Il Vangelo del dubbio di Aleksandar Tišma
Aleksandar Tišma è uno dei più noti e tradotti scrittori serbi del Novecento. In occasione del ventennale della sua morte proponiamo la riflessione di Božidar Stanišić e alcuni frammenti del suo diario, qui definito il suo Vangelo del dubbio
Scrivo questo articolo commemorativo ricordando l’unica e del tutto fortuita conversazione telefonica che intrattenni con Aleksandar Tišma in quella lontana estate del 2001. Fu una sorpresa che mi fecero i miei amici: il giornalista Paolo Rumiz, il vignettista Francesco Altan e il professor Emilio Rigatti. Durante un viaggio in bici da Trieste a Istanbul [1], si fermarono a Novi Sad per incontrare Želimir Žilnik, autore del documentario Tvrđava Evropa [Fortezza Europa], poi tutti insieme fecero visita a Tišma. “Spettegolarono” su di me talmente tanto che Tišma, come poi mi racconterà nel corso di quella conversazione, ad un certo punto disse: “Dai, sento questo vostro amico…”.
Prima di tutto però, scrivo questo testo dedicato ad uno degli scrittori serbi più tradotti e più originali del Novecento pensando ai giovani (e seri) scrittori della regione ex jugoslava e di tutta Europa che, volendo, potrebbero imparare molto nonostante il tramonto della letteratura a cui assistiamo. Semplicemente, leggendo Tišma e altri autentici scrittori del Novecento, i giovani imparerebbero più di quanto non imparino frequentando corsi di scrittura creativa. Quindi, il mio consiglio è di conoscere non solo le opere di Tišma, il quale – come Crnjanski, Selimović, Kiš e Pekić prima di lui – è rimasto un Nobel mancato, ma anche la sua biografia.
Concentriamoci dunque su Tišma.
C’è forse un banco di prova più valido per uno scrittore del momento della sua ultima uscita di scena di quel teatro chiamato vita? Aleksandar Tišma sta affrontando egregiamente questo test ormai da vent’anni, essendo tuttora letto in Serbia e nel resto d’Europa. A dire il vero, nella regione post jugoslava le sue opere non sono lette abbastanza, ma ormai sappiamo che nessuno è profeta nei paesini nati dopo la distruzione definitiva del Grande Villaggio.
Ora due parole (o forse più) su Tišma. Nacque nel 1924 a Horgos, frequentò la scuola elementare e il ginnasio a Novi Sad. Sopravvisse alla guerra e all’internamento in un campo di lavoro forzato in Germania. Dal 1945 al 1949 lavorò come giornalista per Slobodna Vojvodina e Borba. Nel 1954 si laureò in lingua e letteratura inglese alla Facoltà di Filosofia di Belgrado. Dal 1949 al 1981 fu redattore presso la casa editrice Matica srpska di Novi Sad, per quattro anni (1969-1973) dirigendo anche la rivista Letopis Matice srpske. Traduceva dal tedesco e dall’ungherese.
Nei primi anni Novanta, sconcertato di fronte alle recrudescenze nazionaliste nella Serbia di Milošević, trascorse qualche tempo in Francia, recandosi spesso anche in Austria e in Germania (dove, pur dimostrando gratitudine verso il suo editore tedesco, non si lasciò coinvolgere nell’onnipresente clima antiserbo).
Fu insignito di numerosi premi e riconoscimenti letterari, anche all’estero, tra cui il premio NIN per il miglior romanzo jugoslavo (1977), il premio Szirmai Karoly (1977, 1979), il premio Andrić (1979), il riconoscimento assegnato dall’acciaieria di Sisak (1984), il premio della città di Brno per il miglior feuilleton europeo (1994), il premio della Fiera del libro di Lipsia (1996), il riconoscimento assegnato dallo stato austriaco per la migliore opera letteraria europea (1996), il premio Mondello conferito dalla città di Palermo (2000).
Detentore della Legione d’Onore francese, fu membro permanente dell’Accademia serba delle scienze e delle arti e dell’Accademia delle arti di Berlino. Morì nel 2003 a Novi Sad. Nel 2019 la Fondazione Aleksandar Tišma ha istituito un premio letterario che porta il nome dello scrittore. La rinomata casa editrice Akademska knjiga di Novi Sad è impegnata nella pubblicazione dell’opera omnia di Tišma. Dei ventotto titoli previsti, finora ne sono usciti diciotto, raccolti in ventidue volumi. La produzione letteraria di Tišma è oggetto di studio presso le cattedre di letteratura delle università serbe ed europee. Ad oggi cinque dei suoi libri sono stati tradotti in italiano [2].
Ora espongo alcune mie osservazioni soggettive.
