Il purgatorio della transizione: il caso della Romania

Dopo il periodo dei regimi comunisti e quello tragico, in alcuni Paesi, della guerra, i Paesi dell’Europa orientale e sud-orientale hanno dovuto trascorrere un periodo più o meno breve di assestamento economico. La Romania partiva dalla posizione più svantaggiata e ora il suo obiettivo è l’Unione Europea.

11/03/2005, Redazione -

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Pesante eredità

Di Cristian Roner*
Questo è il primo di tre articoli che, senza ambizione di completezza, intendono trattare alcuni aspetti dell’economia rumena anche nell’ottica della futura adesione all’Unione Europea. Dopo il primo grande allargamento del 2004, l’Europa potrà arricchirsi di altri Paesi una volta appartenenti al blocco comunista, che hanno dovuto sperimentare il fenomeno nuovo della transizione ad una forma di mercato completamente diversa da quella dominante per quasi cinquant’anni della loro storia.

Come la maggior parte delle economie dell’Est Europa dopo l’89, anche quella rumena ha trascorso i primi anni Novanta cercando di rimanere a galla e alleviando quanto possibile i traumi della transizione.

Questo precario equilibrio viene improvvisamente meno nel 1997, quando si manifesta una profonda recessione con un declino del Pil che si attesta sul -6,1 per cento rispetto al livello raggiunto nell’anno precedente. Nel 2000 il periodo recessivo si chiude con un recupero del prodotto del 2 per cento rispetto al 1999. Da notare che nella seconda metà degli anni Novanta la Romania è l’unico Paese dell’area ad avere subìto una recessione per tre anni consecutivi, subendo una decrescita del 4 per cento circa ogni anno.

Il Governo iniziò a spendere più di quanto si potesse realmente permettere, per questo il denaro diventava carta sempre più straccia, con l’inflazione al 154,9 per cento nel 1997 (comunque sempre inferiore al 256 per cento raggiunto nel 1993, tra i più alti nelle economie in transizione). Quello della più rapida crescita dei prezzi rispetto ai salari sarà un problema costante durante la transizione e più recentemente.

Le fette della torta, rappresentata dalla ricchezza nazionale, che si potevano dividere fra la popolazione che aveva contribuito a crearla, non solo stavano diventando sempre più piccole rispetto ad altri Paesi dell’Est Europa, ma, a causa della rapida crescita dei prezzi, valevano sempre meno: tutti i redditi si stavano livellando verso il basso. Considerando solo la quota percepita dai lavoratori (comunque la parte maggioritaria della popolazione) nell’anno centrale della recessione e tenendo conto dell’inflazione, i salari corrisposti valevano il 56,8 per cento in meno rispetto al 1996, secondo l’Ocse dal 1990 al 1999 hanno subìto un declino medio del 40 per cento.

Sul piano sociale, le conseguenze apparentemente non furono devastanti, almeno se si osserva l’andamento del Pil pro capite: la Romania di Ceausescu era un Paese povero e lo è rimasto anche dopo la caduta del dittatore, dal 1989 al 1998 infatti, secondo stime della Banca Mondiale, il Pil pro capite si è mantenuto intorno ai 4 mila dollari Usa annuali, molto più basso rispetto a quello di alcuni paesi che nel 2004 sono entrati a far parte dell’Unione Europea, basso anche rispetto a quello di paesi più simili come la Bulgaria e poco più alto solamente rispetto a quello della Moldavia.

La distribuzione di questo reddito è però assai peggiorata e in combinazione con la caduta dei salari ciò ha portato alla crescita della povertà. Nel 1998 il 44,5 per cento della popolazione sopravviveva con meno di 4 dollari Usa al giorno, il 6,8 per cento con meno di 2 dollari Usa giornalieri. La Romania era l’unico tra Paesi ad essa simili con poco più di 10 milioni di poveri su una popolazione di circa 21 milioni di abitanti (dati Banca Mondiale). Sebbene sia stato l’unico Paese a mostrare una tendenza alla diminuzione della povertà (dal 35 per cento del 2000 al 28,9 per cento del 2002), i livelli di questo fenomeno sono ancora i più alti rispetto a quelli della metà degli anni Novanta.

Dato che la maggior parte della popolazione vive con redditi da lavoro, il problema della povertà va trattato insieme a quello della disoccupazione e delle misure di protezione sociale. L’improvviso abbandono del sistema pianificato con salari, occupazione ed assistenza garantiti ha rappresentato un trauma e la mancanza di propulsione del sistema economico ha sottratto risorse preziose alla costituzione di un nuovo stato sociale sul modello occidentale.

