristallizzi lo stereotipo fra Cinque e Ottocento
Per Todorova il balcanismo si è cristallizzato come discorso specifico al tempo delle guerre balcaniche e della prima guerra mondiale. Arriva a questa conclusione dopo aver analizzato decine e decine di rapporti di viaggio nella regione a partire dal Cinquecento. Possiamo così leggere assieme a Todorova le relazioni dei diplomatici delle corti europee inviati alla Sublime Porta, che nel loro viaggio attraversavano la regione balcanica.
Sono relazioni interessanti, spesso caratterizzate dalla presenza di molte descrizioni accurate della geografia della regione o delle usanze dei popoli. Il discorso sui Balcani non si è ancora cristallizzato e gli orientamenti che possiamo notare in tali rapporti sono modellati dalla politica estera – filo-ottomana o meno – del paese rappresentato.
A questi rapporti diplomatici si aggiungeranno gli scritti dei viaggi dei primi intellettuali illuministi, caratterizzati dall’ansia di stabilire i rapporti fra civilizzazione, religione e progresso.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento assistiamo al fenomeno delle impressioni di viaggio dei primi e veri e propri turisti, esponenti della ricca borghesia e nobiltà europea e americana impegnati nella scoperta del luogo sacro dei propri studi classici: la Grecia. A parte la delusione per non aver trovato in Grecia i biondi, alti e raffinati eredi degli antichi, ma pastori e contadini mori e bassi di statura, fino alla metà dell’Ottocento i Balcani non si sono ancora cristallizzati come immagine negativa dell’Europa. Tutt’al più vengono considerati come una regione non ancora toccata dal progresso e dalla modernità.
A partire dall’inizio del Novecento si cristallizza il discorso sui Balcani
Sarà a partire dall’inizio del XX secolo, dopo lo scoppio delle guerre balcaniche, che i Balcani saranno classificati e la loro immagine costruita da parte degli intellettuali e dei politici dell’Europa occidentale e dell’America del nord.
I Balcani diventano allora l’Europa selvaggia, insieme di paesi barbari e anarchici. Todorova ricorda un libro di due autori britannici dal significativo titolo A Plea for the Primitive, in un passo sul carattere dei macedoni "compirono – dice Todorova – una vera e propria sintesi del dibattito natura educazione":
oppressione e una completa mancanza di educazione… hanno unito le forze e sviluppato un carattere furbo e una naturale predisposizione alla ferocia.
Così commenta Todorova questo ed altri passi degli scrittori britannici del tempo: "per una tradizione che si vanta del suo empirismo, gli inglesi del tempo erano sorprendentemente propensi a facili generalizzazioni".
I commenti caustici ed ironici di Todorova sono una costante del libro, e rappresentano il modo impiegato dalla nostra storica per smontare il discorso sui Balcani e aprire la vista del lettore ad un orizzonte più vasto, che contempli le questioni politiche, sociali ed economiche.
Todorova ci invita allora a considerare come sia stato trattato l’assassinio e la defenestrazione di Aleksander e Draga (2) a Belgrado nel 1903. Il regicidio fu considerato particolarmente ripugnante dalle casate regnanti europee, nonché dall’opinione pubblica. Il "New York Times" definì la defenestrazione come una caratteristica razziale tipica degli slavi:
Come l’audace bretone manda a terra il suo nemico con i pugni, come il francese del Sud stende il suo avversario con un calcio mirato, come l’italiano usa il suo coltello e il tedesco il boccale di birra che ha sotto mano, così il boemo e il serbo ‘gettano’ il nemico fuori dalla finestra.
Ancora nel 1988 lo storico Zeman arrivò a scrivere che il punto di svolta delle relazioni fra Austria e Serbia non fu rappresentato tanto dall’annessione della Bosnia Erzegovina nel 1908, quanto dal colpo militare a Belgrado del 1903. Commenta così Todorova l’affermazione del suo collega: "pare che fosse la particolare ripugnanza dell’atto che i civili austriaci non riuscirono a digerire, e non qualche segreta frizione economica, o il nazionalismo, o la ragion di stato".
Comincia in quel periodo ad insinuarsi anche il razzismo nella considerazione della regione balcanica, così come attesta il commento del regicidio da parte di H.N. Brailsford, funzionario del British Relief Fund nel 1903:
In una terra in cui il contadino ara con il fucile in spalla, dove le autorità governano in virtù della loro abilità a massacrare ad ogni occasione, dove generalmente si pensa che i vescovi cristiani organizzino assassinii politici, la vita non ha che un valore relativo, e l’assassinio non è più di un altrettanto relativo reato. Quanto a inclinazione sanguinaria, c’è poco da scegliere tra le razze balcaniche – sono tutte quante ciò che secoli di governo asiatico hanno fatto di loro.
