Il Novecento, un secolo che nasce e muore a Sarajevo
Il centenario della Prima guerra mondiale, un’occasione per guardare al Novecento. Un breve saggio contenuto nel catalogo della mostra "L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve"
Nei giorni scorsi è uscito il Catalogo della mostra “L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve”, inaugurata a Trieste il 29 novembre e che sarà a Trento alla fine di marzo. Oltre trecento opere curate da Piero Del Giudice che raccontano la prima guerra mondiale, osservata dalla parte di chi quella carneficina – costata la vita ad oltre sedici milioni di persone – l’ha subita. Una mostra di grande valore proprio per il taglio antimilitarista che nelle celebrazioni del centenario proprio mancava. Il catalogo della mostra, oltre mille pagine, ospita tra l’altro un saggio di Michele Nardelli, che qui riportiamo integralmente.
Avrei voluto che le celebrazioni del centenario della Grande Guerra divenissero l’occasione per riflettere non solo sugli avvenimenti che portarono a quella tragedia ma più in generale su ciò che ha rappresentato il Novecento nel rapporto con la guerra, quel secolo che ha prodotto un numero di morti in guerra tre volte superiore a quello complessivo delle vittime di tutti i conflitti combattuti nei diciannove secoli che ci separano dall’inizio dell’era cristiana.
Se questo non avverrà, sarà un’occasione perduta e ancora una volta la retorica tenderà a prevalere sulla riflessione. Eppure, basterebbe scorrere le cifre della prima guerra mondiale per comprendere come il Novecento si presentasse con un salto di qualità nell’esercizio della guerra: 9.722.000 soldati mandati al massacro, 21 milioni i feriti. Fra le popolazioni civili quasi 1 milione di persone morirono direttamente a causa delle operazioni militari e circa sei milioni furono le vittime per quelli che oggi verrebbero definiti “effetti collaterali”, ovvero carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie, nonché per le persecuzioni razziali scatenatesi durante la guerra.
Numeri impressionanti che la retorica ha sempre cercato di esorcizzare in nome dei patriottismi e di sacri confini che un secolo dopo sono praticamente scomparsi.
Era giunto “il tempo degli assassini”. Marco Revelli, in “Oltre il Novecento” vuole interpretare così quanto scrisse Arthur Rimbaud in una delle sue folgoranti “Illuminazioni” dal titolo “Mattinata d’ebbrezza” come «l’oscura anticipazione dei deliri e degli eccessi del tempo nuovo che si andava profilando all’orizzonte, con quel suo riferimento equivoco all’intreccio fra “promessa e demenza”»1, immaginando quel che avrebbe potuto accadere nell’applicazione della rivoluzione industriale alla tecnica della guerra. La prova generale avvenne con la pulizia etnica e lo sterminio delle popolazioni native del continente nordamericano, ma fu solo con la prima guerra mondiale che si aprì un capitolo del tutto nuovo nell’uso delle armi automatiche, dei bombardamenti e nell’utilizzo delle armi chimiche.
Non fu che l’inizio e la storia del Novecento è lì a testimoniarlo. Perché allora non riflettiamo sul dato incontestabile del Novecento come «il secolo più cruento della storia»? Se non riflettiamo su tutto questo, se non impariamo dalla storia, il passato non passa. Come afferma James Hillman «la guerra non è mai finita»2. Che cosa abbiamo compreso delle tragedie del Novecento, del significato delle parole che campeggiavano all’ingresso di Auschwitz, dei sistemi concentrazionari che con la Shoah o l’Arcipelago Gulag hanno segnato il secolo scorso? Accidenti della storia? E cosa ne pensiamo del loro riapparire sul finire del secolo con “la guerra dei dieci anni” nel cuore dell’Europa? Vicenda che abbiamo velocemente rimosso fino a scomparire dall’immaginario collettivo…
Per questo il centenario della prima guerra mondiale è un’occasione da non sprecare per interrogarsi, riflettere, imparare. Forse dovremmo semplicemente porci le domande giuste.
