Il secolo di Bogdanović (V)
Incontro con Bogdan Bogdanović. Quinta parte: gli anni ’80, lo scontro con Milošević e l’esilio a Vienna. La memoria e il culto dei morti, la "tortura" dei monumenti
Bogdan Bogdanović, architetto, urbanista, sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986, è una delle figure più eminenti della cultura jugoslava del ‘900. Nato a Belgrado nel 1922, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione nazionale progetta e dirige la costruzione di oltre 20 memoriali sulla seconda guerra mondiale. Negli anni ’80 rinuncia al proprio posto nell’Accademia delle Scienze della Serbia e scrive una lettera aperta a Milosevic (1987) di carattere antinazionalista e antimilitarista. La campagna di diffamazione conseguentemente avviata contro di lui lo costringe infine all’esilio a Vienna, città dove risiede ancor oggi.
Ha scritto tra l’altro "La città e la morte", "Architettura della memoria", "La città e il futuro", "La felicità nelle città", "L’architetto maledetto". Nessuna delle sue opere è stata tradotta in italiano.
Questa è la quinta e ultima parte dell’intervista realizzata a Vienna il 16 e 17 marzo scorsi.
Questa è la storia degli anni ’80, quando hanno cominciato ad attaccarla proprio per Jasenovac…
Sì, dopo che ho scritto la lettera a Milošević e sono entrato in conflitto con i nazionalisti. Ero ancora a Belgrado, mi chiamavano al telefono, mi minacciavano… Di colpo era partita la propaganda secondo cui Jasenovac era un monumento croato, mentre la prima propaganda croata era in realtà una anti-propaganda, secondo cui era un monumento serbo in territorio croato. Poi si sono immischiate le Accademie, i centri studi… Ma sempre all’interno delle manie paranoiche serbo-croate. I serbi e i croati, per quanto mi riguarda, sono sempre stati come degli amanti che non riescono a separarsi. Si picchiano, poi si innamorano, e così via… Ma lo scontro è poi evoluto in quello di due religioni, di due confessioni, una resa dei conti che ha reso la nevrosi serbo-croata ancora più cupa, pesante.
Cosa l’ha spinta a scrivere la lettera aperta contro Milošević?
Quando era ormai assolutamente chiaro che Milošević rappresentava la destra e che c’era un programma di guerra, ho deciso di prendere posizione. In quel periodo io non solo ero membro del Partito, ero stato anche sindaco della capitale. Volevo chiarire completamente le cose e avevo deciso di scrivere una lettera, una breve lettera, a Milošević: "Per favore non contate più su di me, non sono più con voi, interrompo il mio rapporto con…" – non volevo proprio scrivere "con il partito comunista", ma con la sua versione di comunismo.
Poi però non sono riuscito a scrivere una pagina sola, come avevo pensato. Una volta cominciato ho scritto per circa 15-20 giorni, e alla fine la lettera era di 60 pagine. Era anche umoristica, gliel’ho spedita e per la prima volta in vita mia ho richiesto una ricevuta di ritorno, che non potesse poi dire che non era arrivata. Quando ho visto che non l’avrebbe resa pubblica, l’ho data alla gioventù del partito, affinché girasse nei loro giornali. I ragazzi l’hanno pubblicata, e durante la notte la polizia ha passato al setaccio tutte le edicole per raccogliere, ritirare e probabilmente distruggere le copie dei giornali. Ma questi giovani non erano ingenui, e la lettera è stata resa pubblica. Credo abbia avuto un grande successo perché era vignettistica, senza cose patetiche. Milošević dalla lettera ne usciva malissimo, sebbene non venisse mai nominato. Ma si capiva che descrivevo proprio lui…
Quale fu l’effetto della lettera?
Ha avuto subito una grande risonanza, ed è cominciata una battaglia molto seria. Io non avevo compreso del tutto i primi scontri politici, rispetto a Stambolić ad esempio ero un uomo di un altro mondo, un intellettuale, un artista. Ma di colpo sono diventato il bersaglio di una campagna terribile, e qui la situazione era veramente molto seria. Alla televisione mostravano incredibilmente spesso grandi fotografie di me. Mi hanno dato in pasto alla gente perché mi maltrattasse per strada, perché mi fermassero per dirmi come ero un traditore della Serbia, anzi della serbità. Proprio io, che tra l’altro appartengo ad una delle famiglie serbe più antiche… Va beh, così è cominciato il nostro isolamento, mio, di Ksenija e dei miei familiari.