Il grande crimine dei Balcani, quasi il loro peccato originale, sarà l’uccisione dell’Arciduca Ferdinando a Sarajevo ad opera di Gavrilo Princip. Fu, secondo Todorova, "il loro marchio indelebile".
Nella prima edizione del popolarissimo Inside Europe del 1936, il giornalista americano John Gunther condensa in poche righe il suo giudizio sui Balcani:
È un intollerabile affronto alla natura umana e politica che questi piccoli sventurati e infelici della penisola balcanica possano, e lo fanno, avere contrasti tali da provocare guerre mondiali. Circa centocinquantamila giovani americani sono morti a causa di un episodio avvenuto nel 1914 in un fangoso villaggio primitivo, Sarajevo. Intrighi ripugnanti e quasi osceni nella politica balcanica, difficilmente intelligibili per un lettore occidentale, sono ancora indispensabili per la pace dell’Europa, e forse del mondo.
Vale la pena leggere per intero la dura considerazione di Todorova sul passo appena citato:
Per quanto comprensibili possono essere i risentimenti, è sintomatico che questo paragrafo fu conservato persino nell’edizione del 1940, in piena guerra. Gli intrighi di Hitler erano, ovviamente, più intelligibili ai lettori occidentali, perché erano occidentali. Da qui alla secca affermazione che anche per la seconda guerra mondiale si possa dare la colpa ai Balcani il passo è breve. Certo è un passo difficile da fare, e ci son voluti oltre cinquant’anni perché qualcuno lo facesse. Robert Kaplan (3) … affermava in Balkan Ghosts, che "il nazismo, ad esempio, può rivendicare origini balcaniche. Fu tra le infime pensioni di Vienna, una terra fertile per i risentimenti etnici vicina al mondo slavo meridionale, che Hitler imparò ad odiare in modo così contagioso": È buffo leggere il paragrafo sul "villaggio primitivo e fangoso" alla luce degli odierni elogi al paradiso multietnico della bella città cosmpolita di Sarajevo, distrutta negli anni Novanta. Seguendo la logica di Gunther, Sarajevo deve esser diventata questa meravigliosa città prima sotto il governo barbaro della indipendente monarchia slava meridionale e soprattutto sotto i comunisti jugoslavi, mentre sarebbe stata un villaggio disgustoso sotto l’illuminato governo occidentale degli Asburgo.
Il pregiudizio di Agata Christie
La forza del libro di Todorova sta proprio nell’attenzione a tutti i materiali prodotti in Europa e in America sui Balcani: dalle relazioni diplomatiche, ai primi libri di viaggio, dalle considerazione degli uomini politici ai reportages giornalistici. Neppure Agatha Christie è sfuggita all’attenzione della storica bulgara, che trova nel romanzo del 1925 – Il segreto di Chimneys – la descrizione di un fittizio stato balcanico, l’Erzeslovacchia:
È uno degli stati balcanici… I fiumi principali, sconosciuti. Le montagne principali, pure sconosciute, ma numerosissime. La capitale Ekarest. La popolazione per lo più di briganti. Hobby, assassinare re e fare rivoluzioni.
Todorova ci fa notare come la Christie "riprodusse un’immagine collettiva cristallizzata dei Balcani, e non la precedente concezione che considerava in modo differenziato le singole nazioni balcaniche".
Uno stereotipo internazionale che comprende anche il razzismo
È proprio nel periodo a cavallo degli anni Trenta che i diversi approcci nazionali ai Balcani si fondono nell’opinione pubblica occidentale in un una sorta di stereotipo internazionale. All’interno di tale stereotipo, nello stesso periodo, comincia ad insinuarsi anche il razzismo fino a diventarne una costante, e vi entra i due modi: da una parte lo spettatore occidentale accusa i popoli balcanici di essere razzisti e dall’altra egli stesso si abbandona a giudizi razzistici nei confronti di quei popoli.
Nel 1928 Graf von Keyserling, figura di spicco nella filosofia dell’autocoscienza, pubblica un libro dal titolo Das Spektrum Europa, uscito contemporaneamente anche negli Stati Uniti. Nel capitolo dedicato ai Balcani Todorova ci invita a leggere le seguenti righe:
Qual è, per noi che viviamo in altre terre, il significato dei Balcani?… Com’è che la parola ‘balcanizzazione’ è quasi sempre percepita in modo esatto ed esattamente applicata?… Il suo significato simbolico può essere meglio appreso grazie a due premesse: la prima è l’affermazione comunemente accettata che i Balcani sono la polveriera d’Europa. La seconda è il dato di un odio razziale straordinariamente primordiale e irriconciliabile.
