Montenegro | |
Il variegato nord del Montenegro
Dove, malgrado tutto, la convivenza resiste. Un reportage dal Montenegro pubblicato dalla rivista Questo Trentino e ripreso da Osservatorio Balcani e Caucaso
Ci sono solo 40 chilometri tra Rozaje ed il lago di Plav. In questo angolo del nord-est del Montenegro rimangono chiese ortodosse, con la loro architettura romanica, il campanile ben ancorato sul terreno, minareti tutti in legno intarsiato e chiese cattoliche. Serbi e montenegrini, musulmani ed albanesi cattolici si alternano nel suo paesaggio.
Nel campo collettivo vicino a Gusinje, in prefabbricati metallici che con il loro colore richiamano il gelido azzurro delle acque del torrente che scorre poco distante, vivono rifugiati serbi e musulmano- bosniaci originari della Bosnia, serbi ed albanesi del Kosovo. Tutti fuggiti da ciò che rimaneva della grande Jugoslavia per ritrovarsi in questa mini-Jugoslavia di prefabbricati. Solo che qui non c’è il mare della costa dalmata, le dolci colline bosniache o il bel giardino della fortezza di Kalemegdan, a Belgrado. E delle proprie case solo il ricordo.
Gusinje è conosciuto nella zona perché vicinissimo all’Albania. Non vi sono passaggi ufficiali verso il paese delle aquile ma molte stradine si insinuano nei monti. Durante i vari embarghi questo era il supermercato del nord del Montenegro. Ci si poteva trovare di tutto proveniente dall’Albania. Ci si ritrovava su di una grande spianata e all’entrata del mercato vi era chi affittava stivali di gomma. Il fango era tanto e raramente si seccava.
Ora rimane qualche bar e nessun ristorante. In centro alcuni edifici non riescono a nascondere gli anni ’50 e ’60 che li hanno partoriti; ci si scosta di qualche decina di metri e si precipita nei secoli passati. Case a base quadrata, il primo metro o due in pietra e poi travi intrecciate e mattoni di fango, alcune coperte da un’intonacatura, altre a svelare le loro intimità. Finestre piccole, a volta, quasi si temesse che la luce possa ferire ciò che vi si cela dentro.
Ci fermiamo lungo la strada principale ad osservare alcuni annunci funebri, incollati ad un palo della luce. Sono scritti in albanese. Il fratello di Jelena stupito commenta: "Guarda questi, scrivono anche in albanese!".
Alcuni giorni dopo, a seguito degli scontri in Macedonia, anche qui si alzerà la tensione e qualcuno denuncerà di aver visto sui pendii che danno sul paese milizie dell’UCK.
Chiediamo di un posto dove si possa mangiare, ci indicano un locale dove cucinano cevapcici, "Cevapciceria Mimosa". Il cameriere, un ragazzo giovane ed un vecchio. Una stufa a legna nel mezzo della stanza. Il calendario di una cantante turbo-folk, tavolini neri e sedie anch’esse nere con l’imbottitura foderata di una stoffa viola. Ordiniamo 4 porzioni di cevapcici, rigorosamente di carne di vitello qui – mi fa notare Jelena.
Sono solo due le famiglie serbe che abitano a Gusinje, tutti gli altri sono o musulmani o albanesi. Entra un poliziotto. Parla con il vecchio, discutono di politica. Il vecchio tira fuori Pobjeda, quotidiano socialista; il poliziotto propende per Djukanovic. "Io non sono per Milosevic, ma per Tito" – replica il vecchio. "Ma se tua madre dormiva con Milosevic!" – replica borioso il poliziotto ed aggiunge: "Dai, dammi 100 marchi che tu ne hai tanti". Il vecchio alza la voce succhiando la sua sigaretta. Il proprietario del locale porge la birra ed i cevapcici al poliziotto e poi butta fuori il vecchio.
Più tardi Jelena dirà alla madre: "Non sapevo che tra i musulmani di Gusinje ce ne fossero per la Federazione e contro Djukanovic", al che la madre risponde: "Certo che sì, sono per il Sangiaccato!".
Di Sangiaccato si sente ancor più parlare a 30 km a nord di Berane, lungo la strada che porta in Kosovo ed a Novi Pazar e poi in Serbia. Rozaje rientra nel lembo a sud del Sangiaccato, oasi musulmana in seno a Serbia e Montenegro.
Chiedo a Lidja, la nostra interprete, serba di Berane, se le piace Rozaje. "No, lo odio quel posto". A Rozaje il 90% della popolazione è musulmana. "Sai, sono veramente dotati per gli affari, per il commercio, ma sono anche degli ignoranti, non come a Berane dove siamo quasi tutti almeno diplomati"; "E disoccupati" – aggiungo io. "Sì, disoccupati, ma almeno non combiniamo i matrimoni, loro si vedono su di una foto che magari viene da una famiglia che abita in Germania e poi si devono sposare".
Lidja con la sua espressione mi ricorda un personaggio del film "Lepo selo lepo gore" sulla guerra in Bosnia, che si vantava dicendo che i serbi erano stati i primi a mangiare con la forchetta.
Rozaje e Berane, distano solo 30 chilometri, che dividono due mondi per alcuni versi distanti, per altri identici. E percorrendo i pochi chilometri del nord del Montenegro sembra di rivivere in una piccola Jugoslavia, quella di una volta. Qui la guerra non c’è mai stata, si continua a convivere anche se si sentono le rughe e le fatiche di tutto ciò che è accaduto.
Tutti qui conoscono Murina. Qui due bombe della NATO hanno distrutto un ponte ed ucciso 3 persone. Passando ci viene indicato il ponte, la casa dei defunti, i segni rimasti del bombardamento. Entriamo in un bar. Il cameriere in tuta mimetica, le pareti con i colori della bandiera jugoslava, una falce e martello ed al suo fianco un ritratto di Milosevic. "Sì, qui si possono fare delle foto, basta che poi non le consegniate agli aerei della NATO perché mi bombardino il bar" – ci dice il proprietario. Uomini raccolti per guardare una partita di pallamano della nazionale Jugoslava. La falce e martello a sottolineare quanto Milosevic abbia raccolto l’appoggio dei comunisti nostalgici. A prescindere dalle sue politiche, solo per il suo rifarsi al passato socialista.
Indicando il ponte di Murina, ora ricostruito, Jelena sottolinea come da qui fino a Berane vi siano solo villaggi serbi. Dalla parte opposta invece, verso il lago di Plav, no, lo testimoniano i colori: il verde dei tetti di alcune case, il bianco delle lapidi delle tombe nei cimiteri, così lontano dal marmo nero dei cimiteri ortodossi.
Jelena mi fa notare queste differenze eppure con un certo orgoglio aggiunge: "Qui in Montenegro siamo gli unici ad essere riusciti a stare insieme…".