Sono stati anni veramente duri, vivevamo nella paura costante. A quei tempi giravano già per strada dei personaggi in strane uniformi, cioè le unità irregolari. In diverse occasioni mi avevano fermato minacciandomi. Ricordo ad esempio quando due tipi enormi mi hanno preso per strada, davanti a casa, cominciando a urlare, e io che cerco di calmarli mentre dal caffè di fronte quelli che li hanno mandati stanno a guardare… Oppure così: suona qualcuno alla porta, io apro. Un giovane che dice: "Cerco Bogdan Bogdanović", tutto gentile e sorridendo. Io rispondo "Sono io". E lui: "Ptuu… Tu sei un traditore!", e mentre lo dice cerca di entrare con la forza in casa… Mia sorella, Ksenija ed io cerchiamo di chiudere la porta… Di eventi del genere ne accadevano spesso e ormai era chiaro che prima o poi avremmo dovuto scappare. Nella facoltà di Architettura c’era un modello del Fiore, grande forse come questa stanza. Gli studenti vicini ai nazionalisti hanno cominciato a prenderlo a calci fino a quando non l’hanno completamente distrutto.
Quando avete deciso di lasciare Belgrado dove siete andati?
Prima siamo scappati a Parigi, perché sia io che Ksenija conoscevamo meglio il francese del tedesco. Anche lì però non è stato facile. A Parigi c’è una forte componente dell’emigrazione di destra, pro-cetnica. Ricordo che una sera eravamo ad un incontro pubblico assieme al Circolo di Belgrado, di cui facevamo parte. Pensavamo di parlare della situazione in Serbia, di parlare con nostri concittadini. La sala era stracolma e c’erano molti individui dalla faccia nemica, con le barbe lunghe. Abbiamo subito capito di cosa si trattava, cetnici. Quella fu una clamorosa manifestazione contro il Circolo di Belgrado, contro di noi.
Poi ci rubarono i passaporti, quello fu terribile. All’Ambasciata ci siamo resi conto che li avevano rubati loro. Siamo dovuti rientrare a Belgrado con dei documenti che ci aveva dato la polizia francese. Lì ci hanno maltrattato per circa sei mesi per avere dei nuovi passaporti. Ce li vogliono dare, non ce li vogliono dare… Eravamo obbligati ad andare all’ufficio passaporti almeno una volta alla settimana, ad aspettare… Queste persone mi conoscevano, io ero stato due o tre anni prima sindaco della città. Tutta Belgrado mi conosceva. Si comportavano da arroganti, si erano già fatti crescere le barbe… Entriamo ad esempio da questo funzionario, io sto lì in piedi, con una sedia lì vicino, e lui non mi dice nemmeno: "Prego si segga". Non so quante volte ci siamo andati. Un giorno, di nuovo andati lì per i passaporti, lo stesso funzionario mi dice all’improvviso: "Prego, si segga", e ci consegna i passaporti. Abbiamo capito che era tempo di fuggire. Il mio amico Milo Dor, lo scrittore, ci ha detto: "Non cominciate a girovagare per l’Europa, venite a Vienna". E così siamo partiti per Vienna.
Piano piano abbiamo portato qui anche tutti gli appunti che avevo raccolto da quando era cominciata la crisi, e che conservavo in una scatola verde. Avevamo nascosto tutti i foglietti nei posti più strani della casa, e poi Ksenja ha cominciato a trasportare il contenuto della scatola verde fino a Vienna. Oggi cerco di ordinare questo materiale, c’è di tutto, ricordi di infanzia, frammenti della mia memoria, architettura, ogni tanto estrapolo qualcosa. Il mio amico di Belgrado ad esempio, Rade Kostantinović, che là ha coraggiosamente resistito ai giorni più difficili, ha dato fuoco all’intero suo archivio. Non poteva rischiare di tenerselo in casa, e tutti questi foglietti avrebbero potuto subire lo stesso destino, se fossimo rimasti là. Noi abbiamo portato tutto a Vienna ed ora, vedete, in mezzo a queste scatole ci sono i resti di quella scatola verde.
Come è stato il vostro arrivo a Vienna?
