Il marchio Zastava
Armi e automobili. Gloria e miseria della Zastava di Kragujevac nei ricordi di una generazione. Dal successo della produzione automobilistica, in partenariato con la Fiat, alla maledizione della guerra
“Ah Zija, Zija…” Nada nominava suo marito con quell’aria di finto rimprovero che usiamo quando parliamo delle persone che amiamo tanto, e alle quali perdoniamo tutto in anticipo. A novantadue anni la malattia l’aveva piegata in due, ma zia Nada era ancora lucida, il suo viso ancora bello. Un anno prima di morire, nel 2003, mi regalò un taccuino con la dedica sulla prima pagina: “La Bosnia è tutta coperta di kilim”. Il che voleva dire che la Bosnia è pura. Nelle nostre case, in Bosnia, si entra scalzi, ci si toglie le scarpe per non sporcare.
Nada e Zijo erano i nostri vicini della porta accanto, a Sarajevo. Si erano conosciuti negli anni trenta. Lei era una giovane maestra elementare in un piccolo villaggio vicino a Vršac, in Vojvodina. Un giorno un’amica la convinse ad andare nel villaggio vicino per vedere “un musulmano”. Nessuna delle due ragazze aveva mai visto prima un musulmano. Sorride zia Nada, ogni volta che racconta la sua storia d’amore. “Quella volta ci siamo visti, ci siamo innamorati, e siamo rimasti insieme per tutta la vita”.
Suo marito, Zijo, proveniva da una delle più importanti e antiche famiglie nobili della Bosnia. Nada, invece, era figlia di un operaio, un attivista sindacale di Kragujevac. Da zia Nada ho sentito raccontare per la prima volta di quella città serba, conosciuta per la sua antica tradizione socialista. La “Kragujevac rossa” la chiamavano, alludendo al suo passato proletario e rivoluzionario. L’arsenale di Kragujevac, fondato nel 1853, ha rappresentato l’inizio dell’industria e della classe operaia in Serbia.
Kragujevac era un simbolo per molti di noi jugoslavi. Da piccoli associavamo il nome della città all’eroismo, alla resistenza e alla solidarietà operaia. All’età di otto anni, quando i miei coetanei si ispiravano alle avventure di Tarzan o di Tom Sawyer, io sognavo di morire eroicamente, come gli studenti di un’intera classe del liceo di Kragujevac. Nell’ottobre del 1941 gli occupanti tedeschi avevano rastrellato, per rappresaglia, circa settemila abitanti di Kragujevac. Fu un massacro. Tra i fucilati c’erano molti studenti, prelevati direttamente dalla scuola. Questa atrocità ha ispirato la poetessa Desanka Maksimović a scrivere la poesia “Krvava bajka” (Fiaba cruenta). Ancora oggi ne ricordo i versi, che mi fanno venire i brividi:
Avvenne in un paese di contadini,
nella Balcania montuosa:
una compagnia di alunni
in un giorno solo morì
di morte gloriosa.
Nel 1962 sull’evento fu girato il film “Prozvan je Peti tri“ (Si chiamava anche classe V 3). L’ho visto varie volte, piangendo sempre. Fantasticavo, talvolta, di essere uno degli scolari, oppure il loro professore, che rifiutò di salvarsi e morì insieme ai suoi studenti. Prima di essere giustiziato, il professore dichiarò davanti ai fucili tedeschi: “Sparate, anche adesso sto facendo lezione”. Da allora considero nazisti tutti quelli che, per vendetta, puniscono degli innocenti.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale l’arsenale di Kragujevac cambiò nome e diventò “Zavodi Crvena Zastava” (Stabilimenti Bandiera rossa). Si continuavano a produrre armi, ma dagli anni cinquanta si cominciarono a produrre anche automobili. Il gruppo torinese Fiat vendette a Kragujevac tecnologia e licenze.
