Il mestiere del documentario in Grecia
Il cinema documentario in Grecia: dibattiti teorici, condizioni materiali e rapporti con le istituzioni attraverso la storia professionale di Anneta Papathanassiou. Nostra intervista
Quest’intervista è un estratto della ricerca "Indagine sul settore del documentario nel Mediterraneo" realizzata per la Direzione Marketing della RAI, che ringraziamo per la gentile concessione.
Come e quando hai deciso di diventare una documentarista?
Sono cinque anni che mi occupo di documentari. Ho iniziato per caso, non ci avevo mai pensato prima d’allora. Il primo documentario è nato per rabbia.
Posso chiederti cosa ti aveva fatta arrabbiare?
Stavo lavorando a un documentario sui disabili con un giornalista molto famoso, ma lui non era affatto interessato: continuava a rimandare e dopo un anno ha rinunciato. Era il mio primo documentario e ci tenevo moltissimo, quindi alla fine l’ho fatto da sola. È stato molto difficile, perché all’epoca non stavo lavorando affatto (faccio anche l’attrice). Per questo primo documentario ho ricevuto un premio, così tutti hanno pensato che fossi una regista e di fatto lo sono diventata (sorride).
Qual è la tua definizione di "documentario"?
Recentemente, qui in Grecia, c’è stato un grosso dibattito su cosa sia un documentario, anche perché c’è una sorta di conflitto fra registi e giornalisti. Infatti, molti giornalisti che fanno documentari per la televisione diventano molto famosi, mentre i registi indipendenti non lo sono affatto e la gente non va a vedere i loro documentari perché non li conosce. L’unica occasione per far vedere il proprio documentario è ai festival, il che significa farlo vedere una sola volta, perché da noi c’è un solo festival importante.
Si è quindi discusso a lungo per decidere se il reportage sia un documentario o meno…diciamo che il reportage è un genere specifico di documentario che descrive gli eventi attuali oppure la situazione politica. Il documentario creativo è qualcosa di diverso, che richiede anche uno o due anni di lavoro e di ricerche. Noi registi facciamo ricerche, combiniamo il passato con il presente e con il futuro, abbiamo uno o più personaggi principali che vivono davanti alla telecamera: non facciamo domande, non è come fare un’intervista. A me interessano molto le storie personali e nei miei documentari mi piace avere un inizio, uno sviluppo e una fine, come in una storia: nei documentari non mi piace la finzione. Questa però è una scelta personale, una mia convinzione.
A proposito di scelte, quanto è libero chi fa documentari? Ci sono problemi legati a tematiche troppo difficili da vendere, ma sulle quali ti piacerebbe lavorare? Ci sono solo problemi di tipo economico o anche di altra natura?
Principalmente si tratta di problemi economici: se vogliamo fare qualcosa che non interessa il Centro cinematografico greco o la ERT (la televisione nazionale greca), non riceviamo nessun sostegno economico e di conseguenza non possiamo farlo. E senza finanziamenti non c’è libertà, bisogna cambiare il progetto, trovare il modo di interessare e coinvolgere le istituzioni. E anche se hai fondi a sufficienza per fare quello che vuoi, magari non c’è nessuno disposto a farlo vedere.
Quindi, i principali finanziatori dei documentari sono il Centro cinematografico greco per i registi e la televisione per i giornalisti?
Esatto. Il Centro cinematografico greco e la ERT danno circa 65.000 euro per un documentario di media durata (15-45 minuti) e 100-120.000 euro per uno di 80-90 minuti. Tuttavia, solo uno o due film possono ottenere il finanziamento di 100.000 Euro, mentre 4-6 film possono ricevere l’importo minore. Le serie di documentari sono quasi sempre realizzate da giornalisti, ma non solo. Altri fondi arrivano dalle coproduzioni e dai programmi europei per lo sviluppo dei media. A volte, se qualcuno è interessato, è possibile ottenere fondi da privati o dalla Chiesa. Io ho ricevuto fondi anche dal Ministero degli Esteri, ma si trattava di un caso speciale: il documentario riguardava l’Afghanistan, ma aveva anche elementi di interesse per la Grecia.
Di cosa si trattava?
Il titolo del documentario era "Qadir, un Ulisse afgano". Qadir è un rifugiato afgano che vive da nove anni in Grecia, dove ha trovato casa e lavoro. È arrivato in Grecia via mare, illegalmente, ma è riuscito a sopravvivere. Dopo essere scappato dai Talebani, non era mai più riuscito a trovare la sua famiglia. Siamo tornati in Afghanistan e abbiamo trovato la sua famiglia, il che è un esempio di come possiamo aiutare le persone a tornare nei loro paesi. Tutto ciò interessava il governo, perché riguardava il modo in cui le ONG, la Croce Rossa e i medici greci hanno aiutato questo rifugiato. Prima avevo realizzato un documentario sullo tsunami in Sri Lanka. Non era un reportage, ma la storia di qualcuno che era sopravvissuto e aveva ricevuto denaro dalla popolazione greca, e perciò anche questo era di interesse per la Grecia. Qui in realtà non è andato molto bene, tranne in alcune proiezioni speciali, ma è andato molto bene all’estero. Essendo co-prodotto da Al Jazeera, è disponibile sul sito web di Al Jazeera in inglese. Poi ho avuto un premio a Roma e in quell’occasione siamo riusciti a venderlo in diversi paesi.
