Il vincolo del Kosovo

Parla Shkelzen Maliqi: "Il Kosovo è diventato assolutamente marginale, solo che nessuno vuole ammetterlo. Anche la Serbia non desidera più occuparsi del Kosovo, ma continua a sentire qualcosa di simile a un vincolo".

28/09/2004, Redazione -

Il-vincolo-del-Kosovo

Shkelzen Maliqi

Pubblicato sul settimanale belgradese NIN il 2 settembre 2004

Traduzione per Notizie Est di Andrea Ferrario

Il settimanale belgradese "NIN" ha intervistato a Prishtina Shkelzen Maliqi, direttore del Centro per gli Studi Umanistici "Gani Bobi", nonché noto intellettuale albanese del Kosovo.

D: Le autorità di Belgrado hanno una grande responsabilità politica, perché hanno nuovamente lasciato i serbi del Kosovo disorientati rispetto all’opportunità o meno di recarsi alle urne in ocassione delle elezioni locali del 6 ottobre. In questo momento cosa è nel migliore interesse dei serbi del Kosovo?

R: Non riescono in nessun modo a capire che sono sempre stati dipendenti da Slobo, da "Povratak", da Covic. Occasionalmente si sono sentite delle singole voci indipendenti, in una certa misura, dai centri di potere a Belgrado. Finora queste voci non hanno avuto successo, perché Belgrado, in qualche modo, ha sempre condizionato il suo sostegno. I serbi del Kosovo sono dipendenti da Belgrado non solo sentimentalmente o per qualche motivo di interesse nazionale, ma anche economicamente.

D: Sta parlando, in particolare, dei politici serbi in Kosovo?

R: Sì, molti di loro godono di grandi privilegi, di doppi stipendi. Il sostegno della Serbia è sempre più debole e non è più sicuro come in passato, ma risulta sempre in qualche modo efficace. Si tratta di due posizioni in un certo senso reciprocamente dipendenti, dalle quali per ora non c’è via di uscita. Una buona parte dei serbi, soprattutto quelli che si ritengono un’élite, ha questo doppio status.

D: Qual è la loro variante di riserva, nel caso in cui in Kosovo tutto dovesse andare in modo diverso da quanto previsto?

R: Non pensano seriamente alla possibilità di rimanere qui, oppre, se dovessero restare, vorrebbero conservare tutti i privilegi di cui godono qui e in Serbia. In generale, i serbi del Kosovo risulteranno in ogni caso la parte abbindolata. E’ uno scenario che si è già visto in passato con i serbi della Krajina e con parte dei serbi di Bosnia.

D: Cosa la porta a giungere a una tale conclusione?

R: Basta guardare il Centro di Coordinazione per il Kosovo, creato da Belgrado e guidato da Nebojsa Covic – N.d.T., ormai è diventato una cosa ridicola. E’ da cinque o sei mesi che si parla di sostituire Covic. Nessuno lo sostituisce e lui è diventato un peso per se stesso, mentre non c’è nessuno che sia pronto a dire che il Centro di Coordinazione nei fatti non esiste più. La situazione si è estremamente complicata, perché la stessa Serbia è molto divisa e non esiste più un centro di potere. E’ la Serbia ad avere enormi problemi. Il Kosovo è diventato assolutamente marginale, solo che nessuno vuole ammetterlo. Anche la Serbia non desidera più occuparsi del Kosovo, ma continua a sentire qualcosa di simile a un vincolo. Per la Serbia il Kosovo è solo una pietra al collo.

D: Ritiene che l’élite politica albanese sia meglio preparata ai negoziati sul futuro status del Kosovo?

R: Direi di no. Penso che vi siano delle analogie tra la situazione serba e quella kosovara. Gli estessi problemi con la rappresentanza, con l’élite, con il modo di presentarsi. Il Kosovo da anni è troppo diviso e non ha una normale élite economica e politica. La mancanza di competenza è presente in tutti i settori e la società kosovara ha un simile tipo di blocco dei rapporti tra partiti politici ed élite. Neanche noi possiamo creare un governo normale. Abbiamo un governo che non ha piene competenze, un governo in condizioni di protettorato, ma questo governo, così come è, non è un governo normale ed è invece diviso in settori – un ministero appartiene a un partito, un altro ministero a un altro partito, e non c’è nessuna coordinazione. Abbiamo un governo debole così come lo hanno i serbi, con la differenza che la Serbia ha almeno una maggioranza e un’opposizione sui generis, per quanto siano simulate, mentre noi non abbiamo nemmeno questo. E se a questo si aggiungono gli scarsi risultati e la debolezza dei media, si ha una situazione molto negativa per tutti coloro che vivono in Kosovo.

