Il significato di un voto che non conta

La Transnistria ha cercato di catturare l’attenzione della comunità internazionale con un referendum sulla questione dell’indipendenza dalla Repubblica di Moldova. La risposta migliore? Prestare un po’ di attenzione. Una nostra traduzione

21/09/2006, -

Il-significato-di-un-voto-che-non-conta

Transnistria - di Marco Pighin

A cura della redazione di TOL, 19 settembre 2006 (tit. orig. Meaning in a meaningless vote)
Traduzione a cura di Caterina Brandmayr

Dopo anni di calma apparente, vari ‘conflitti sospesi’ stanno nuovamente accelerando i propri ritmi. A sette anni dall’intervento della coalizione internazionale, sembra che quest’anno si deciderà lo status definitivo della provincia serba del Kosovo, ora amministrata dalle Nazioni Unite. Nel frattempo, 14 anni dopo l’inizio del conflitto, il 16 settembre, il regime in Transnistria, con un atto unilaterale, ha promosso un referendum riguardante la propria indipendenza dalla Moldavia. L’Ossezia del Sud farà lo stesso a novembre, votando l’indipendenza dalla Georgia.

E’ solo una coincidenza? Quasi sicuramente no. Per mesi Mosca ha insistito sul fatto che nella risoluzione dei cosiddetti ‘conflitti sospesi’ ci si dovrebbe appellare a "principi universali", e per mesi i leader filo-russi in Transnistria e Ossezia del Sud hanno sottolineato che l’eventuale indipendenza del Kosovo rafforzerebbe la loro posizione (l’altra regione separatista in Georgia, l’Abkhazia, si è tenuta in disparte, probabilmente perché un referendum di questo tipo vi si è tenuto nel 1999).

Ora che a uno di questi conflitti sembra si possa raggiungere una risoluzione, le regioni coinvolte negli altri tentano di seguire la stessa scia per avvicinarsi all’indipendenza, sostenendo la somiglianza dei casi.

Questo sforzo di trovare somiglianze assolute arriva ad estremi di comicità e parodia nelle pagine del ‘Tiraspol Times’, una nuova pubblicazione in lingua inglese dalle origini piuttosto oscure, che ha recentemente ripubblicato un articolo sui parallelismi tra Kosovo e Abkhazia aggiungendo, senza il permesso dell’autore, ulteriori argomentazioni sul fatto che la Transnistria avrebbe motivi più validi per ottenere l’indipendenza rispetto al Kosovo.

I negoziati per lo status del Kosovo offrono sicuramente un’opportunità unica, ma dopo 14 anni di inattività ci si domanda perché sarebbe proprio questo il momento migliore per dare un’ulteriore spinta unilaterale alla questione dell’indipendenza. La decisione potrebbe essere conseguenza di una situazione strategica dell’area indebolita: dal 2003, le confinanti Moldavia e Ucraina hanno adottato politiche estere pro-Unione Europea, mentre la Georgia comincia a registrare i primi successi economici che eventualmente potrebbero facilitare i negoziati di pace con l’Abkhazia.

Mosca e i regimi da essa appoggiati hanno visto questo momento come un’opportunità di tornare all’attacco: lo scarso entusiasmo di Bruxelles blocca le aspirazioni di Moldavia e Ucraina; quest’ultima ha ora un nuovo primo ministro filo-russo e anti-NATO (atteggiamento confermato pubblicamente, a livello diplomatico, il 14 settembre a Bruxelles); in Georgia la politica interna è sempre più travagliata; infine, la Russia, ricca e potente come non mai, sembra avere sotto controllo il conflitto in Cecenia.

Tuttavia, sarà neccessario un colpo da maestro per risvegliarsi da tanti anni di inattività e far sì che queste regioni sotto l’influenza di Mosca diventino veri e propri stati. Il referendum in Transnistria non era certo quell’atteso "colpo da maestro". Gli osservatori internazionali si sono rifiutati di vigilare l’andamento delle elezioni, e l’UE ha fatto presente di non essere intenzionata a far saltare i negoziati di pace riconoscendo la validità del referendum. Anche che il concetto di "principi universali" non ha molta presa. Gli accordi di pace devono risultare dall’incontro delle parti coinvolte e sono per definizione unici. La posizione di Mosca è dunque prevalentemente retorica. (E probabilmente Mosca non ha intenzione di essere presa seriamente, dal momento che i "principi universali" potrebbero essere un regalo per coloro i quali in Russia ragionano in modo indipendente e, nonostante il conflitto in Cecenia sembra essere sotto controllo, la precaria stabilità nel Caucaso del Nord dimostra che non tutti sono soddisfatti dell’atteggiamento russo.)

Al contrario, si potrebbero considerare i due referendum in Transnistria e Ossezia del Sud come un tentativo strategico di ristabilire l’originale status quo. Gli equilibri di potere si sono alterati quando, nel 2003, Moldavia e Georgia si sono rivolte all’Occidente; i negoziati per il Kosovo hanno dunque dato la possibilità di ridefinire questi equilibri.

