Il Tribunale dell’Aja e la riconciliazione nei Balcani – I

Più di dieci anni dopo le guerre in Bosnia e in Croazia, IWPR si interroga, in questo lungo dossier, se la giustizia dispensata dall’Aja possa aiutare le comunità divise dei Balcani a procedere sulla strada della riconciliazione. La prima di tre puntate

10/08/2006, Redazione -

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Slobodan Milosevic all'Aja

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A cura dello staff di IWPR* all’Aja, Sarajevo, Ahmici e Londra, 21 luglio 2006, International War and Peace Report, IWPR (titolo originale: "Special Report: The Hague Tribunal and Balkan Reconciliation"). Traduzione di Carlo Dall’Asta per Osservatorio sui Balcani.

Hazrudin Bilic è stato testimone del tristemente famoso massacro di musulmani compiuto dai croati nel villaggio bosniaco di Ahmici il 16 aprile 1993. Rifugiatosi in uno scantinato con la moglie incinta ed il figlio di quattro anni, egli poté solo restare a guardare mentre davanti ai suoi occhi uomini, donne e bambini venivano trucidati.

L’attacco di Ahmici, condotto da combattenti leali al Consiglio di difesa croato, si è imposto all’attenzione come il peggiore episodio singolo di atrocità nel conflitto scoppiato tra gli eserciti degli ex alleati croati e musulmani.

Su di esso si è anche incentrata una grande mole di lavoro da parte del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, TPI, la corte ad hoc che per molto tempo ha rappresentato il nucleo principale degli sforzi della comunità internazionale affinché fosse fatta giustizia per le atrocità commesse durante le guerre degli anni ’90 nei Balcani.

Un ex combattente croato, Miroslav Bralo, ha perfino fatto il raro passo di dichiarare pubblicamente di fronte ai giudici dell’Aja il suo profondo rimorso per il ruolo da lui avuto in questa ed altre atrocità, affermando che le sue scuse avrebbero dovuto essere "più grandi del globo terrestre".

Ma vivendo oggi ad Ahmici, Hazrudin Bilic è cauto su quanto possano significare questi sviluppi, in lontane aule di tribunale, per le relazioni tra croati e musulmani in un villaggio i cui residenti musulmani hanno appreso l’aliena pratica di chiudere a chiave le porte di notte.

La locale moschea e la maggior parte delle case sono state ricostruite, ed è difficile da immaginare ora che questo piccolo e grazioso villaggio incastonato tra le rigogliose colline della valle della Lasva sia stato il teatro di una tale violenza. Ma a un certo livello le animosità rimangono.

"Ritengo che l’unica cosa che potrebbe aiutare i musulmani e i croati di Ahmici a riconciliarsi gli uni con gli altri sarebbe parlarne onestamente", dice Bilic. "Per me significherebbe molto se dicessero: ‘Noi non abbiamo partecipato al massacro ma neppure abbiamo fatto nulla per fermarlo, e ce ne dispiace’. Sarebbe importante per il futuro dei nostri figli".

Fehima Pezer, un’anziana signora con spessi occhiali ed il tradizionale velo, è più pessimista sull’idea che il TPI possa riparare il danno fatto ad Ahmici. Niente, dice, può far tornare indietro l’orologio a prima del massacro – in cui morirono suo marito e la madre di 82 anni – o a prima della morte del suo figlio adolescente, ucciso da un cecchino alcuni mesi prima.

Lei non segue i processi per i crimini di guerra che si svolgono all’Aja, non è interessata al lavoro del tribunale e non potrebbe importargliene di meno delle confessioni di chi ha commesso quelle atrocità, neppure nel caso di quelle commesse nel suo stesso villaggio.

"Niente riporterà indietro quelli che sono stati assassinati", dice amaramente.

La Bosnia al centro dell’attenzione

Questo dossier rappresenta il risultato degli sforzi di IWPR di scavare in profondità nella ampiamente condivisa asserzione secondo cui il TPI ha un ruolo centrale da giocare nell’aiutare le comunità divise dei Balcani a riconciliarsi con la loro violenta storia recente, e a riconciliarsi le une con le altre.

La nostra ricerca ha comportato incontrare sopravvissuti di alcune delle peggiori atrocità delle guerre degli anni ’90, rappresentanti della società civile dei Balcani e importanti figure del TPI, così come pure accademici di livello internazionale il cui lavoro s’incentra sulla giustizia della transizione e sulla riconciliazione postbellica.

Anche se i temi in gioco sono di portata regionale, questo dossier si concentra sulla Bosnia, paese in cui la questione della riconciliazione è forse più cruciale e più complessa che in qualsiasi altra parte dei Balcani. Qui la guerra ha coinvolto tutti e tre i principali gruppi etnici, contrapponendoli in un conflitto che ha visto alcuni dei più efferati crimini dell’intero periodo.

Ciò che abbiamo scoperto attraverso le nostre ricerche, come ci si poteva aspettare, si è rivelato essere uno stato di cose incredibilmente complesso, in cui le consuete affermazioni di comodo sulla giustizia, la verità e la riconciliazione si dissolvono rapidamente.

I nostri risultati suggeriscono che se pure il TPI è in grado di giocare un qualsiasi ruolo nel promuovere la riconciliazione nei Balcani, lo può fare solo nel contesto di un’intricata ragnatela di fattori interconnessi, dipanare la quale potrebbe richiedere decenni. Al cuore del problema si trovano un’intensa resistenza da parte di molti nella regione ad accettare la realtà che il proprio gruppo etnico commise delle atrocità, e questioni politiche rimaste senza risposta, che rendono difficile guardare in prospettiva verso il futuro.

Allo stesso tempo è chiaro che tutte le opportunità il TPI può avere per contribuire al complesso processo della riconciliazione sono state per molto tempo vanificate dalla sua incapacità a rapportarsi con la gente della regione.

La riconciliazione, uno degli scopi del Tribunale

Il tribunale dell’Aja fu costituito nel 1993, con lo scopo di consegnare alla giustizia chi maggiormente si era reso responsabile dell’ondata di orrori che aveva percorso i Balcani all’indomani del collasso del vecchio ordine jugoslavo, all’inizio del decennio.

Sia la Bosnia che la Croazia erano al tempo sommerse dalla violenza, e c’era la sensazione che bisognasse fare qualcosa in risposta alle immagini televisive dei bombardamenti indiscriminati, delle case bruciate, dei prigionieri macilenti, e le prove delle diffuse e sistematiche pulizie etniche.

Oggi la violenza si è conclusa ma i Balcani restano molto divisi.

Il sistema statale della Bosnia, emerso dagli accordi di pace che posero fine alla guerra nel paese la divide in due entità definite su base etnica, la Federazione croato-musulmana e la Republika Srpska a maggioranza serba, che hanno posizioni contrapposte sulle questioni politiche chiave.

Allo stesso tempo il governo federale di Sarajevo ha fatto causa alla vicina Serbia per il suo ruolo nella guerra di Bosnia, una causa in cui potrebbero essere in gioco miliardi di dollari di risarcimento danni.

La Serbia, da parte sua, non è stata ammessa a più stretti rapporti con l’Unione europea a causa della sua apparente riluttanza a consegnare alla corte dell’Aja i principali imputati per crimini di guerra latitanti, ovvero l’ex comandante militare serbo bosniaco Ratko Mladic e l’ex leader politico serbo bosniaco Radovan Karadzic, tuttora visti da una significativa parte della popolazione serba come degli eroi.

Invece la Croazia – anch’essa impegnata in un procedimento legale contro la Serbia per ottenere il risarcimento dei danni di guerra – è riuscita a superare il principale ostacolo che la separava dall’ingresso nella UE solo alla fine dell’anno scorso, con l’arresto da molto tempo atteso del sospetto criminale di guerra Ante Gotovina, anch’egli tuttora ugualmente lodato da molti croati.

In mezzo a tutto ciò, da molte parti si è sperato che il TPI avesse un ruolo da giocare al di là del dispensare semplicemente la giustizia penale.

Funzionari ed esperti hanno spesso un gran da fare per sottolineare che la giustizia penale deve essere la priorità. "Il TPI, in quanto tribunale, deve preseguire i colpevoli secondo le leggi… coloro che si ritiene siano responsabili delle violazioni. Il suo ruolo inizia e finisce lì", ha dichiarato ad IWPR l’attuale presidente del TPI, il giudice Fausto Pocar.

Ma il fatto è che nel corso degli anni si è mantenuta l’aspettativa che l’operato del TPI possa o debba aiutare a riconciliare le popolazioni dei Balcani con la loro recente storia vioenta, anche se solo come sottoprodotto del suo scopo centrale, specificamente giudiziario.

Voci che esprimono questa convinzione si possono sentire tanto all’interno del Tribunale quanto fuori. Pur mantenendosi in linea con la sua affermazione, secondo cui il procedimento giudiziario deve incontestabilmente rimanere la priorità del TPI, lo stesso giudice Pocar riconosce che: "ciò naturalmente non esclude il fatto che le decisioni che il Tribunale prende avranno un impatto sul processo di riconciliazione".

Nel 2001, durante un discorso tenuto a Sarajevo, l’allora presidente del tribunale, il giudice Claude Jorda, fece una valutazione ancora più forte della relazione tra il lavoro della corte ed il processo di riconciliazione postbellica nei paesi dell’ex Jugoslavia.

Riferendosi alla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che aveva istituito il TPI all’inizio degli anni ’90 e che esprimeva la convinzione che esso avrebbe "contribuito al ristabilimento ed al mantenimento della pace", il giudice Jorda parlò della "missione di riconciliazione" della corte.