Sarebbero molte ma solo su una di queste voglio concentrare in queste note la mia e la vostra attenzione. Perché il Novecento nasce e muore a Sarajevo?
Porre l’attenzione su questa domanda credo sia fondamentale per comprendere almeno in parte quel che è accaduto negli anni ’90 ma anche nel decennio successivo intorno a quell’ossimoro che si cela sotto il concetto di “scontro di civiltà”.
Sarajevo è, se sappiamo vedere, il cuore dell’Europa e più precisamente il punto d’incontro fra oriente e occidente nel cuore dell’Europa. Per meglio comprendere il ruolo che nella storia ha assunto la “Gerusalemme dei Balcani” può essere utile fare un passo indietro, proprio qualche anno prima di quel fatidico 28 giugno 1914 quando nelle strade di Sarajevo un gruppo di giovani irredentisti decise di attentare alla vita dell’erede al trono del secondo impero d’Europa.
Il 31 dicembre 1910 venne infatti portato a compimento quello che poi si rivelerà come l’ultimo censimento dell’impero asburgico. Nelle città e nei villaggi di quel regno che si estendeva dal Trentino alla Transilvania, per mesi i funzionari di Vienna raccolsero i dati relativi alla “Umgangssprache”, la lingua parlata in casa e di uso comune in strada: così dal censimento di Trento, Bolzano, Trieste, Vienna, Lubiana, Zagabria, Praga, Pressburg (l’attuale Bratislava), Budapest, Kronstadt (l’attuale Brasov) e Sarajevo – città di un impero dove undici erano le lingue ufficiali (ventidue quelle parlate) e cinque le religioni riconosciute (cattolica, protestante luterana, ortodossa, ebraica e musulmana3) – emersero cose molto interessanti di quello spazio geopolitico che si configurava come una “piccola Europa”.
Una di queste particolarità emerse proprio a Sarajevo. Nel censimento del 1910 la terza lingua parlata nella capitale bosniaca, dopo il serbocroato e il tedesco, utilizzata dal 13,4% della popolazione sarajevese, era lo spagnolo. Si trattava del vernacolo castigliano che chiamavano ladino, parlato dagli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna con l’editto di espulsione del 1492.
Nelle nostre scuole s’insegna che il 3 agosto 1492 le tre caravelle di Cristoforo Colombo salparono dal porto di Palos alla volta delle Indie, ma si tace sul fatto che il giorno precedente scadevano i termini dell’editto con il quale i reali cattolici di Spagna intimavano agli ebrei di lasciare i domini di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona (che allora comprendevano anche la Sardegna e la Sicilia4).
Interessante leggere il testo dell’Editto per comprendere lo spirito del tempo e per confrontarlo con quello che, come vedremo, verrà emesso in un’altra parte d’Europa e negli stessi anni. Recita così:
«Sapete bene, o dovreste saperlo, che, poiché fummo informati che in questi nostri domini c’erano alcuni cattivi cristiani che si dedicavano al giudaismo e si allontanavano dalla nostra santa fede cattolica, a causa soprattutto delle relazioni fra ebrei e cristiani, nelle cortes riunitesi a Toledo nel 1480 ordinammo che in tutte le città e i villaggi dei nostri regni e signorie gli ebrei dovevano vivere separatamente dagli altri, nella speranza che la loro segregazione avrebbe risolto il problema. Avevamo anche provveduto e ordinato che nei nostri suddetti regni e signorie fosse istituita un’Inquisizione: come sapete, il tribunale nacque più di dodici anni fa e opera ancora. L’Inquisizione ha scoperto molti colpevoli, come è noto, e dagli stessi inquisitori, oltre che da numerosi fedeli, religiosi e secolari, siamo informati che sussiste un grave pericolo per i cristiani a causa dell’attività, della conversazione e della comunicazione che [i cristiani] mantengono con gli ebrei. [Gli ebrei infatti] dimostrano di essere sempre all’opera per sovvertire e sottrarre i cristiani alla nostra santa fede cattolica, per attirarli con ogni mezzo e pervertirli al loro credo, istruendoli nelle cerimonie e nell’osservanza della loro legge […].