I Balcani ed i loro popoli vengono non solo accusati di razzismo, ma anche descritti con evidente disprezzo razzistico, così come fa lo svedese Ehrenpreis nel 1927, dopo aver attraversato i Balcani, l’Egitto e la Terra Santa alla ricerca dell’"anima dell’est":
C’è qualcosa di eccentrico nel loro comportamento, sono chiassosi, troppo bruschi, troppo zelanti… Bizzarri, incredibili individui compaiono da ogni parte – fronte bassa, occhi ottusi, orecchie sporgenti, labbra inferiori sottili… Il tipo levantino nell’area tra i Balcani e il Mediterraneo è, psicologicamente e socialmente, davvero una ‘forma oscillante’, un misto di orientale e occidentale, plurilingue, astuto, superficiale, inaffidabile, materialista e, soprattutto, privo di tradizioni. Questa assenza di tradizioni sembra spiegare il basso livello intellettuale, e in un certo senso morale, dei levantini… In senso spirituale queste persone sono dei senza casa; non sono più orientali ma non sono ancora europei. Non si sono liberati dai vizi dell’Est né hanno acquisito alcuna virtù dell’Occidente.
Altri due elementi nel discorso sui Balcani: complessità etnica e arcaicità della violenza
Ci sono altri due elementi che – secondo Todorova – concorrono a formare il discorso sui Balcani: quello della complessità etnica e quello dell’arcaicità della violenza. Il miscuglio di etnie comincia a essere considerato come un problema e come la causa principale dell’instabilità a partire dagli anni Venti del Novecento. Qualcuno scrisse che la penisola balcanica era afflitta da "handicap di eterogeneità". Ancora una volta sono straordinarie le poche righe con cui Todorova ci invita a considerare il problema politico sotteso alla complessità etnica e le responsabilità dell’Occidente:
praticamente nessuno sottolineò il fatto che non era la complessità etnica in sé ma la complessità etnica nello schema dello stato-nazione idealizzata che conduceva all’omogeneità etnica, innescando conflitti etnici (4).
Secondo gli osservatori occidentali la violenza causata dalla complessità etnica sarebbe inoltre peggiore di tutte le violenze compiute nel civilizzato Occidente, in quanto arcaica, frutto di spinte barbariche e primordiali, risultato di una società ancora divisa in clan e fondata sull’ethos guerresco. Persino lo stupro verrebbe vissuto dalle donne balcaniche in modo diverso rispetto a quelle occidentali, così come avrebbero rilevato due antropologi austriaci:
Lo stupro ha come scopo l’umiliazione collettiva del nemico. A cosa penseranno in primo luogo le donne stuprate? A qualcosa di diverso da quelle austriache, americane o inglesi. Queste ultime si domanderebbero: perché proprio a me? Riceverebbero il sostegno delle loro famiglie, ma penserebbero innanzitutto in termini individuali. Queste donne le donne jugoslave stuprate pensano per prima cosa ai loro mariti, ai loro figli, ai loro genitori, ai loro parenti – al disonore. In tal modo si spiega la maggior parte degli stupri. Sono atti simbolici, pensati per colpire l’avversario nella sua integrità politica
Leggiamo a questo punto la pagina più lucida di Todorova, il compimento di un percorso che con costanza, ironia e profondità scientifica ci ha invitato a smontare il discorso e l’immagine occidentale dei Balcani. Todorova ci richiama allora alla sostanza politica dei problemi, che nulla hanno a che fare con l’inferiorità razziale, la premodernità, la barbarie o le differenze religiose e culturali:
Tutto ciò è basato sull’apparente convinzione che esistano dei motori inconsci di comportamento: è la tradizione culturale che li guida. Eppure ci si può accostare al fenomeno da un diverso punto di vista, riconoscendo cioè un calcolo e un comportamento razionale da parte di chi agisce e non giustificandolo solo in termini di spinte passionali e mentalità modellate attraverso secoli e millenni. Il terrore, allora, sarà visto non semplicemente, o non soltanto, come esternazione del lato bellicoso, ma come adozione di razionali tattiche di terrore. La differenza tra le tattiche impiegate dalle parti in guerra in Jugoslavia e quelle usate dai tedeschi nella seconda guerra mondiale è stata sottolineata, instaurando in tal modo implicitamente paragoni tra la "pulizia etnica" e l’Olocausto. I nazisti organizzarono l’uccisione sistematica di popolazioni puntando alloro totale sterminio ma senza suscitare l’indignazione pubblica; infatti il non suscitare indignazione pubblica era uno degli elementi indispensabili per completare il successo dell’operazione. Invece, coloro che hanno applicato la pulizia etnica in Bosnia, hanno consapevolmente prodotto tale indignazione, non perché avevano come obiettivo finale il completo sterminio ma per creare un’atmosfera psicologica impossibile che avrebbe scacciato gli indesiderati dai loro territori. Qui il punto non è fare delle speculazioni assurde attorno a quale politica sia meno barbara, ma affermare che in entrambi i casi c’è una logica sottesa che si spiega in termini di obiettivi stabiliti razionalmente, piuttosto che di passioni irrazionali (o inconscie).