Uno dei tratti comuni a molti Paesi in transizione è stato il riorientamento strutturale dell’economia attraverso il ridimensionamento del settore industriale, che durante la pianificazione soffriva di gigantismo. Il ragionamento alla base era che la razionalizzazione del settore avrebbe migliorato l’efficienza complessiva del sistema, eliminando una quota di lavoratori sottoccupati. Era inoltre necessario aumentare e migliorare il settore terziario, avvicinandolo agli standard delle economie avanzate.

Il settore manifatturiero ha così espulso lavoratori: reso uguale a cento il numero di occupati nel settore industriale nel 1989, in tredici anni la diminuzione è stata del 44,3 per cento e, secondo alcuni studi, ciò ha fatto sì che nel periodo 1995-1999 la crescita rumena sia stata causata soprattutto dall’aumento dell’efficienza totale nell’impiego dei fattori della produzione.

Fu necessario però evitare che il guadagno di efficienza incidesse troppo sull’aumento del tasso di disoccupazione, perciò il Governo fece approvare un legge che permetteva il pensionamento per i lavoratori meno anziani. Nonostante ciò, nel 1999 i disoccupati ammontavano all’11,5 per cento della forza lavoro. Emergono chiari anche problemi di sostenibilità futura delle passate politiche di pensionamento anticipato, in quanto nello stesso anno il rapporto tra i lavoratori che versavano i contributi sociali e i pensionati era sceso a 1,2 mentre nel 1989 c’erano 4 lavoratori per ogni pensionato. Questo andamento si spiega col fatto che le leggi del regime di Ceausescu prevedevano che solo i lavoratori del settore pubblico e quelli dell’industria dovessero versare i contributi sociali, ma, come detto, queste categorie sono state quelle che hanno subìto il maggiore ridimensionamento.

Per altro verso è necessario rilevare che le misure di protezione sociale a favore di coloro che sono ancora presenti sul mercato del lavoro, segnatamente quelle che prevedono il sostegno dei redditi dei disoccupati o dei lavoratori con carichi famigliari, sono molto scarse.

Attingendo ai dati del Ministero del Lavoro e della Protezione Sociale rumeno, fatto cento il valore monetario dei benefici monetari da pensioni nel 1990, per i sei anni successivi la diminuzione è stata del 39 per cento. Nello stesso contesto e nel medesimo periodo, le protezioni per le famiglie con un solo figlio hanno subìto un tracollo del 77 per cento, non peggiore di quello per le famiglie con tre figli per le quali la diminuzione è stata dell’ 86 per cento.

Rapidamente si è diffusa la marginalizzazione delle categorie più deboli come i bambini e i ragazzi. Stime dell’Undp hanno calcolato che i sostegni previsti per le famiglie con un solo figlio arrivano a coprire solamente il 10 per cento della spesa per il sostentamento di un ragazzo di 15 anni, mentre la disoccupazione di lunga durata colpisce sempre più le giovani categorie.

Il conflitto distributivo tra chi, pensionato, riceve un reddito e chi, disoccupato, non riceve né un reddito, né un sostegno statale adeguati è stato paradossalmente evitato a causa della povertà generale di tutte le categorie. Secondo una recente indagine, i disoccupati rappresentano poco meno del 15 per cento dei poveri totali mentre i pensionati arrivano ad oltre il 30 per cento. Le pensioni spesso non vengono corrisposte per periodi che vanno dai 6 ai 9 mesi.

Lo stato di povertà è chiaramente correlato non solo alle disfunzioni dello stato sociale in larga revisione, ma anche a quelle del mercato del lavoro, anche se i tassi di partecipazione al mercato del lavoro e la produttività (quanto produce il singolo lavoratore) sono più alti rispetto ai Paesi più industrializzati. Secondo l’Ocse nel 1998 l’incidenza della disoccupazione di lunga durata (12 mesi o più) su quella totale ammontava al 42 per cento, raggiungendo il 53 per cento nella regione sud-occidentale del Paese.

A questo panorama è corrisposta la ricerca di altre fonti di reddito: l’esplosione della economia sommersa è stata repentina, arrivando a rappresentare circa il 18 per cento della ricchezza nazionale.

* Cristian Roner collabora con Osservatorio sui Balcani

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