D: La partecipazione di Veton Surroi, Edita Tahiri e la comparsa di nuovi partiti politici albanesi di indirizzo moderato in vista delle elezioni di ottobre porteranno un po’ di aria sana nella vita politica del Kosovo?

R: Non direi che si tratti di un orientamento moderato. La piattaforma e la posizione politica di Surroi non sono chiare, e comunque si tratta di una persona che anche in passato di norma veniva considerata come un rappresentante della società civile. Nel frattempo ha dato vita a dei media sotto il suo controllo. Anche se non ha creato una pubblica opinione, è il proprietario del quotidiano più letto e dirige la terza e più simpatica televisione del Kosovo. Tutto ciò gli dà un certo vantaggio, forse anche significativo, in vista delle elezioni. Voglio dire che Surroi è un uomo relativamente di successo, ma mi sembra che non abbia scelto il momento migliore.

D: Ha tardato troppo, oppure è stato troppo frettoloso?

R: Doveva aspettare ancora un po’. Oppure, dato che ormai comunque è entrato in scena, avrebbe almeno dovuto farlo molto prima e prepararsi molto meglio. Non è possibile cambiare la situazione nel giro di tre mesi. Nel complesso penso che la ORE sia una lista elettorale molto poco matura, che si tratti di persone che non hanno una grande esperienza. Forse sono persone che godono di un rispetto personale e hanno delle prospettive. Ma le inchieste dimostrano che non tutti i partiti moderati otterranno più del 7-8% dei voti.

D: Una percentuale che, tuttavia, sarebbe sufficiente a portarle in parlamento.

R: Sì, perché non ci sono barriere. Potrebbero eventualmente svolgere qualche ruolo formando delle coalizioni. Se si formerà una grande coalizione, esiste la possibilità che anche il partito di Rugova formi un governo di maggioranza.

D: Quanto è reale tutto ciò, tenendo conto che il sostegno per Thaqi e Haradinaj cresce?

R: Thaqi e Haradinaj difficilmente possono dare vita a una coalizione, perché insieme non arrivano nemmeno al 40%. Se entrassero in coalizione con i serbi, oppure con tutti gli altri, forse riuscirebbero a formare un governo di maggioranza, ma è molto improbabile che ciò avvenga.

D: A Belgrado vi è la paura che si ripetano le violenze di marzo. Fino a che punto è reale questa paura?

R: A mia opinione, i fatti di marzo sono un solo fatto e non ritengo che siano stati pianificati, mentre sono stati sicuramente sfruttati. E’ stata un’eruzione dalla quale tutti hanno imparato qualcosa, soprattutto l’UNMIK, che penso non consentirà più la manipolazione della violenza come è avvenuto. A parte questo, l’opinione pubblica sa che le conseguenze di quanto è avvenuto a marzo sono molto negative.

D: Speriamo che se ne siano tratte le dovute conclusioni, ma vi è ancora il pericolo di disordini?

R: Esiste sempre il pericolo reale che tutto questo si trasformi in una Palestina, perché vi è estremismo da entrambe le parti. Prevedo che i rapporti si faranno più tesi nel 2005, quando si comincerà a risolvere lo status del Kosovo. In quella occasione ci saranno sfide dall’una e dall’altra parte, e anche da parte di altri soggetti, i gruppi t[]istici potrebbero nuovamente attivarsi. E’ sufficiente che una quindicina di persone addestrate mettano bombe qua e là, facendo saltare in aria autobus, per mantenere alta la tensione. E’ qualcosa che sta già succedendo in Palestina.

D: In quale misura è essenziale per la sicurezza del Kosovo il fatto che noti politici albanesi sono legati alla criminalità organizzata e ai criminali che hanno trovato il loro posto nelle fila dell’UCK?

R: Non si tratta di una causa. Può essere una conseguenza. Non so cosa lei intenda con criminalità organizzata, ma le armi, la droga e la cosiddetta criminalità grave non sono così presenti e non hanno dei legami così diretti con i politici albanesi. Li hanno solo alcuni settori delle organizzazioni internazionali, dei quali fanno parte alcune nostre persone – albanesi, serbi e altri. Negli ultimi dieci anni si sono arricchiti coloro che hanno conquistato monopoli come quello del tabacco o del petrolio, sottraendoli a uno stato in disgregazione. Direi che il pericolo è qui, perché il territorio del Kosovo è piccolo ed è facile che alcune di queste persone comincino a controllare tutto. Alcuni singoli e alcune famiglie, così come alcuni gruppi, si sono enormemente arricchiti.

D: Chi, per esempio?

R: Come i Karic in Serbia, ma anche qui vi sono alcuni personaggi del genere. Non voglio dire i nomi, perché non so tutto e se non citassi qualcuno, si potrebbe pensare che in qualche modo sono collegato a lui. Più o meno tutti sanno chi sono i più potenti.

