Il mio nome è mai più
L’incontro con un fachiro ed il ritorno tramite l’ipnosi all’infanzia e alla guerra. E’ dedicato alla tragedia bosniaca ed al fiume Una il romanzo d’esordio di Faruk Šehić. Una recensione
Faruk Šehić, una delle voci più autentiche e poetiche della Bosnia Erzegovina oggi, autore del libro di poesie Hit Depo e del volume di racconti Sotto pressione, bestseller nei paesi dell’ex-Jugoslavia, ha esordito nel 2011 con un romanzo dedicato al fiume Una e alla guerra in Bosnia, fonte inesauribile dell’ispirazione creativa di molti artisti bosniaci, serbi, croati e italiani.
Il libro del fiume Una (in originale: Knjiga o Uni) ha vinto l’anno scorso il prestigioso premio “Meša Selimović” per il miglior romanzo pubblicato nel 2011 in Bosnia Erzegovina, Croazia, Serbia e Montenegro.
Il protagonista, un giovane sognatore, scrittore e poeta, veterano dell’ultima guerra, cronista di un tempo scomparso, ci accompagna in un lungo sogno, nel quale ripercorriamo gli episodi significativi della sua vita passata. Sfogliando le pagine rintracciamo gli elementi importanti dei due universi dello scrittore: quello prima della guerra, in una città bosniaca sul fiume Una, negli ultimi vent’anni della SFRJ (Repubblica federale di Jugoslavia), e quello immediatamente successivo, durante il terribile conflitto in Bosnia negli anni 1992-1995, nel quale lui stesso era coinvolto.
Alcuni anni dopo la guerra, Mustafa Husar (protagonista, narratore, nonché alter ego dello scrittore) incontra nella sua cittadina un fachiro indiano che fa parte di un circo italiano. Il fachiro lo invita ad entrare in un sogno ipnotico in cui Mustafa è costretto a rivivere gli episodi passati e i traumi post-bellici, portati in superficie grazie alla tecnica di regressione ipnotica. Mustafa torna così indietro nel tempo, alla sua infanzia, alla giovinezza spensierata e felice e, infine, alla guerra che come una voragine apocalittica ha inghiottito anche lui. Nella ricostruzione frammentaria delle parti sparse di una vita spaccata, di una tragedia vissuta e non voluta, e di un futuro immaginato ma non realizzato, il protagonista torna non solo nel passato concreto e materiale, ma anche nelle più profonde tenebre del suo animo e della sua mente.
Il viaggio immaginario continua tra le luci di una natura incantevole descritta con un pathos poetico sublime e il buio dell’odio e della morte.
Šehić descrive con un forte impatto emozionale il fiume Una: il suo colore verde smeraldo, stupendo e spumeggiante, le sue sponde curve e rigogliose in primavera, le sue piante e il verde che le contraddistingue, i pesci e gli animali che ci abitano. Ricorda con nostalgia le giornate di pesca e di pace trascorse in solitudine, le nuotate in compagnia, estati giovani ed effervescenti ed autunni monotoni… Inserisce poi all’interno di questa cornice la lista infinita dei profondi e semi-esplorati strati dell’animo di Mustafa, intrecciati in modo inestricabile con la natura di cui fa parte, con la fantasia di cui è ricco non solo il suo ambiente naturale e sociale, ma anche lui stesso. Il tema dell’acqua lo porta quasi a raggiungere uno stato di armonia e di equilibrio tra passato e presente, tra sognato e vissuto, tra fantasie, miti e leggende che lo aiutano nei momenti importanti, durante la sua crescita e anche durante la sua lotta per la sopravvivenza.
I passaggi tra il prima e il dopo sono molto sfumati, l’atmosfera sembra quasi torbida, come il fiume Una quando è in piena e diventa color cioccolato. Il percorso interiore fatto dal protagonista è ondeggiante e a più livelli, tra realtà impressa nella mente e nel sentimento da un lato e la fantasia onirica dall’altro, tanto che a volte non è facile uscire fuori dal sogno che ci racconta o dal fiume in cui lui si tuffa.
