Il tempo ritrovato di Denizli

A volte viaggiare è seminare domande e raccogliere risposte solo in seguito. Un cranio di Homo Erectus, un gallo scolpito, un bazar che nasconde una fortezza scomparsa: a Denizli, la storia si legge solo tra le righe del presente e il viaggio inizia quando sembra finito

13/08/2025, Fabrizio Polacco -

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Entrando a Kaleiçi - foto di F. Polacco

È preferibile conoscere in anticipo quello che poi si vedrà viaggiando, o approfondirne il senso e il valore dopo che lo si è visitato?

È prevalente il piacere di toccare, di guardare finalmente coi propri occhi ciò che si è da prima studiato e vagheggiato? Oppure, ci colpisce di più l’emozione che illumina, a posteriori, su quel che davvero abbiamo visto e vissuto un certo giorno?

Il lampo che serpeggia tra le sinapsi quando capiamo dove davvero siamo stati, e che cosa era quel che abbiamo visto, non è un modo per proseguire nel tempo le scoperte di un viaggio, per riprenderlo, e, in definitiva, per continuare a viaggiare?

Mi domando più volte, ad esempio, perché mai il bazar di Denizli si chiami Kaleiçi: così viene indicato nella mappa cittadina. Significa ‘fortezza interna’: in pratica, è la roccaforte di un centro abitato.

Ma, aggirandomi tra le sue molte viuzze e botteghe per esaudire un mio piccolo desiderio – una cinta in pelle, tazzine per il granuloso caffè turco, un tessuto per foderare i cuscini, o semplicemente l’aroma di una spezia ignota – non vedo mura, né portali, né torrioni, neppure qualche frammento di possente costruzione: nulla, insomma, che giustifichi quel nome.

Eppure, ogni volta che accedo al mercato coperto dal suo grande piazzale antistante – quel Bayram Yeri dedicato alle cerimonie pubbliche, come la danza Zeibek cui ho assistito un giorno – non posso fare a meno di avvertire la netta sensazione di un passaggio ad altra dimensione, come di un salto indietro nel tempo.

Forse il passato, la storia, lasciano segno di sé anche quando le loro testimonianze materiali sono andate distrutte; che è quanto è successo qui a Denizli: terremoti, guerre, invasioni, hanno determinato il suo aspetto sostanzialmente moderno.

Eppure, eppure…

Il primo oggetto che ti accoglie quando accedi al Museo della Città è straordinariamente antico. È quanto resta di un uomo. Non proprio uno come noi, diciamo: sono i frammenti di un cranio di Homo Erectus. Detiene un primato, per un fossile rinvenuto a queste latitudini: ha tra un milione e 200.000, e un milione e 600.000 di anni. Proviene da un villaggio vicino, Kocabaş. Dopo quello di un suo predecessore ritrovato in Georgia è il resto più antico del genere Homo rinvenuto fuori dalla culla africana dell’umanità.

Una sala espositiva del Museo della città di Denizli Denizli – foto F. Polacco

E poi ecco, finalmente, appesa ad una parete, una ricostruzione grafica dell’originario tracciato di Kaleiçi.

Dunque, quei varchi che mi introducono al bazar, corrispondono, a distanza di otto secoli, alle sue antiche porte fortificate, con tanto di singolo nome ricordato dalle fonti. Là dove c’erano gli stipiti e l’architrave, oggi pendono dalle stampelle capi d’abbigliamento o mazzi di ortaggi che, oscillando, quasi ne ridisegnano il profilo.

E l’originaria funzione difensiva del sito mi si dispiega con evidenza quando ripenso che le schiere di botteghe lungo le sue stradine – raggruppate per specialità: ramai, cuoiai, sarti, ecc. – non sono disposte in piano, ma a saliscendi: come si conviene ad una fortezza, eretta in una zona più elevata.