D: E’ nell’interesse di queste potenti famiglie, per esempio, che il TMK (Corpo di difesa del Kosovo) e la polizia del Kosovo si trasformino in forze armate?

R: Anche per una situazione come è la nostra, che viene chiamata autonomia sostanziale e che è una specie di repubblica, è normale che si formi e venga strutturato un potere, che non potrà essere portato a compimento se il Kosovo non sarà dotato di forze di polizia e di difesa proprie. Questo non vuole dire che abbiamo bisogno di un grande esercito. Ci basterebbe anche questo TMK, che è una specie di esercito potenziale, perché svolge esercitazioni militari, anche se non dispone di armi. D’altronde, visto che abbiamo parlato dei fatti di marzo, bisogna tenere presente che né gli americani né i tedeschi hanno avuto pregiudizi e che hanno impegnato il TMK non perché intervenisse, ma perché separasse la gente, perché la pacificasse. Il TMK gode di autorità.

D: Dall’altra parte però i serbi hanno problemi proprio con il TMK, perché nella sua struttura di comando vi sono molti criminali e vi hanno trovato rifugio dei potenziali incriminati dell’Aja.

R: No, siamo in una situazione post-guerra. L’UCK non era assolutamente un esercito professionale, ne facevano parte elementi diversi e anche elementi che facevano parte di precedenti organizzazioni illegali estremistiche, che sono rimaste al suo interno, che erano contrarie alla trasformazione dell’UCK. Uno dei problemi del generale Ceku e del TMK è il modo in cui si gioca con la questione dello status. Si sentono come un esercito, mentre sono delle forze di protezione civile. Tutto questo genera una certa frustrazione interna.

D: Ha potuto osservare una certa dose di preoccupazione tra gli albanesi per il rischio che qualcuno degli eroi dell’UCK, come Ramush Haradinaj e Hashim Thaqi, possa trovarsi dall’oggi al domani di fronte al Tribunale dell’Aja accusato di crimini di guerra, come è avvenuto con alcuni generali in Serbia?

R: Si dice che Thaqi potrebbe avere in qualche misura delle responsabilità derivanti dalla catena di comando della quale era a capo, ma è difficile dimostrare che egli fosse direttamente responsabile, perché per la maggior parte del tempo non è nemmeno stato sul terreno. Thaqi ama dire dell’UCK e di se stesso che si trattava di un esercito, ma non era assolutamente così. Se verrà portato all’Aja, sicuramente i veterani di guerra e alcuni organizzazioni reagiranno duramente. Tuttavia non credo che i media e l’opinione pubblica metterebbero in questione le competenze dell’Aja, anche se esiste l’opinione, come in Croazia, che alcune persone vengano portate all’Aja per dare soddisfazione ai serbi, per creare, artificialmente, una specie di equilibrio.

D: Lei ritiene che Thaqi e Haradinaj abbiano partecipato indirettamente alla pianificazione e alla coordinazione delle violenze di marzo?

R: Non vi sono prove che siano avvenute in maniera pianificata. Esistevano organizzazioni segrete che forse hanno fatto qualcosa, ma penso che la maggior parte di quanto sia avvenuto sia stato spontaneo.

D: Dal giugno 1999 abbiamo oltre cento casi di distruzione di chiese in Kosovo e nemmeno un serio appello di Thaqi e Haradinaj affinché tali vandalismi cessino.

R: Sì, ma si tratta di chiese rurali abbandonate. Ne ho vista una sulla strada per Pec. E ho visto altre chiese del genere, che non hanno importanza storica e non erano sotto protezione. Vi può accedere chiunque, e molti erano armati.

D: Nel marzo del 2004 a Prizren è stata incendiata la chiesa di Bogorodica Ljeviska, che faceva parte del monaster di Sv. Arhangel, no?

R: Sì, in questo caso quanto è avvenuto è stato sia spontaneo sia sotto istruzioni. La maggior parte della responsabilità va attribuita a dei ragazzini. Loro stessi hanno ammesso che alcune di queste organizzazioni estremistiche li hanno utilizzati.

D: E quali sono queste organizzazioni di cui si sa che sono responsabili?

R: Si trattava di Dafuri e di altri, non posso dirlo con esattezza, non so a quale partito appartenga, se sia la LPK o l’UCK. Sono fronti nazionali e simili, gente che non è soddisfatta dell’UNMIK e alcuni di loro hanno ammesso in interviste di avere detto che bisogna appiccare il fuoco, hanno ammesso di avere sfruttato la situazione e di averla indirizzata.

Vedi anche:

Kosovo, l’autunno dello scontento

Notizie Est

Nin

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta