Il teatro sperimentale di Çapaliku
Stefan Çapaliku, drammaturgo e linguista, è una personalità di spicco dell’arte contemporanea albanese. Con lui abbiamo parlato della difficile situazione del teatro in Albania, della rivalutazione artistica del dialetto gheg, e dei rapporti degli albanesi con se stessi e con gli altri
Stefan Çapaliku, drammaturgo e linguista di Scutari, è una personalità di spicco dell’arte contemporanea albanese. Conosciuto in particolar modo per le sue pièces teatrali, Çapaliku rappresenta una novità sulla scena albanese, inserendo nuovi strumenti di espressione teatrale sperimentale mancanti nel teatro contemporaneo albanese. Collaborando con i migliori nomi dell’arte scenica di Tirana come Ema Andrea e Tinka Kurti, egli tratta con un filo di ironia riflessiva temi dell’attualità albanese, quali l’identità e il confronto degli albanesi con l’estero, i rapporti in famiglia sotto l’ombra del Kanun, nell’era di internet. Non mancano tra le tematiche i rapporti tra i popoli balcanici attraverso interessanti metafore della cultura albanese scritte con la sensibilità e la capacità di giudizio di chi, come l’autore, vive tra più paesi balcanici. Çapaliku rivisita aspetti poco noti dell’ambiente culturale della città da cui proviene con un particolare sguardo alla cultura gheg urbana nell’epoca pre-comunista. Diversamente dalla precedente tradizione albanese, il suo teatro può assumere una valenza universale, che porta a riflettere oltre le tematiche strettamente albanesi. Con le opere di Çapaliku il teatro albanese è riuscito negli ultimi anni a oltrepassare i confini nazionali, grazie alle numerose rappresentazioni e alle traduzioni dei suoi drammi.
Come si presenta il teatro albanese negli ultimi anni?
Parlare del teatro albanese oggi è come pretendere di dipingere la tour Eiffel con uno spazzolino da denti. E’ un sistema marcio, identico a ciò che era durante il regime totalitario, e monopolizzato, statale ma non pubblico, chiuso come un ghetto, e non ha il supporto di alcuna volontà politica. Inoltre non esiste un mercato teatrale e il teatro rimane sconosciuto, tradizionalista e fanatico, inaccessibile alle nuove generazioni. Che dire è un teatro infelice e disperato.
Perché c’è così poco teatro in una società in cui gli spunti per fare arte e dire la propria non mancano affatto?
Penso sia dovuto al fatto che da sessant’anni il teatro è stato uno specchio cieco, non ha mai offerto alcuna possibilità di auto-identificazione per gli spettatori; perché si è sviluppato in un paese in cui manca una cultura teatrale. Di conseguenza, anche la domanda è sempre stata scarsissima. Negli ultimi anni la situazione è peggiorata ulteriormente. Un grave problema del teatro albanese odierno è che non c’è più gente che faccia questo mestiere, e che abbia avuto una formazione all’estero. Quindi mancano le nuove tendenze, è un teatro che non riesce ad aggiornarsi, rimane fanaticamente classico e non riesce in alcun modo a reggere la competizione.
Nel suo teatro si nota una forte tendenza a iniziare a scrivere in gheg. E’ possibile oggi fare una cosa del genere?
Io cerco di scrivere come la gente parla. Sono aperto a qualsiasi fenomeno linguistico. Per fortuna l’albanese è una lingua in piena evoluzione. E soprattutto c’è da sottolineare che la lingua si muove senza tenere conto delle grammatiche e degli accademici. A mio avviso, oggi il gheg è in continua espansione e questo fatto non deve essere trascurato. Di solito i miei personaggi sono presi dal mio contesto culturale, che è gheg scutarino, e naturalmente non possono che parlare e muoversi nella cultura gheg. Il principio a cui cerco di attenermi è di creare un teatro con cui gli spettatori riescano a identificarsi, nei comportamenti, nel parlare e nell’agire dei personaggi. Direi quindi che la scelta di fare teatro gheg è stata una cosa più che naturale.
Come affronta la mancanza di una standardizzazione dell’albanese gheg? In molti oggi tentano di scrivere in gheg ma sono molto lontani dalla lingua degli scrittori di inizio secolo e, soprattutto, è molto evidente la mancanza di coerenza di una lingua standardizzata.
Il gheg è una variante linguistica molto ricca e con un’ammirevole tradizione letteraria. Non penso che si sia mai atrofizzata del tutto. L’hanno elaborata grandi maestri come Pjetër Bogdani nel ‘600, Ndre Mjeda, Gjergj Fishta, Ernest Koliqi, a inizio secolo, Martin Camaj, Primo Shllaku, più recentemente. Penso quindi che i modelli letterari non manchino.
Una delle sue pièce più rappresentate in Albania e all’estero, è "I’m from Albania", che è una sorta di sintesi dei complessi psicologici degli albanesi. Che cos’è che tormenta gli albanesi oggi quando si confrontano con l’estero?
"I’m from Albania" è la storia di una giovane donna in carriera nell’amministrazione pubblica albanese, che parte per un importante appuntamento internazionale, mentre deve anche combattere con la natura a causa del ciclo mestruale. Così porta con sé non solo la sua fertilità ma anche la fame di essere presente e integrata nell’ambiente internazionale. Il modo come lei vede gli altri e come gli altri vedono lei, costituisce il conflitto drammatico dell’opera. Gli albanesi sono un popolo latente, ancora sottosviluppato, molto curioso, e dalla mente aperta. Il fatto che gli albanesi non abbiano ancora disegnato un proprio profilo, fa sì che gli altri li vedano da punti di vista estremisti e contraddittori, c’è chi dice che sono brutti, c’è chi dice che sono bellissimi, c’è chi dice che sono comici, e altri che li descrivono come maestosi. Sono tutte cose che a modo loro sono vere.
Sembra che il particolarismo, che sta tanto a cuore al nazionalismo albanese, "non siamo né slavi, né latini, né turchi…", oggi viene percepito come un handicap che isola… E’ così?
Questa è la sfida dell’albanese contemporaneo. Nessuno lascia veramente questo paese ma tutti vogliono allontanarsi. Come diceva anche il prof. Çabej: "la voglia di emigrare è la nostalgia del ritorno", e quindi la voglia di essere altro da sé, ma anche di non perdere se stessi, sono un binomio indissolubile presso gli albanesi.
Perché ha scelto di parlare dei Balcani, nella pièce "Balkanexpress", attraverso l’antico indovinello albanese sull’uomo che deve portare da una sponda all’altra di un fiume un lupo, una lepre e un cavolo con una barca che può trasportare solo uno di loro e l’uomo?
La questione dei Balcani, l’impossibilità di convivere pacificamente, è una cosa che mi ha sempre fatto riflettere. In particolar modo tutto questo riguarda la situazione della penisola dopo il crollo del comunismo. A mio avviso buona parte della responsabilità sta in un fenomeno molto diffuso: chi è il boia per alcuni, diventa eroe per altri, e viceversa. E’ inutile dire a questo punto che i Balcani, tutti i popoli balcanici, albanesi compresi, devono demistificare il proprio passato, senza però fare tabula rasa del passato. La nostra storia è estremamente complessa e confusa. Spesso somiglia a una ragazza dalle gambe lunghe che attraversa da una sponda all’altra la storia, lasciando dietro il vuoto e un mucchio di incognite.