Siamo qui al punto centrale del libro, all’invito di Todorova a leggere gli eventi balcanici con le lenti della politica, della sociologia e dell’economia, così come faremmo per gli avvenimenti dell’Occidente. Abbiamo già a avuto modo di sottolineare, a proposito degli interventi di cooperazione nei Balcani, come l’instabilità delle aree periferiche venga considerata dai governi occidentali come il prodotto di odi secolari o il risultato dell’avidità di pochi e corrotti leader.
In questo quadro le guerre sarebbero quindi causate da una combinazione di ignoranza, istituzioni deboli e scarsa attitudine al libero mercato e alla democrazia, considerate sempre inscindibili. La risposta del sistema occidentale è allora quella dell’intervento tramite un mix di conflict-resolution, sviluppo sostenibile e promozione della società civile.
Ora le cause dei conflitti sono stabilite dall’Occidente in termini di cattive relazioni interne e istituzioni inadeguate: scarsa organizzazione economica, degrado ambientale e, soprattutto, istituzioni politiche autoritarie e non democratiche. Nella letteratura questo tipo di interpretazione dei conflitti viene definita col termine tecnico internalisation.
L’internalizzazione dei conflitti occupa il vuoto lasciato dalla fine delle grandi spiegazioni della povertà e del sottosviluppo cui avevano contribuito il blocco socialista, quello dei paesi non allineati e i vari movimenti progressisti che ragionavano sul rapporto Nord-Sud del mondo. Vengono così depoliticizzate le grandi questioni dello sviluppo, della pace e della guerra, della povertà e della ricchezza, poiché i conflitti vengono considerati come il risultato di mentalità sbagliate, valori culturali arretrati se non addirittura barbari (5).
Conclusioni
Vogliamo concludere con il richiamo forte di Todorova alle radici dell’Europa che devono essere considerate allo stesso tempo, e in egual misura, giudaiche, cristiane e musulmane. Todorova fa proprio il pensiero di Sami Nair (6) che vede due strade possibili per l’Europa: quella del confessionalismo e dei ghetti così come vorrebbe Giovanni Paolo II, o quella del modello repubblicano. L’Europa repubblicana e democratica dovrà quindi fare i conti con le proprie identità plurime e affrontare ogni giorno la sfida della politica e chiamare i fenomeni delle società europee con i loro nomi:
Sarebbe molto meglio che la crisi jugoslava, non balcanica, cessasse di essere spiegata in termini di spettri balcanici, antiche inimicizie balcaniche, modelli primordiali della cultura balcanica e proverbiale confusione balcanica, e fosse invece affrontata con gli stessi criteri razionali che l’Occidente riserva a se stesso: problemi di autodeterminazione contro un inviolabile status quo, cittadinanza e diritti delle minoranze, problemi di autonomia etnica e religiosa, prospettive e i limiti della secessione, equilibrio tra grandi e piccole nazioni e stati, ruolo delle istituzioni internazionali. È paradossale leggere articoli di giornalisti americani che lamentano la divisione della loro società (che loro chiamano "balcanizzazione") mentre i loro politici e i loro alleati suggellano l’effettiva, non potenziale, balcanizzazione della Jugoslavia abbracciando incondizionatamente il principio dell’autodeterminazione. Ciò non per negare la natura legittima dei processi di secessione e di autodeterminazione, ma per chiamare dati fenomeni con il proprio nome e avere una visione chiara delle loro ripercussioni. Naturalmente risulta di un’ironia senza pari osservare i leader delle società ‘etnicamente pulite’ dell’Europa occidentale, cinquant’anni dopo la loro peggiore performance, colpire con l’orrore e bombardare (con parole e atti, e nascosti al sicuro dietro la leadership americana) gli ex jugoslavi, per conservarne la "diversità etnica" e assicurare, in un angolo dell’Europa, un Volksmuseum di multiculturalismo, dopo aver dato il via libera a un processo esattamente opposto.
