Il wrestling turco
Questa estate a Edirne si celebrano i 650 anni di vita del più importante festival di ‘lotta turca’, il Kırkpınar. Occasione per descrivere quello che, più che uno sport, è un appassionante rito collettivo, da inquadrare nel più ampio spazio culturale centrasiatico ma con sorprendenti affinità con il patrimonio storico dell’atletismo greco classico
Avevo letto l’annuncio al volo su un foglietto attaccato al finestrino di un dolmuş, mentre il mezzo rallentava dinanzi a me clacsonando per richiamare i passeggeri per le prossime destinazioni. Ero riuscito a cogliere almeno il giorno e la sede dell’evento: un luogo lì nelle vicinanze, che però non avevo mai sentito nominare.
Mi trovavo ad Antalya, nel periodo in cui riaprono gli hotel e i locali per i turisti al termine del mite inverno del Mediterraneo sudorientale. Quell’annuncio tuttavia non era rivolto agli stranieri, essendo scritto solo in turco. E’ sempre così: ti dicono che con l’inglese e le altre poche lingue internazionali ti muovi ormai dappertutto, e forse è vero. Ma se non conosci la lingua locale perdi le occasioni migliori. E io questa non volevo perdermela.
Avevo già letto qualcosa sullo sport tradizionale turco, lo yağlı güreş, lotta a mani nude praticata da atleti cosparsi d’olio per rendere più ardua la presa (significa appunto ‘lotta con l’olio’). Sapevo che la sua manifestazione più importante, il Kırkpınar, risalente al tempo della conquista ottomana della Rumelia (la penisola Balcanica), si svolge ogni anno a Edirne, ai confini con la Grecia. Ma qui ora mi trovavo sul lato opposto dall’Anatolia – al di là del mare c’è Cipro – e il poter ugualmente assistervi rappresentava una vera fortuna.
Nello stadio dei lottatori unti d’olio
La mattina dell’evento, poiché non riesco ancora a capire dove debbo recarmi, mi affido a un tassì. Dopo qualche giro arriviamo in un sobborgo di Antalya, tra ampi viali e basse palazzine: l’autista mi saluta davanti a un grande struttura sportiva, una sorta di stadio con le tribune. L’evento pare già iniziato, quindi pago il biglietto ed entro. Lo trovo gremito: le gradinate sono piene di spettatori, quasi esclusivamente uomini coi cappelletti da sole e gli occhiali scuri, tra i quali si fanno strada ragazzi che vendono bottiglie d’acqua traendole da catini pieni di ghiaccio. Anche il campo è già affollato di atleti. Parlo proprio di un campo, senza piste, né pedane: solo un vasto prato erboso. Contro quel verde intenso, i lottatori brillano al sole, poiché hanno torace, spalle, braccia e gambe nudi completamente cosparsi d’olio. Più esattamente, una miscela d’acqua e d’olio d’oliva (il regolamento ne stabilisce perfino il grado di acidità: 1,5). Anche il loro unico abbigliamento, delle braghe in cuoio nero o azzurro che vanno dall’ombelico al ginocchio, cosparse d’olio anch’esse, luccicano sotto un cielo che pare farsi di bronzo. Esibiscono cuciture e fregi in rilievo elegantemente elaborati. In origine dovevano essere esclusivamente in pelle di bufalo: un materiale che, così intriso, arrivava a farle pesare una dozzina di chili. Al giorno d’oggi viene ammesso anche il più tenero vitello, ma si tratta comunque di un indumento raffinato e costoso. Non azzardatevi a chiamarle ‘braghe’ o‘pantaloncini’, perché hanno un loro specifico nome – kispet – e artigiani famosi in tutta la Turchia (intervistati perfino sui giornali) che le confezionano a regola d’arte.
La danza dei giganti
Gli atleti (ma non dite così: sono pehlivanlar, termine persiano che sta per ‘difensori’, ‘guerrieri’, e quindi ‘forti’, ‘campioni’) più che ungersi d’olio se lo versano addosso a fiotti: dalla testa ai piedi, lungo il corpo, sulle singole membra, dentro e fuori il kispet, attingendolo con la scodella da un bidone comune o aspettando l’inserviente che da una brocca gliene versa dove e quanto vogliono. Quando inizieranno a danzare e a lottare, dal campo si leverà un profumo acre, quel ‘…miscuglio di olio, erba e sudore’ di cui canta l’inno del Kırkpınar.