Un sentimento similare si può ritrovare perfino nelle parole di Dragan Obrenovic, un ex soldato dell’esercito serbo bosniaco che nel 2003 all’Aja si dichiarò colpevole di aver partecipato alle esecuzioni di massa dei prigionieri e accettò di fornire ai procuratori informazioni riservate.

"In Bosnia, un vicino conta più di un parente. In Bosnia prendere il caffé col tuo vicino è un rito, questo è ciò che noi abbiamo messo sotto i piedi e dimenticato", ha detto Obrenovic alla corte. "Nell’odio e nella brutalità abbiamo perduto noi stessi".

"È mio desiderio che la mia testimonianza aiuti ad impedire che ciò possa accadere ancora, non solo in Bosnia ma in qualsiasi parte del mondo".

Cos’è la riconciliazione?

L’idea della riconciliazione nelle situazioni successive ad un conflitto è un tema ricorrente nei circoli accademici, umanitari e politici. Ma il concetto che sta al cuore del dibattito è in sé controverso.

Alcuni parlano di riconciliazione in un senso morale, quasi religioso, come includendovi la confessione ed il perdono dei singoli individui. Anche se questo è uno dei chiari significati della parola, molti sentono che questo tipo di riconciliazione è raro nelle situazioni postbelliche, e che c’è anche qualcosa di intrinsecamente paternalistico nell’idea che gli attori internazionali dovrebbero cercare di promuoverla.

Invece, nel contesto delle discussioni sul TPI e sulla riconciliazione nei Balcani, molti trovano più utile parlare di concetti come quello di "ricostruzione sociale".

David Bloomfield, direttore del Centro di ricerca Berghof per la gestione costruttiva dei conflitti, spiega: "Quando noi al Berghof… usiamo il termine riconciliazione, è una cosa molto più pragmatica, riguardante il costruire relazioni costruttive a livello politico e sociale. Questo non vuole dire diventare amici di nessuno. Non vuole necessariamente dire smettere di odiare qualcuno. Vuole dire solo che bisogna lavorare insieme, anche in un modo minimo, far funzionare la politica senza ammazzarsi a vicenda".

Nel lungo periodo, aggiunge Bloomfield, si può discutere sul fatto che queste "minime, rancorose relazioni" possano far nascere un qualche tipo di riconciliazione. "Se queste relazioni si consolidano, gradualmente si svilupperanno; ci sarà sempre maggiore cooperazione, fiducia e – chissà – forse anche rispetto", sostiene. "E forse alla fine del percorso, tra qualche anno o tra qualche decennio, si trasformeranno in pace ed amicizia".

Un "work in progress"

Per quanto riguarda i paesi dell’ex Jugoslavia, gli osservatori locali ed internazionali concordano sul fatto che la riconciliazione, se pure ha fatto qualche significativo passo in avanti, è ancora in larga misura un "work in progress".

Steven Burg, professore di politica internazionale presso la Brandeis University, ha dichiarato a IWPR che il ritorno dei rifugiati e la cooperazione economica stanno crescendo nella regione. Ma egli è scettico su quanto ciò possa rappresentare un fenomeno di riconciliazione su vasta scala, nel senso della confessione e del perdono.

"Sicuramente io non penso che stia funzionando in quanto fenomeno sociale", ha detto. "Non ci sono segnali nei comportamenti politici – negli schemi di voto, nel modo in cui i governi locali funzionano o non funzionano – che da qualche parte ci sia stata la riconciliazione".

"Quello che abbiamo in Bosnia è purtroppo un continuo processo di divisione e differenziazione, anziché di riconciliazione", ammette Branko Todorovic, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani della Republika Srpska.

Nusreta Sivac, una ex giudice musulmana fuggita dalla città bosniaca di Prijedor durante la guerra, ed ora ritornatavi, ha detto a IWPR che le relazioni con i serbi nell’area sono ampiamente migliorate. "Giorno dopo giorno va sempre meglio, non ci sentiamo più così minacciati", ha detto.

Fa notare che Prijedor ha un numero eccezionalmente alto di rifugiati ritornati dopo la guerra, se paragonata con altre parti della Bosnia.

Però avverte: "Io non penso che questo sia un indicatore che il processo di riconciliazione qui ha avuto successo. È più il risultato della determinazione della gente a ritornare nelle proprie case.

"La riconciliazione è un processo talmente complesso, in cui tutti i segmenti della società devono essere coinvolti. Ma qui non c’è ancora una volontà sufficientemente forte per imbarcarsi in un simile processo ed iniziare a lavorarci come si dovrebbe".

(Fine della prima parte – continua)

*Questo dossier è frutto del lavoro di ricerca e compilazione di Merdijana Sadovic, corrispondente di IWPR da Sarajevo ed Ahmici; Michael Farquhar, giornalista di IWPR a Londra; Caroline Tosh, collaboratore di IWPR da Londra; e Janet Anderson, direttrice del Programma di giustizia internazionale di IWPR all’Aja.

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