Quando siamo arrivati ci venne detto che era meglio non mettere il nome e cognome sul citofono, perché a Vienna c’erano molti serbi nazionalisti. Ricordo una sera nella Karlsplatz, no nella Stephansplatz, io e Ksenija osservavamo un gruppo di persone che urlavano… Abbiamo capito che si trattava dei nostri "fratelli serbi". Alcuni portavano delle specie di tonache nere, lunghe barbe, certi cappelli cetnici. Gridavano e urlavano, tenendo striscioni nazionalisti, pro-Milošević. E la gente non capiva nulla, pensava fosse uno spettacolo teatrale… Quando è finito hanno applaudito, non potevano comprendere nella maniera più assoluta la politica balcanica… Ma a Vienna ci siamo fatti subito degli amici. Ci sono parecchi jugoslavi intelligenti, noi serbi non eravamo proprio tutti così, barbuti… Nel giro di uno, due anni abbiamo sentito di essere parte di Vienna e in seguito i viennesi ci hanno offerto la doppia cittadinanza, che abbiamo tuttora.
Nel suo lavoro di progettazione di Memoriali si è mai confrontato con l’opera di altri artisti in Jugoslavia o in Europa?
No. Quando ho cominciato a lavorare sul progetto di Jasenovac mi venne offerto di viaggiare per tutta Europa, per vedere e conoscere l’architettura monumentale. Ho rifiutato, non volevo sapere nulla di quello che gli altri avevano fatto, perché volente o nolente vieni influenzato… Io, con atteggiamento egocentrico, volevo realizzare ciò che desideravo e penso di non aver sbagliato in questo. Credo si sarebbero mischiati gli stili, e avevo questa ostinata fissazione di non voler evocare orrori… Peraltro io non sono uno scultore, sono un architetto e penso in base a modelli matematici, a forme matematiche. Questo mi ha aiutato ad evitare ogni evocazione esplicita. Dopo una guerra così terribile, c’erano ovunque evocazioni di questo tipo di orrori. Io mi attenevo a questa formula: fare dei monumenti per la prossima generazione senza spaventarli, forse così saranno più felici. Dopo è accaduto purtroppo che non sono stati molto più felici, e il futuro alla fine è somigliato al passato…
Cioè alcune cose è meglio dimenticarle?
No, non si deve dimenticare ma nemmeno impaurire… La Jugoslavia si è riempita di monumenti, credo si parli di una decina di migliaia, è troppo. Ogni repubblica aveva 7 musei della rivoluzione, ed erano pressapoco tutti uguali. C’era una "tortura dei monumenti", lo dicevo continuamente, e credo di aver avuto ragione, pensavo che prima o poi avrebbero provocato nuove "deviazioni" nella gente. Perché se i bambini venivano obbligati a guardare tutti questi orrori, in seguito si poteva anche arrivare ad una perversione di quell’orrore. Vi ho parlato di quelle ragazzine a Jasenovac che venivano obbligate a disegnare persone senza testa… Perché le ragazzine capissero cosa è stato Jasenovac l’insegnante, tutta felice, chiedeva loro di disegnare delle persone senza testa. Le bambine erano pallide e terrorizzate. Io ho cominciato ad urlare addosso all’insegnante…
Del nuovo Museo di Jasenovac cosa pensa?
Ho sentito dire che è stato fatto molto bene. Penso che i responsabili abbiano infine capito che neppure in Israele si segue questa linea evocativa degli orrori. Si devono dare le informazioni ma… nella nostra versione epica jugoslava tutto finisce nell’assurdo "guslarski nacin". I guslar sono suonatori di gusle, cantori di musiche folkloristiche, ndr. Sapete, quando si cominciano a suonare le gusle tutto finisce nell’assurdo, in una specie di arcaicità. L’intero culto dei morti, il culto dei morti che c’era in Jugoslavia, era molto arcaico.
Una sorta di necrofilia?
Una necessità di trascendere gli orrori avvenuti… attraverso la garanzia di nuovi orrori. Credo in definitiva che tutto questo riempire la testa dei bambini di immagini di ammazzamenti abbia contribuito a quello che è successo nell’ultima guerra sul territorio della ex-Jugoslavia. Considerata la mia età forse non vi sembreranno strane le cose che dico, ma io sono molto stanco di tutte queste nostre storie, di questi deliri jugoslavi per i monumenti, per il ricordo dei morti. Credo che sarebbe migliore e molto più felice una civiltà senza monumenti, che non ha bisogno di costruirne. Questo indica il Fiore, ndr è il ricordo di un fatto orribile… Ma non doveva risvegliare altri scontri, altro sangue. (5 – fine)