Per questo motivo, e per mettere fine a una così grande vergogna e ingiuria alla fede e alla religione cristiana, poiché ogni giorno diventa sempre più evidente che i suddetti ebrei perseverano nel loro pessimo e malvagio progetto dovunque vivano e conversino [con i cristiani], [noi dobbiamo] cacciare i suddetti ebrei dai nostri regni così che non ci sia più occasione di offesa alla nostra fede.
Pertanto ordiniamo che quanto da noi stabilito sia fatto conoscere, e cioè che tutti gli ebrei e le ebree che vivono e risiedono nei nostri suddetti regni e signorie, a prescindere dallo loro età […], entro la fine di luglio lascino i nostri regni e signorie insieme con i loro figli […], e non osino mai più farvi ritorno.
Alhambra, 31 marzo 1492».5
Qui è d’obbligo una piccola digressione. Con la presa di Granada, l’ultima città-stato governata dai musulmani (2 gennaio 1492) a cadere sotto il dominio dei re cattolici, con la successiva cancellazione degli Accordi di capitolazione che garantivano ai musulmani la libertà di professare la loro fede, e da ultimo con l’editto di espulsione degli ebrei (31 marzo 1492) si mette fine ad una storia europea straordinariamente importante quale fu il Califfato di al-Andalus (755 d.C. – 1031 d.C.), cui fecero seguito i regni di Taifa o delle “città-stato” che si concluse appunto nel 1492.
Oltre sette secoli di dominazione islamica nella Spagna meridionale, di un islam come quello degli Omayyadi che amava dialogare con le altre tradizioni dando continuità in Europa a quel “Movimento delle traduzioni”6 che nacque a Damasco fra il VII e l’VIII secolo e che ebbe uno straordinario impulso con il Califfato degli Abbasidi a Baghdad.
E’ grazie a questo grande movimento che percorre il Vicino Oriente e il Mediterraneo che sono arrivati a noi gli antichi testi della filosofia greca, della matematica e dell’algebra indiana e araba, dell’alchimia e dell’astronomia persiane. Solo così si può spiegare il fatto che la biblioteca del Califfo a Cordoba nel X secolo contasse quattrocentomila volumi quando nello stesso periodo le più grandi biblioteche dell’Europa cristiana contenevano non più di quattrocento manoscritti.
Mettendo fine a questa storia, nel 1492 l’Europa cristiana decise di volgere il proprio sguardo ad occidente, come a rinnegare le proprie origini fenicie. Una frattura fra oriente ed occidente destinata a crescere nei secoli successivi accanto al rumore sordo di una persecuzione antisemita che culminerà nel XX secolo. Ma perché di tutto questo e nella fattispecie del califfato di al-Andalus nei libri di storia non se ne parla?
Torniamo ai sefarditi di Sarajevo. Quella città diviene nel XVI secolo terra di asilo. Gli ebrei vi portarono da Sefarad (così chiamavano la Spagna) le chiavi delle loro case, la loro lingua, l’abilità nel tradurre e nella diplomazia, i libri delle sacre scritture della loro cultura, quasi a riecheggiare quel che al-Andalus aveva portato con sé nei secoli precedenti. Fernand Braudel nel suo grande capolavoro7 sostiene che l’Impero Ottomano aveva tutto l’interesse a favorire la migrazione verso il Levante, soprattutto allo scopo di colmare il divario tecnologico che si era determinato con l’Occidente. E ciò nonostante non può che colpire il diverso atteggiamento che si manifesta nel 1463 (ventinove anni prima dell’espulsione degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna) con l’emanazione da parte di Maometto II di un ben diverso editto per le terre bosniache appena conquistate8 che prenderà il nome da un piccolo villaggio nei pressi di Mostar, anche questo occultato – chissà perché? – della storiografia ufficiale. E’ l’Editto di Blagaj, uno straordinario documento che venne consegnato ai francescani bosniaci come dichiarazione di tolleranza e protezione nella professione della loro fede e di tutela dei loro luoghi di culto.
«Editto del Sultano Mehmet II ed Fatih Mehmet, figlio di Murat-Khan, sempre vittorioso!