Quali tra i numerosi dettagli riguardanti la vita e le opere di Tišma ritengo importanti per la comprensione del suo percorso esistenziale e letterario? Dall’incontro tra suo padre, serbo (dedito al lavoro, ma benvisto anche negli ambienti di divertimento), e sua madre, ebrea (introversa e incline all’arte) fino alle Lettere a Sonja (una raccolta di lettere che Tišma scrisse alla moglie, la quale, dopo la morte dello scrittore, rievocò la sua figura di marito e padre da una prospettiva intima.)
In primo luogo, Tišma rimase sempre fedele a se stesso nella sua duplice identità, anche in quel complesso clima sociale della città di Novi Sad prima e dopo la guerra. Fu irremovibile nei propri principi al punto di preferire restare ai margini anziché puntare al centro (tanto caro anche agli artisti.) Rimase se stesso anche di fronte alle critiche che gli venivano rivolte da varie menti mediocri e invidiose che trovavano “contraddittorie” alcune osservazioni di Tišma sulla letteratura, il mondo e l’uomo, soprattutto quelle espresse in alcune interviste rilasciate negli anni Novanta durante il soggiorno in Francia. Tišma cominciò a costruire la propria identità sin dalla prima giovinezza. Ne è prova il suo Diario, iniziato all’età di diciassette anni.
Tišma sopravvisse alla guerra e all’internamento in un lager (vita nuda) in Transilvania. All’epoca ancora giovane, fu utile al regime nazista come portatore di una forza lavoro da sfruttare. Non bisogna dimenticare che il Terzo Reich si contraddistinse anche per il pragmatismo dei suoi capi e dei suoi servi, che decidevano chi sarebbe finito in una baracca, chi in una camera a gas e chi invece in una fabbrica. Fu proprio l’esperienza del lager a suscitare in Tišma il primo forte senso di appartenenza ad una collettività umana minacciata dal male, un male che lo scrittore in quel periodo cercò di ricondurre a cause metafisiche.
Tišma, cresciuto nell’ambiente multiculturale della Vojvodina, poteva scegliere in che lingua scrivere. Scelse il serbo. In questo senso, il suo percorso coincide con quello di Kiš: un letterato deve sempre scrivere nella lingua che conosce meglio. Anche se Tišma, così come Kiš, durante il suo soggiorno in Francia, ogni tanto scriveva anche in francese.
La sua esperienza di traduttore ed editore delle opere altrui influenzò profondamente la sua produzione letteraria (oltre al serbo e all’ungherese, Tišma parlava correntemente anche l’inglese, il tedesco e il francese), determinando il suo atteggiamento irriducibile nei confronti della lingua. Una sessantina di anni fa, il manoscritto del primo romanzo di Tišma fu respinto dagli editori, e lo scrittore successivamente ringraziò la persona che gli rispedì quel testo per correggerlo. Così, attraverso la lingua (che per gli autentici scrittori è tutto), nasceva Tišma, scrittore del realismo moderno, osservatore impietoso di se stesso e degli altri.
Volendo poi soffermarci sul realismo, va sottolineato che fu proprio una visita ad Auschwitz, nei primi anni Sessanta, a spingere Tišma a sprigionare definitivamente l’impulso ad esprimere la dimensione ebraica del suo essere e l’esperienza del lager e della guerra. Rispondendo alla richiesta di un giornale tedesco che chiedeva una sua fotografia, Tišma inviò la foto di un ragazzo del ghetto di Varsavia con le braccia alzate (un’immagine ben nota a quella parte dell’umanità che non si è ancora arresa alle comodità dell’oblio, opponendosi tenacemente al revisionismo storico) accompagnandola con una didascalia in cui affermò di essere stato fotografato in varie occasioni, come figlio, alunno, studente, scrittore precisando però che “era tutta finzione poiché non ero mai me stesso. Non mentivo solo scrivendo. Per questo, anziché una mia foto, vi invio un’immagine altrui nella quale però mi riconosco, non solo perché quel ragazzo mi somiglia, ma anche perché quella fotografia esprime il sentimento prevalente della mia crescita: l’impotenza davanti alle regole della vita, dell’umanità e della realtà”.