Il tema della guerra si inserisce nella narrazione come un fantasma uscito da un cassetto grigio chiuso male, che all’improvviso scatta e colpisce. Mentre nella descrizione poetica del fiume e della natura lo scrittore si muove su un registro melanconico, caldo e riflessivo, nei racconti di guerra diventa realistico, duro, coraggioso nell’accusare gli artefici del male e sicuro nel voler esprimere chiaramente il proprio giudizio. Un giudizio che, benché tenda ad essere universale, è spesso personale e soggettivo, in quanto il protagonista è un soldato-guerriero, ma è, prima di tutto, un uomo che lotta per la vita e per la propria esistenza. E’ probabilmente uno dei passaggi più tristi del romanzo quello in cui assistiamo alla trasformazione di un uomo normale in un uomo che è costretto a imparare a odiare per sopravvivere. “Impariamo l’odio, perché è l’unico modo per sopravvivere, e grazie ad esso è possibile svegliare la rabbia e la forza che ti manterranno nella vita…”.
Il protagonista rappresenta la “sua” parte come quella che si è dovuta difendere, ma comunque non giustifica sempre le (re)azioni dei “suoi”, scattate in questo meccanismo vizioso di odio e di morte, innescato da alcuni (altri) e diffuse su tutti.
Šehić raggiunge un alto livello narrativo e poetico nell’interpretare gli stati d’animo di Mustafa Husar sia durante il conflitto, in cui sembra congelato in un essere-altro che vuole sopravvivere, sia dopo, quando lo ritroviamo affetto da una pesante sindrome post-guerra, dai traumi causati dalla morte vista e annusata dal vicino, da incubi e fantasmi dei compagni morti che ridono in bare trasparenti in fondo al fiume. Con una rara precisione di parole, colori ed immagini Šehić riesce a penetrare nei posti più nascosti dell’animo del lettore e ad abbracciare simbolicamente la gente che si trova sull’altra sponda del fiume, dell’acqua, della città, di qualsiasi appartenenza .
Considerandosi “il cronista del tempo perso, annegato, bruciato”, alla continua ricerca di un senso, nella disperata voglia di dimenticare il passato, ma volendo ricordare comunque i giorni felici, l’autore scrive: “Quando sei alla ricerca di quello che è smarrito, allora sei anche il cronista dei sogni. Dovevo esortarmi a sognare, e dentro, nel sogno, a costruire tutto ciò che nella realtà non esisteva, per poter descrivere meglio…”.
Il linguaggio fortemente poetico, la struttura del romanzo flessibile e apparentemente caotica, l’atmosfera torbida degli anni novanta, il caos a l’assurdità estrema della guerra di cui l’autore condanna ogni ragione (religiosa, nazionalistica, etnica ecc), l’approccio psicologico e il metodo introspettivo nella narrazione, la cronaca storica, personale ed emotiva – tutto ciò rende questo libro prezioso e indimenticabile.
Con questo romanzo Šehić ha dato voce a tutti coloro che hanno vissuto un segmento della loro vita in Jugoslavia. I traumi che hanno influenzato le esistenze di moltissime persone dei paesi balcanici non potranno mai essere completamente superati, rimarranno dentro di esse per sempre, come un “ricordo totalitario degli anni novanta…” .
Anche in questo caso, la letteratura riesce a produrre un effetto quasi terapeutico sia per l’autore sia per il lettore che, una volta letto il libro, decide di non separarsene più.
p.s. Si consiglia ai lettori di tuffarsi dentro questo fiume di parole veloci e profonde … e di nuotare, contro corrente… e ogni tanto di provare a uscire e tendere le mani verso l’altra sponda del fiume, dove c’è sempre qualcuno che osserva e sorride.