La volontà dell’onorabile, segno sublime del Sultano, sigillo splendente del conquistatore del mondo è la seguente:
Io, Sultano Mehmet-Kahn, informo il mondo intero che coloro i quali possiedono questo editto imperiale, i francescani bosniaci, sono nei miei favori per cui io dispongo:
– fate che nessuno infastidisca o disturbi né loro, né le loro chiese;
– permettete loro di vivere in pace nel mio Impero;
– lasciate stare al sicuro coloro che presso di loro sono rifugiati;
– permettete loro di tornare e di sistemare i loro monasteri senza timore in ogni Paese del mio Impero.
Né la mia Altezza Reale, né i miei Visir, né il personale alle mie dipendenze, né la mia servitù e nessuno dei cittadini del mio Impero potrà insultarli o infastidirli.
Non permettete a nessuno di attaccarli, insultarli, né di attentare alle loro vite, proprietà o chiese.
Se loro ospiteranno qualcuno proveniente da fuori e lo introdurrà nel mio Paese ne hanno la mia autorizzazione.
Poiché ho così disposto, ho graziosamente emesso questo editto imperiale e ufficialmente assumo l’impegno. Nel nome del creatore della terra e del cielo, colui che nutre tutte le creature, nel nome dei sette Musafs e del nostro grande Profeta e nel nome della spada che io impugno che nessuno si comporti diversamente da ciò che ho scritto fin tanto che mi saranno fedeli e obbedienti alla mia volontà».
Blagaj, 28 maggio 1463»9
Come già nella penisola iberica, anche qui l’Islam si caratterizzava per interpretazioni sincretiche avendo le proprie radici locali nell’eresia Bogomila, cresciuta in Bosnia e in Bulgaria intorno al X secolo. Così le chiese cristiane crescevano accanto alle moschee e alle sinagoghe. Talvolta le une s’intrecciavano con le altre, se ne possono vedere ancor oggi le tracce. E Sarajevo divenne col tempo la “Gerusalemme dei Balcani”. Una storia che nemmeno l’olocausto riuscì a cancellare, tant’è vero che furono i musulmani di quella città durante l’occupazione nazista a difendere gli antichi manoscritti che gli ebrei sefarditi si erano portati dalla Spagna.
Nel secondo dopoguerra vennero gelosamente conservati nell’Istituto Orientale e nella Biblioteca Nazionale di Sarajevo, sulle rive della Miljacka. Quante volte ho percorso quel tratto di fiume, dal Ponte Latino10 alla Viječnica. Vi potremmo racchiudere simbolicamente tutto il Novecento.
Vennero salvati dalla furia nazista, ma non dai nuovi barbari, moderni miliziani dello scontro di civiltà. La Biblioteca nazionale, oggi di nuovo riportata al suo splendore dopo una ricostruzione durata diciotto anni, venne bombardata il 26 agosto 1992, cinquecento anni dopo l’esodo dalla Spagna. Non fu un effetto collaterale della guerra. Era al contrario la volontà di distruggere uno dei simboli di quella città, la sua storia contenuta nei 478 antichi manoscritti, nel milione e mezzo di volumi che bruciarono per tre giorni e due notti, la sua identità cosmopolita. Non serve aggiungere nulla a quello che ha magistralmente scritto su quel tragico avvenimento Azra Nuhefendić11. «Ho visto Werther seduto sul recinto del cimitero distrutto. Quasimodo dondolante sul minareto di una moschea. Raskolnikov e Meursault sussurravano, per giorni, nella mia cantina…»: in quella cenere che cadeva dal cielo le anime dei personaggi della letteratura girovagavano per la città, come scrisse Goran Simić. «Tutta la città fu coperta da brandelli di carta bruciata. Le pagine fragili volavano in aria, cadendo come neve nera. Afferrandola. per un attimo era possibile leggere un frammento di testo, che un istante dopo si trasformava davanti ai tuoi occhi in cenere».
