Il reportage: Pianeta Zastava – I
All’inizio era una fabbrica d’armi, ed in parte lo è tutt’ora. Poi, negli anni ’50 sono arrivate le automobili ed una lunga collaborazione con la FIAT. La Zastava è cresciuta sempre più e con essa Kragujevac. La prima puntata di un reportage di Osservatorio sui Balcani
La culla dell’industria serba
Il municipio di Kragujevac, Serbia centrale, è una geometria imponente che si staglia sul cielo terso. Sopra l’ingresso due enormi ali di cemento, quasi a portare in alto quest’alveare di finestre.
Poi i fiori ed un prato circolare, attraversato da una retta pedonale, una piazza dove nel tardo pomeriggio scorrazzano i bambini su piccole jeep elettriche accompagnati nel loro procedere da premurosi genitori ed i palazzi il cui cemento trasuda d’Europa dell’est.
La città da lì si dipana, le case s’abbassano e l’architettura si stempera nei colori delle insegne dei negozi e tra i tavolini dei bar. E’ quasi bella Kragujevac in questa fine estate. Bella anche se la storia dei suoi ultimi 15 anni parla di una crisi radicale e drammatica.
Kragujevac è la sede di quella che era la Crvena Zastava, Bandiera Rossa, mitica casa automobilistica della Jugoslavia di Tito. E non solo. Vi si producevano ed in parte vi si producono tutt’ora anche camion, attrezzi e soprattutto armi. Sparita la Jugoslavia, alla Bandiera è stato tolto il colore ed è rimasta solo la Zastava.
Se il Kosovo è considerato la culla della nazione serba, Kragujevac lo è per l’industria. "Questa è la prima bomba a mano serba" racconta seria e compita Mirjana, tacchi alti a rendere vertiginoso il suo metro e ottanta. Procede con andatura da modella tra cannoni, moschetti, mitragliatori e pistole automatiche esposti nel museo Zastava. "L’azienda è stata fondata nel 1851, all’inizio, e in parte tutt’ora, produceva armi". Poi scherza "siamo sempre in guerra" e torna forzatamente seria, quasi si sentisse portavoce del proprio popolo "ma solo per difenderci".
Dopo i cannoni sono arrivate le componenti meccaniche per camion militari e gli assemblaggi per l’americana Chevrolet. Infine è arrivata la FIAT.
A partire dal 1953 inizia infatti la produzione e commercializzazione di veicoli ad uso privato su licenza dell’azienda automobilistica italiana. Si inizia con la FIAT Campagnola, poi nel ’55 arriva la Zastava 600 B, detta Fića, nel 1971 la Zastava 101 – i maligni dicono si chiamasse così perché era composta da 100 pezzi italiani, ed uno jugoslavo, l’autista – (oggi Skala) e poi l’utilitaria Yugo 45, che montava il motore della FIAT 127. Infine, più recentemente, a fine anni ’80 la Florida, la cui linea è stata impostata dal designer italiano Giorgio Giugiaro.
In pochi decenni la Zastava si è allargata a dismisura e con essa la città ha quadruplicato i suoi abitanti. Ad ospitare i suoi 180.000 abitanti non solo condomini ma soprattutto una distesa di case con giardino, Zastava parcheggiata di fronte, dove gli operai immigrati soprattutto dal sud, in particolare Macedonia e Kosovo, riproducevano il loro ambiente d’origine e realizzavano il loro "sogno jugoslavo".
"In quegli anni la città è cambiata" racconta Bane Soldatovic, direttore della Zastava Kamioni, partecipata al 30% dall’italiana IVECO "mi accorgevo che arrivava un nuovo gruppo di operai da quanto erano sporchi i gabinetti. Ora è diverso ma in quegli anni le campagne erano molto arretrate". Bane alza le braccia, mima di lavarsi in modo sbrigativo le ascelle. "Per loro questo era lavarsi". Nel suo racconto il contrasto jugoslavo tra città e campagna, per molti una chiave di lettura fondamentale per capire le guerre degli anni ’90.
Poi si gira verso l’amico Cole, alias Branislav Kovacevic, presidente della Koalicija Sumadjie, partito regionalista che fece parte della coalizione DOS, quella in grado, nel 2002, di sconfiggere Slobodan Milosevic. "Anche lui è un Seliak (agricoltore)" e sorride, come se l’avesse detta grossa "da poco si è trasferito dal centro città in campagna". E ci fa capire che per lui la cosa è inconcepibile.
Per cinquant’anni Kragujevac era la Zastava. Due carte sovrapposte. In un libro che ci viene regalato la storia della città ed una foto dall’alto. Da una parte le case, dall’altra, vicino alle colline, i più di 130 ettari sui quali sorge la Zastava. La prima di un’estensione simile alla seconda.
Ma negli ultimi 15 anni è come se quella foto fosse stata piegata in due ed i grandi capannoni avessero finito per schiacciare e soffocare la città. Nel 1991 la Jugoslavia è andata in pezzi. Con essa letteralmente è andata in pezzi anche la Zastava. Si è frammentato il mercato e soprattutto si è interrotta la produzione. A Spalato, Croazia, la Jugoplastika produceva gli interni e poi vi erano altri stabilimenti in Kosovo, Slovenia e Bosnia. Quelle che erano relazioni del tutto interne alla fabbrica sono divenute relazioni internazionali, per di più tra Paesi in guerra. Poi le sanzioni internazionali alla Serbia e nel 1999 sulla Zastava sono cadute le bombe della NATO.
"Abbiamo dovuto reinventarci la produzione di 2000 degli 8000 pezzi che componevano le nostre automobili" sottolinea Vladeta Kostic, direttore marketing della Zastava Automobili, mostrando un grafico senza equivoci. Un parallelepipedo lungo e stretto relativo all’89 – ’90, al suo fianco il vuoto. Delle 223.000 vetture prodotte nel 1989, due anni dopo, ne restavano meno di 10.000. I 37.500 lavoratori dell’intero sistema Zastava ridotti, in una ristrutturazione del 2001 a 13.500. E molti di questi ultimi lo sono solo sulla carta.