In Tišma l’elemento ebraico è sempre originale e irripetibile [3]. Nessuno scrittore mondiale è mai riuscito a raccontare la storia di un ebreo sopravvissuto all’annientamento del proprio popolo in modo così convincente come ha fatto Tišma. Per questo il suo romanzo Knjiga o Blamu [Il libro di Blam], il primo di una serie di cinque volumi, ci si rivela come una prosa in cui lo stile dell’autore è completamente impregnato del suo credo. Tišma ha letteralmente conquistato il proprio stile letterario lottando con i dubbi che lo assalivano, a partire da quello fondamentale: chi sono mentre scrivo? (E quel pentateuco? Questo termine, caro a Tišma, definisce la sua prosa più importante, composta da cinque volumi. Ovviamente, l’allusione ai cinque libri di Mosè non è casuale. Trattandosi però di un argomento che merita un lungo capitolo a parte, mi fermo qui.) Ne Il libro di Blam la voce di Tišma è precisa e fredda come il Danubio ghiacciato dove, dopo la strage degli ebrei di Novi Sad, i fascisti ungheresi gettarono le loro vittime.
Le raccolte di racconti Krivice [Le colpe, 1961] e Nasilje [La violenza, 1965] preannunciarono una svolta radicale nel modo in cui Tišma percepiva il male. Seguendo le cronache giudiziarie, si rese conto che il seme del male non nasceva solo durante le guerre, viveva anche negli esseri umani, trovando nelle relazioni sociali, in primis quelle amorose e familiari, un terreno fertile per germogliare. “Dopotutto l’uomo è come un animale. Riunisce in sé il bene e il male. Il domestico e il selvaggio. Desideriamo mangiare, desideriamo bere, desideriamo stare al caldo, essere coperti. E siamo disposti a fare di tutto, anche le cose peggiori, pur di soddisfare questi bisogni. Considerando che questa inclinazione al male è ormai radicata dentro di noi, le persone perverse, mosse da qualche impulso depravato, tendono a compiere il male anche indipendentemente da quei bisogni quotidiani”.
Mi auguro che questo articolo possa spingere i lettori italiani a conoscere Tišma, almeno attraverso alcuni brevi frammenti che propongo qui di seguito, anche come autore del Diario [4], la sua principale opera autobiografica, il suo Vangelo del dubbio. È vero, molti hanno pubblicato i propri ricordi di Tišma, credo però che il suo denudarsi, come uomo e scrittore, rivesta un’importanza cruciale.
Un’introduzione al Diario di Tišma a firma di Dragan Velikić [5], intitolata Begunac bez odredišta [Un fuggiasco senza meta] è, a mio avviso, il testo più lucido su questa opera autobiografica del grande scrittore. Concludo questo articolo commemorativo con un frammento tratto da suddetta introduzione che parla dei passi di Tišma lungo quel sentiero mobile che ci sorpassa:
“Scrivendo un diario per sessant’anni, Tišma ha lottato contro la tendenza a ingannare se stesso e gli altri. Non conosco nessun altro diario il cui autore, senza risparmiarsi, è riuscito a denudarsi in questo modo e a svelare la propria disperazione e miseria. Di certo non lo ha fatto spinto dal mero desiderio di scioccare e di vestire i panni di un antieroe, un desiderio che può rivelarsi inebriante, eccome. Capita spesso che nei loro diari gli scrittori ammettano le illusioni, le offese rivolte agli altri, che rivelino la propria lussuria e le proprie pulsioni erotiche, non ricordo però di essermi mai imbattuto né in un’affermazione in cui si confessa quella caratteristica così comune della natura umana che è l’invidia, né tanto meno in quella debolezza che consiste nel non voler lasciarsi prendere dall’avidità e dall’egoismo, rischiando così di sembrare ridicoli e impotenti. Ed è proprio questo che Tišma ha fatto in quei sei decenni in cui ha scritto il suo diario, rimanendo un osservatore incorruttibile della caducità del mondo, e di se stesso in quel mondo […] In Tišma non vi è alcuna traccia del tentativo di correggere il proprio ruolo nella vita pubblica, di assicurarsi a posteriori una posizione più vantaggiosa. Al centro del suo diario vi è un singolo individuo, l’universo intero si riduce alla cubatura di un cranio travolto dalla sofferenza quotidiana della lotta con se stesso, con il male che si porta dentro, con le passioni e le debolezze”.
Frammenti tratti dal Diario (vol. 1)
Si sta nuovamente delineando l’imminente pericolo della guerra: sia i russi che gli americani contribuiscono all’inasprimento delle relazioni. Un tempo ero capace di pensare alla guerra come ad un teatro a cui attingere in cerca dei motivi che permettessero al mio talento di fiorire pienamente, una supposizione che sembra essere stata incoraggiata dall’esperienza che avevo maturato nella guerra precedente, da un’osservazione precisa acquisita nel frattempo e, infine, dalla mia propensione a ricorrere a motivi e temi morbosi. Oggi però penso che di fronte agli orrori di una nuova guerra resterei inerme. Non ho più né idee né convinzioni, e le atrocità non possono che turbarmi, senza nemmeno lasciarmi sorpreso. Probabilmente cercherei, per quanto possibile, di fuggire di fronte ai pericoli, e se dovessi sopravvivere ad un massacro, ne uscirei prostrato, travolto dalla paura, privo di qualsiasi idea e ambizione.