Tre mesi prima avevano bombardato l’Istituto Orientale di Sarajevo, questa volta nei pressi del ponte Drvenjia, che conteneva migliaia di testi antichissimi e manoscritti in lingua araba, farsi ed ebraica.
In quei giorni non bruciava solo la Viječnica, andava in fumo anche un’idea di Europa come incontro fra oriente e occidente. Mentre bruciava l’Europa noi volgevamo lo sguardo altrove… Da questa parte del mare, guardavamo distrattamente la tragedia che si consumava in quella città, senza capire che ad essere assediata era la storia, la cultura, un’idea dell’Europa. Eravamo noi.
Del resto era proprio questo l’obiettivo degli assedianti. Le granate, le bombe incendiarie, non cadevano a caso, miravano i simboli. Le guerre moderne non hanno come obiettivo la distruzione dell’esercito nemico, con il quale spesso ci si intende e si fanno affari, ma contro la popolazione civile, la storia, la cultura, le città. Con l’assedio di Sarajevo si parlò di “urbicidio”: la volontà non era di prendere una città della quale non sapevano che farsene, ma di tenerla sotto scacco di fronte al mondo intero per sfiancarne la resistenza ed il messaggio. Così le biblioteche sono diventate obiettivi strategici perché, come i libri, gli edifici, le opere d’arte ci parlano della complessità, degli intrecci, dell’Europa come insieme di minoranze.
Come ho avuto modo di scrivere altrove «i sacerdoti della purezza identitaria sono come i cultori dello scontro di civiltà, non sopportano i sincretismi. Coltivano le fratture della storia, agitano la Battaglia di Lepanto, fanno leva sulla paura e fomentano il rancore». Si fanno scudo di antiche identità, senza sapere che le civiltà sono cose vive, in continuo divenire e – come scrive Zygmunt Bauman – «allergiche alle frontiere, anzi a ogni fissità e finitezza»12.
Ecco cosa rappresentava Sarajevo, un corpo estraneo al nazionalismo, da estirpare per i sacerdoti della purezza che hanno segnato il Novecento.
Ho voluto porre questa domanda fra le tante possibili perché il significato che più mi sta a cuore di questa mostra è – a guardar bene – racchiuso proprio qui. Vedere riapparire sul finire del Novecento i campi di concentramento e il concetto stesso di “scontro di civiltà” mi riempie di inquietudine. Mi porta a pensare che se non siamo capaci di interrogarci sulla storia, questa verrà usata come una moderna clava per sostenere che, in un mondo abitato a breve da nove miliardi di persone, lo spazio vitale sarà solo di qualcuno. Secondo il diritto naturale, dei più forti.
Note:
1. Marco Revelli, Oltre il Novecento. Einaudi, 2001
2. James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2005
3. Interessante comprendere come nel cattolicissimo impero asburgico fosse garantito il diritto alla professione del proprio credo religioso, compresa l’edificazione dei luoghi di culto.
4. Il 18 giugno del 1492 arrivo alle isole l’ordine di espulsione che venne eseguito entro la fine dell’anno in questione con un esodo stimato di oltre 35 mila ebrei.
5. Noto anche come Decreto dell’Alhambra, l’editto di Granada avrebbe dovuto scadere il 31 luglio 1492. Isacco Abrabanel, influente rappresentante della comunità ebraica, riuscì a negoziare un piccolo rinvio dal valore simbolico al 2 agosto, ovvero al 9 di Ab del calendario ebraico, l’anniversario della distruzione del Tempio di Gerusalemme.
6. Jim Al-Khalili, La casa della saggezza. Bollati Boringhieri, 2010
7. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Einaudi, 1982
8. La Bosnia fu sotto dominazione ottomana dal 1463 al 1878
9. L’Editto, presumibilmente redatto nel 1463 nella Tekija di Blagaj, è oggi custodito nel convento francescano di Fojnica (Bosnia Erzegovina)
10. Il luogo dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della consorte Sofia il 28 giugno 1914
11. Azra Nuhefendić, Le stelle che stanno giù. Edizioni Spartaco, 2011
12. Zygmunt Bauman, L’Europa è un’avventura. Laterza, 2004