È lo
stesso invito che Franco Cassano ha rivolto recentemente dalla colonne del mensile Carta a proposito del mediterraneo:
Quando la retorica del moderno accusa i primi pesanti colpi a vuoto e il dibattito teorico contemporaneo prende a parlare di era postmoderna, il Mediterraneo esce dalla gabbia di una configurazione esclusivamente negativa e inizia a mutare significato non coincide più con gli orrori del premoderno da cui fuggire, ma diventa altro, un repertorio di significati che interagiscono creativamente con l’era che viene.
L’immagine dei Mediterraneo appare a questo punto ribaltata: non più qualcosa che ha preceduto il moderno e lo sviluppo, una periferia degradata di esso, ma un’identità deformata da riscoprire e da reinventare al contatto con il presente, non più ostacolo, ma risorsa. Il Mediterraneo rompe il monolinguismo fondamentalista del moderno e allarga il campo del pensiero e della sperimentazione; esso diventa una radice che è necessario scoprire oggi, forte, ma costitutivamente plurale, luogo di scontri e di incontri, di vittorie e di sconfitte, di traffici e invasioni.
Il Mediterraneo che emerge non è un’identità monolitica, ma un multiverso che allena la mente alla complessità del mondo, agli ibridi, agli incroci, alle identità che non amano la purezza e la pulizia, ma conoscono da tempo la mescolanza (7) .
Note:
(1)Cfr. E. SAID, Orientalismo, Feltrinelli. Milano 1999.
(2)Il re di Serbia Aleksander Obrenovic e la consorte Draga furono uccisi da un gruppo di centoventi congiurati e poi defenestrati nella notte fra il 28 e il 29 maggio 1903.
(3)Robert Kaplan è l’esponente più famoso negli USA della corrente culturale del neo-barbarismo. Tale corrente considera le differenze culturali come causa inevitabile del conflitto etnico e della violenza. Siamo in presenza di un nuovo razzismo che non comporta più la superiorità razziale, ma considera la coesistenza impossibile, soprattutto in territori che sarebbero percorsi da odi secolari e dall’innata propensione alla violenza delle loro popolazioni. La tesi del neo-barbarismo vede il mondo contemporaneo sul filo del caso e dell’instabilità. Per i sostenitori di tale tesi il ricorso alla violenza è una tendenza naturale che può essere tenuta a freno da livelli di sviluppo che l’attuale modello non inclusivo del capitalismo della globalizzazione non è in grado di garantire per le periferie. L’isolazionismo e il ritiro dell’Occidente sono la conseguenza di questo modo di pensare.
(4)Todorova ci ricorda anche che "sin dal XV secolo (e nel caso dell’Inghilterra molto prima), l’Europa occidentale si è impegnata in un immenso sforzo di omogeneizzazione, con varie tappe coronate da successo (la reconquista spagnola, l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra nel XII secolo, le guerre di religione in Francia e in Germania) che, unito ai forti stati dinastici, aveva posto le fondamenta dei futuri stati-nazione. L’idea che il valore intrinseco dell’Occidente risieda nelle radici più profonde di un "modo democratico di organizzare la società…con città autonome, libertà di associazione, sistema degli Stati e una serie di altre caratteristiche strutturali, difficili da descrivere concretamente", che tutte insieme gli consentivano di giungere teleologicamente alla democrazia, è un’affermazione che può essere in realtà rivisitata. Infatti, la democrazia come forma politica divenne un attributo degli stati-nazione dell’Occidente europeo solo nel XX secolo (e per la Germania solo dopo la seconda guerra mondiale), dopo che ebbero raggiunto nei secoli precedenti un notevole, sia pur non assoluto, grado di omogeneità etnica e religiosa e una società disciplinata, a un prezzo morale e umano spesso discutibile".
(5)Cfr. C. BAZZOCCHI,La balcanizzazione dello sviluppo, Il Ponte, Bologna 2003.
(6)Cfr. S. Nair, Le differend mediterranéen, "Lettre Internazionale", vol. 30, 1991.
(7)F. CASSANO, L’identità italiana non è una malattia da curare, Carta, 7/27 agosto 2003, pag. 44.