Qual è la situazione generale dell’industria dei documentari e della loro distribuzione nel tuo paese?
Non esistono distributori né agenti per i documentari, l’unica possibilità è la proiezione in sala. Se il mio documentario viene mostrato al cinema, allora forse posso trovare un distributore e realizzare dei DVD, ma niente di più. Non abbiamo nessuno che ci aiuti a vendere i nostri documentari all’estero, dobbiamo andarci noi stessi.
In quali paesi riesci a vendere il tuo lavoro?
Dipende dal genere di documentario: un reportage, un documentario televisivo o un documentario per un grande festival. Generalmente abbiamo grossi problemi con gli USA, il Canada e l’Australia, perché non amano i sottotitoli. Per quanto riguarda i miei documentari, posso dire che è più facile venderli nei paesi scandinavi come Finlandia, Danimarca e Norvegia, perché lì, come da noi, sono abituati ai sottotitoli. A me piace usare la lingua originale, non il doppiaggio o la voce narrante.
Io ora ho due distributori, uno francese e l’altro israeliano, di Tel Aviv. Non è facile vendere dalla Grecia, perché non siamo tanto famosi per i documentari. Solo negli ultimi due anni abbiamo avuto documentari di interesse internazionale. Però, ad esempio, se hai un co-produttore in Francia, allora puoi vendere facilmente ad Arte, un canale francese e tedesco che trasmette solo documentari. Hanno criteri piuttosto rigidi e quindi non è facile essere trasmessi, ma è un onore.
Invece, quali sono i canali televisivi e greci che trasmettono documentari?
Ce ne sono tre. Il canale nazionale ERT ha un programma molto bello dove vengono trasmessi documentari co-prodotti a livello internazionale. Anche il Canale del Parlamento trasmette documentari, quasi tutti stranieri. Anche Sky trasmette molti documentari, principalmente stranieri, e realizza anche qualche produzione.
E per quanto riguarda i festival?
Ce ne sono tre: Salonicco, Rodi e Kalamata, tutti incentrati sui documentari. Quello di Salonicco è molto famoso ed è il nostro festival "nazionale".
In passato c’era una legge che stabiliva che un documentario, per partecipare a un festival, doveva essere su pellicola. Quindi, anche se avevamo il filmato su DVD, dovevamo trasferirlo su pellicola per essere ammessi alla competizione. Per questo motivo, a volte il Centro cinematografico greco ci dava un po’ più di soldi, e grazie a ciò potevamo vedere i documentari al cinema. Ora la gente non vuole più questa legge, perché rende tutto molto difficile. Servono 20.000 euro per trasferire un’ora di documentario. Per esempio, quando ero in Afghanistan non potevo usare la pellicola e non avevo soldi per il trasferimento. Ci sono solo tre cinema ad Atene dove si può usare un proiettore e nei quali sono riuscita a proiettare il mio documentario. La cosa positiva è che se ti obbligano a trasferirlo su pellicola ci sono tanti documentari che possono essere proiettati nelle sale. D’altra parte, qui non hanno nessun pubblico. La gente guarda i documentari in televisione, non va al cinema per vederli.
Perché, secondo te?
Non c’è questa abitudine. Si guarda un documentario in TV, facendo zapping, ma è difficile che la gente esca e paghi il biglietto per vederne uno, a meno che non sia qualcosa di speciale, vicino. Ce n’è stato uno su un’isola, un vecchio caffè, e due anziani… è stato un successo sorprendente per un documentario, la storia era molto toccante, era greca, ed è piaciuta moltissimo.
Quali sono le caratteristiche e i temi principali dei documentari greci?
Molti documentari realizzati da giornalisti per la televisione riguardano viaggi, persone famose, poeti, scrittori…vengono trasmessi in serie, ogni mese oppure ogni quindici giorni. L’anno scorso c’è stata anche una serie di documentari sulla cucina. I documentari di registi indipendenti con finanziamenti dal Centro cinematografico greco hanno contenuti più sociali, o forse etnologici, cioè che riguardano il nostro paese.
Qual è il tuo prossimo progetto?
Riguarda il Pakistan, ma non so se potrò partire, perché la situazione ora è molto difficile. Il documentario si chiamerà "Le ninfe di Indocush" (Indocush è una montagna) e racconta della popolazione dei Kalash, una tribù che vive in Pakistan. In particolare, sto seguendo una ragazza di 24 anni che è la prima a studiare al di fuori di quest’area e la prima donna a studiare all’università. Loro credono nelle ninfe e nelle fate, come in una favola, e hanno costumi tradizionali molto belli, ma adesso hanno grandi problemi. Sono solo 400 e vivono circondati da 165 milioni di musulmani. Gli storici, e anche loro stessi, sostengono che siano discendenti dei guerrieri di Alessandro Magno. Sono politeisti, e alcune divinità e festività sono molto simili a quelle degli antichi greci. Ed è così che sto cercando di trovare qualche tipo di collegamento con la Grecia, in modo da ottenere dei finanziamenti, ma sono anche molto interessata a temi internazionali, quindi cercherò di combinare queste due cose.