Venti freddi, umori bollenti

Nonostante questi referendum possano avere un impatto limitato a livello pratico, mostrano come in realtà ci si stia allontanando, e non avvicinando, ad una soluzione. La Georgia ha aumentato il proprio budget militare e ha cercato, con la forza, di affermare un controllo effettivo su il suo territorio rimasto; nelle ultime settimane, scontri lungo il confine e i colpi d’arma da fuoco contro l’elicottero del ministro della Difesa georgiano sono il modo in cui l’Ossezia del Sud ha detto alla Georgia che si era spinta oltre i suoi confini. In Abkhazia, la leadership riformista che ha vinto alle elezioni del dicembre 2004 contro il candidato scelto da Mosca, sembra ora piegarsi al volere del Cremlino. In Transnistria, una serie di misteriosi attacchi dinamitardi hanno posto in particolare difficoltà le relazioni tra Tiraspol e Chisinau.

Ciò significa che ora la sfida principale non sarà tanto quella di trovare una soluzione, ma piuttosto di incoraggiare i negoziati. I politici georgiani hanno contribuito ai problemi con un flusso costante di iperboli e testosterone. Ma l’attenzione dovrebbe concentrarsi sui motivi che hanno impedito una soluzione per tutto questo tempo. Il denominatore comune in tutti i tre casi è la Russia e la sua incapacità di fungere da onesto mediatore. La Russia nominalmente è un peacekeeper e gli attuali sforzi internazionali sono nominalmente internazionali. In pratica, Mosca ha dato una marcata connotazione russa al "processo di pace", inviando truppe come "peacekeeprs" nel momento in cui i conflitti sembravano esaurirsi e dimostrando che il vero interesse era instaurare governi filorussi, influenzando l’opinione pubblica con sentimenti filorussi (come dimostrato, per sempio, dalla decisione di rilasciare passaporti russi in massa a cittadini dell’Abkhazia, Sud Ossezia e Transnistria). Per favorire la mediazione, i negoziati di pace devono essere internazionalizzati, per dimostrare alla Russia che le ex-nazioni sovietiche considerate da Mosca come "vicini" sono ora "vicini" anche per l’Europa e la loro situazione interna riguarda chiunque fosse interessato al Mar Nero e al Caucaso.

Il bisogno di internazionalizzazione non è una novità anche se, purtroppo, rischia di rivelarsi un processo più difficile adesso di quanto non lo fosse tempo fa. Si è discusso del fatto che dovrebbero essere i capi di stato al di fuori dalla regione ad essere coinvolti personalmente nella ricerca della pace piuttosto che delegare a giovani ministri e funzionari; e che si dovrebbe far notare alla Russia che i pochi vantaggi derivati dall’appoggio alle varie regioni separatiste (e, nel caso dell’Abkhazia, dal controllo sui governanti) non valgono la perdita di rispetto e peso in ambito internazionale. Ma ora pare ci siano pochi modi di influenzare la Russia. Le relazioni della Russia con gli Stati Uniti sono tese, con uno scarso senso di consapevolezza da parte della Russia su quanto potrebbe ottenere adesso da buone relazioni. La crescente dipendenza dell’Europa dall’energia russa frena l’Europa dal compromettere i rapporti con il Cremlino. Ad ogni modo, la Russia ha già accumulato una serie di successi diplomatici che, almeno simbolicamente, riaffermano il suo ruolo internazionale, come ad esempio l’attuale presidenza del G8 e del Consiglio d’Europa. Certamente ci sono stati dei fallimenti (come la mancata adesione all’Organizzazione per il Commercio Mondiale), ma non si possono certo collegare ai cosiddetti "conflitti sospesi".

Uno spiraglio di luce a sciogliere il ghiaccio

Forse, allora, non c’è molto da fare, e questi conflitti congelati semplicemente continueranno a congelarsi, con qualche occasionale variazione di temperatura. Nonostante ciò, i referendum evidenziano un cambiamento importante: per diversi motivi, i transnistreni e gli osseti del sud da una parte e i georgiani dall’altra, hanno deciso di portare allo scoperto le loro dispute. La risposta migliore è far sì che non scompaiano nuovamente nell’ombra. In alcuni casi, essere troppo in luce sarebbe negativo: mostrerebbe la Russia come un mediatore disonesto, e porterebbe più attenzione sulle scellerate attività del regime Transnistreno. Per gli abkhazi e gli osseti del sud gli effetti sarebbero sia positivi che negativi: mostrerebbero la loro dipendenza dalla Russia, ma allo stesso tempo darebbe luce alle legittime richieste e forzerebbe la Georgia ad un atteggiamento più cauto. Per la Moldavia, una prolungata attenzione internazionale favorirebbe l’idea – come tutti gli altri stati europei – di poter essere inquadrata come un legittimo candidato alla membership dell’UE, idea accolta con poco entusiasmo dal Presidente Vladimir Voronin, a Bruxelles lo scorso giugno. Sfortunatamente, tranne nel caso della Moldavia e della possibile candidatura, gli altri conflitti sono pressoché dimenticati, fuori da interessi internazionali, unicamente seguiti da organizzazioni internazionali e da think tanks.

Concludendo, i tre obiettivi – internazionalizzazione, reale mediazione, soluzione – sembrano in questo momento piuttosto remoti. Considerando i 7 anni per arrivare ad un accordo in Kosovo e i 14 anni di conflitti in ex regioni sovietiche che non hanno portato da nessuna parte, dovrebbe convincere chiunque fosse interessato che è necessario uno sforzo a livello internazionale per mediare l’impegno per la pace. In aggiunta, una simile realtà suggerisce che è meglio non lasciare la creazione e il mantenimento della pace in mano alla nazione che più trarrebbe vantaggio da situazioni di instabilità: questo è probabilmente il principio universale che possiamo fare nostro dopo l’esperienza in Kosovo.

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