Non avevo mai visto prima di allora degli atleti accennare passi di danza, tanto meno dei lottatori. Un palestrato nostrano si accascerebbe dalla vergogna a muoversi così, davanti a migliaia di persone, le braccia e le gambe allungate in falcate lente e solenni, con un passo da parata che può risultare curiosamente goffo per i più pesanti, a causa della loro mole. Invece, a schiere, i primi pehlivanlar mentre si leva nell’aria la musica dei tamburi e dei fiati (gli zurna), fanno schioccare il palmo delle mani sul cuoio zuppo di grasso, e compiono quella sfilata cerimoniale procedendo con fierezza, ma allo stesso tempo con umiltà: a tratti si fermano piegando un ginocchio, chinano il busto sfiorando leggermente la terra con la mano, che poi passano su petto, labbra, fronte, quasi a baciare il suolo.
Una cerimonia che viene da lontano
Mi rendo conto che non stiamo assistendo alla pratica di un comune sport, e neppure a uno dei tanti festival tradizionali. La musica ritmata che segna il passo dei lottatori non ci abbandonerà più fino al tramonto, come accompagnando ogni movenza dei loro duelli, vibrando a tratti lenta, a tratti incalzante e travolgente. E i canti, con l’aggiunta della voce stentorea e concitata dell’araldo che introduce i campioni ed elogia le loro trascorse imprese, esaltandone insieme la forza, la rettitudine e la virtù (‘signorilità e baldanza’, canta l’inno), trascinano gradualmente atleti e pubblico in un’appassionata, unanime fibrillazione. In realtà quell’araldo non è un annunciatore, ma un Cangir, un ‘maestro di cerimonie’. E in una vera e propria cerimonia ci troviamo coinvolti, tra incontri ritualizzati in gesti e regole che rimandano a un passato millenario.
E’ ben noto che i Turchi non sono arabi né mediorientali. Sono giunti in Anatolia dal centro dell’Asia e il loro più antico impero fu fondato prima dei tempi di Carlo Magno tra le catene montuose che separano la Siberia meridionale dalla Cina occidentale, attraverso la Mongolia. Ebbene, l’immenso spazio che va da quelle remote zone sino alle coste dei nostri mari conserva, ancora praticata e acclamata, questo tipo di lotta tra ‘galantuomini’: compreso il suo nome. L’attuale güreş anatolico riecheggia così nell’uzbeko kuraş, nel tataro köräş e nel tuvano-siberiano khureş (la repubblica russa di Tuva è ai confini della Mongolia). Nella Mongolia odierna la lotta (sport nazionale, con equitazione e tiro con l’arco), pur con un nome locale (bökh) è praticata in forme assai simili, per abbigliamento, passi di danza, canti di incoraggiamento e regole.
I legami con l’atletismo ellenico
Mentre osservo le coppie di lottatori avvinghiarsi qua e là tra l’erba, senza mai cogliere tra loro gesti scorretti o esclamazioni ingiuriose (severamente vietate), senza mai vederli troppo esultare né troppo abbattersi, il pensiero va spontaneamente alle Olimpiadi. Non a quelle moderne – pallida rievocazione – ma a quelle originarie: gli agoni sacri a Zeus Olimpio che si svolgevano nella Grecia arcaica. La ritualità, la musica, i passi ritmati, la nudità degli atleti (seppur corretta dal kispet dopo la conversione all’Islam), la suddivisione dei pehlivanlar in strette categorie d’età ciascuna delle quali ha uno specifico nome (un po’ come accadeva a Sparta), l’esclusività maschile della partecipazione alle gare, l’uso dell’olio a fini sportivi: sono tutte pratiche che paradossalmente fanno di questa lotta turca quanto di più simile sia oggi possibile vedere a ciò che dovette realmente essere l’antico atletismo ellenico. Perfino il legame con la religiosità non è del tutto assente: e non mi riferisco alla pausa di atleti e pubblico per le cinque preghiere giornaliere, ma al sostrato preislamico, sciamanico, vagamente paganeggiante che si riflette in talune pratiche residuali. Si pensi solo al tocco della terra, antica divinità asiatica per eccellenza che, come nel celebre mito di Anteo, si credeva restituisse forza al lottatore.
Aperti alle sorprese del popolo turco
La cosiddetta ‘Turchia profonda’ non è solo quella anatolica, agricola, islamico-conservatrice spesso menzionata dagli osservatori. Con essa convive una identità precedente, spesso antitetica, di ascendenza nomade: ne risulta un sostrato complesso, ambivalente, che ha probabilmente favorito certe radicali aperture culturali e politiche cui ci ha abituati la storia, antica e recente, dei turchi (come la conversione allo stesso Islam; e poi quella all’Occidente, nella prima metà del Novecento).
Proprio quest’anno, agli inizi di luglio, il Kırkpınar festeggia a Edirne i 650 anni dalla sua prima indizione (nel 1361). Chi avrà la possibilità e la ventura di assistervi non manchi di riflettere su questa indole stratificata del popolo turco: così magari non si ritroverà troppo sorpreso di fronte a qualche sua prossima, inattesa svolta.