Sala da tè ‘verticale’ all’interno del bazar di Kaleiçi, a Denizli – Foto F. Polacco

Era questo il cuore dell’antica Denizli, quando nei pressi correvano i confini, insanguinati da aspre battaglie, tra il dominio dei Selgiuchidi e quello dei Bizantini, in diuturna lotta tra loro. E che sorpresa è trovarne traccia perfino nella curiosa sala da tè ‘in verticale’, con un tavolo per ogni suo singolo gradone, dove mi sono fermato più volte a bere, a riposare, a scrivere.

E il Bayram Yeri, la piazza delle cerimonie dove gli Efeler hanno danzato, si trasforma così ai miei occhi, come si conviene, nell’originaria piazza d’armi esterna della cittadella.

Qui era dunque la Denizli originaria, prima che l’allontanarsi del fronte – quando gli Ottomani succeduti ai Selgiuchidi ebbero sopraffatto in Anatolia l’impero romano d’Oriente (il Rum poi via via sempre più ritrattosi fino a ridursi alla Rumelia balcanica) – restituì la regione alla sua antica vocazione agricola e commerciale. Ancor oggi tornata ad essere prevalente: siamo infatti in una delle vallate laterali degli affluenti del Meandro, il fiume più ampio e famoso della costa egea. Qui scorre l’antico Lykos, che oggi i turchi chiamano Çürüksu.

Insomma, una fertile pianura sulle vie di comunicazione che dal Mediterraneo risalivano progressivamente verso est per poi perdersi all’interno dello sconfinato continente asiatico. Dirigendomi qui dai monti eccelsi della Licia, grandi cartelli non mi informavano del resto che stavo passando per Serinhisar, qualificata come la …‘Capitale dei Ceci’?

Il teatro dell’antica città di Eraclea Salbace – foto F. Polacco

Questo nuovo Museo della Città costruito nei locali di un ex istituto professionale industriale maschile (ogni sala era un tempo un’officina per gli allievi) ci porta a coprire anche parte del lunghissimo intervallo tra l’Homo Erectus e la cittadella medievale, costruita nel XIII secolo.

È lì in mezzo che possiamo collocare i centri antichi più celebri dei dintorni: la greco-romana Hierapolis (in turco, Pamukkale), patrimonio dell’umanità dell’Unesco, e l’ellenistica Laodicea (poi Ladik). I reperti ritrovati nei siti archeologici visitati ogni anno da centinaia di migliaia di turisti non sono raccolti qui. Ce n’è però un altro davvero interessante, poiché mi riporta finalmente al misterioso simbolo odierno della città: il gallo.

Una saletta del museo è dedicata alla specie locale di questo pennuto, ma anche al suo significato. Il pezzo-chiave è una stele marmorea, proveniente da un altro dei vicini centri antichi, Eraklea Salbace, famosa per una scuola di medicina: specializzazione non casuale in un territorio, come si vedrà a Pamukkale, che è ricco di salutari acque termali. Ebbene questa epigrafe che commemora, con tenere parole di rimpianto, uno studente di medicina deceduto a soli diciott’anni, riporta in basso l’immagine delicatamente incisa di due galli.

Quale il collegamento? Secondo la spiegazione proposta, il gallo sarebbe un simbolo legato genericamente alla giovinezza. Sicuramente, come ricordano molti studiosi, il gallo era anche sacro al dio greco guaritore, Asclepio, considerato perciò capostipite di tutti i medici. E chi ha studiato l’iconografia dell’arte classica non può che notare che il gallo era il tipico dono di corteggiamento che, nelle pitture vascolari, si offriva al giovane amato.

Sia come sia, il gallo, col suo canto che preannuncia il sorgere del sole al termine della notte è un evidente segno della rinascita; o della guarigione; o di quell’affacciarsi alla vita e all’amore che caratterizza l’adolescenza. I simboli, se sono davvero tali e perduranti nei millenni, hanno sempre molte valenze: per questo hanno un’impareggiabile capacità di travalicare epoche, fedi, culture e popoli.

Dopo aver scoperto Denizli, dopo aver sciolto alcuni suoi interrogativi, possiamo ora fare ciò per cui arrivano qui innumerevoli turisti da tutti i continenti (trascurando, però, la città moderna, e il suo tempo perduto): andare a visitare i due vicini gioielli archeologici.