18 giugno 1958
Oggi ho finito “Quelli che amiamo” – la versione definitiva – resta solo da correggerla e batterla a macchina. Da un certo punto di vista, questo libro può essere considerato una mia autobiografia, sono io. Se così fosse, ora potrei avvicinarmi con maggiore libertà a ciò che conosco – anche fuori di me. Molto ancora resta da apprendere con la mente. L’intero mondo ebraico, ad esempio, è una babele ambigua e delicata che finora non ho mai osato affrontare.
22 febbraio 1959
Pian piano, da un fallimento all’altro, si sta profilando la mia posizione. Non posso essere importante nel contesto della letteratura jugoslava contemporanea. Dovrei essere contento del fatto che in essa ora prevalga la propensione a seguire modelli europei, così il mio essere lontano da quell’ambiente passa inosservato. Posso vivere senza disperarmi perché sono circondato dai libri. Posso provare a lasciare un messaggio riguardante la mia posizione peculiare.
27 settembre 1959
Ieri e oggi a Belgrado ho sofferto la solitudine. Ora credo di averne capito il motivo: una moltitudine di destini individuali con cui la metropoli (forse non perché è grande, ma perché caotica, per me infinita) sminuisce l’eccezionalità del mio destino. Qui, nella mia palanka, mi basta uno sguardo per poter valutare qualsiasi persona, paragonarmi ad essa, definire la mia prospettiva, di solito favorevole, verso di essa. Lì, invece, nei passanti i cui tratti mi sono del tutto estranei, le cui conversazioni frammentate rispecchiano mondi chiusi, diametralmente opposti al mio, eppure finiti, autocompiacenti, avverto quanto il mio mondo sia fortuito e, di conseguenza, irrilevante. Naturalmente, questo metterebbe in discussione quella autentica terra straniera che tanto agognavo, qualora dovesse diventare il teatro della mia vita. E qualche giorno fa pensavo ancora, col cuore in gola, che forse, forse non troppo tardi, qualche tumulto, guerra o golpe mi avrebbe potuto trasportare in quella terra, fosse stato anche l’unico senso del mio destino: se non ero capace di vincere, potevo almeno essere uno straniero chiaroveggente là dove l’altro sarebbe rimasto un emigrante.
15 novembre 1960
Per via della mia non appartenenza a nessuno degli ambienti che mi compongono – ebraico e serbo – non vivo la realtà apertamente e socialmente, bensì ermeticamente e individualmente. Per questo i legami sociali appaiono sfocati persino nella mia memoria, e riesco a rievocarli solo con l’intelletto, mentre uno scrittore vero e radicale lo fa con l’istinto.
10 aprile 1961
Sono stato in Polonia, a Vienna e Pest, solo per meglio capire quanto fossi solo ed estraneo a tutto. Sono ebreo, uomo senza terra, ma anche un uomo privo della capacità ebraica di adeguarmi e identificarmi facilmente con un ambiente fino a ieri sconosciuto.
12 novembre 1961
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[1] Tra i frutti di questo viaggio ci sono due libri: Tre uomini in bicicletta, realizzato da Paolo Rumiz e Francesco Altan (Feltrinelli, Milano, 2002), e La strada per Istanbul, scritto da Emilio Rigatti (Ediciclo, Portogruaro, 2002).
[2] Scuola di empietà (E/O, Roma, 1988), L’uso dell’uomo (Jaca Book, Milano, 1988), Pratiche d’amore (Garzanti, Milano, 1993), Il libro di Blam (Feltrinelli, Milano, 1998), Kapò (Zandonai, Rovereto, 2010). Va menzionato anche il libro Novi Sad. I giorni freddi(ADV Publishing House, Lugano, 2012) in cui Tišma e Kiš parlano dei crimini commessi dai fascisti ungheresi contro la popolazione ebraica, serba e rom.
[3] La professoressa Ljiljana Banjanin ha pubblicato un interessante saggio sul tema dell’Olocausto nell’opera di Tišma e Albahari.
[4] Ringrazio Bora Babić, direttrice della casa editrice Akademska knjiga, per avermi fornito alcune informazioni utili, spiegando tra l’altro che: “Michael Martens ha a più riprese citato alcuni frammenti del Diario nel quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung. L’anno scorso in Germania è uscita un’autobiografia di Tišma dal titolo Sečaj se večkrat na Vali, ed è stata il libro del mese di marzo”.
[5] L’introduzione al primo volume del Diario (Akademska knjiga, Novi Sad, 2018)