Grazie all’industria automobilistica, Kragujevac e la fabbrica “Zastava” continuarono a essere un simbolo. I due nomi erano il simbolo dei migliori anni della vecchia Jugoslavia, del nostro breve benessere economico, e della possibilità di viaggiare. Dopo, in altre città della ex Jugoslavia, vennero prodotte anche automobili francesi, tedesche, russe, ma nessuna grande marca mondiale riuscì a battere la popolarità e la quantità delle “Zastava”.
Prima venne prodotta una copia della Fiat 600, che noi avevamo battezzato “Fićo”. Poi ne uscì una più grande, la “Zastava 101”, il cui nome, pronunciato nella nostra lingua, era identico a un nome proprio maschile, Stojadin. Ancora oggi molte “stojadin” circolano per le strade di un Paese che non c’è più. Poco prima dell’inizio della guerra, la “Zastava” produsse un nuovo modello, la “Yugo 45”, che per noi era il massimo della bellezza, del comfort e della modernità. La chiamavamo l’automobile eterna, per due ragioni. Primo, perché uno la poteva comperare solo una volta nella vita, costava davvero tanto, e poi perché era indistruttibile. La famosa “No smoking orchestra” cantava:
Erano bei tempi quelli
Un po’ si facevano gite,
Un po’ si andava al mare
In casa si rideva tanto
In cortile era parcheggiata una Yugo 45.
La nostra “Yugo 45” ci piaceva tantissimo, ci faceva sentire orgogliosi e ci era sembrata ottima l’idea di un manager buffone di esportarla in America. “L’affare del secolo” fu battezzato il progetto, seguito da una fortissima propaganda che ci assicurava che noi eravamo così bravi da riuscire a esportare macchine in un paese-simbolo dell’industria automobilistica. Finì tutto come si poteva prevedere. La “Yugo 45” fu dichiarata la peggior auto mai apparsa sul mercato americano. “Eh, gli americani non sanno cosa si sono persi”, sospirano i meccanici ancora oggi quando gli si porta una “Yugo 45” per il controllo. Sono passati trent’anni e le Yugo 45 circolano ancora in tutte le zone della ex Jugoslavia. Pare davvero eterna.
Negli anni novanta, però, Kragujevac e la “Zastava” ci ricordavano le bombe e i proiettili che venivano prodotti là. Durante la guerra in Slovenia, poi in Croazia, in Bosnia Erzegovina e infine in Kosovo, nella fabbrica “Zastava” di Kragujevac si producevano armi 24 ore su 24. Quei due nomi, che prima evocavano i migliori anni della nostra vita, erano diventati il contrassegno della morte.
Durante la guerra, da Kragujevac non giunse la solidarietà degli operai del settore armiero della “Zastava” per gli ex fratelli bosniaci, croati, sloveni, kosovari; neanche una traccia di pietà per i civili uccisi, le città distrutte. A Kragujevac pochi protestavano contro la guerra; non si stupivano per lo spargimento del sangue di innocenti, per il t[]e, per i crimini. I proiettili fatti a Kragujevac sono volati su Sarajevo per quattro anni. I prodotti della “Zastava” furono usati per fucilare ottomila maschi di Srebrenica, come hanno accertato gli investigatori del tribunale dell’Aja. Il generale serbo Ratko Mladić scrisse nel suo diario, il 26 gennaio 1995, che a “Bileća [città in Erzegovina, ndr] si potrebbe riavviare l’industria militare e che ci stanno pensando a Kragujevac”.
Ancora nel 1998, durante la guerra in Kosovo, la fabbrica di morte di Kragujevac lavorava senza sosta. Mentre i pacifisti italiani si sdraiavano sui binari per impedire che le armi prodotte in Italia venissero usate in guerra, o si facevano scudi umani per bloccare il decollo degli aerei dalla base NATO di Vicenza, a Kragujevac gli operai se la prendevano con l’accordo di Dayton che sanciva la fine della guerra in Bosnia. Protestavano perché erano rimasti “nudi come una pistola”, così diceva in nome dei lavoratori il loro direttore.
Il pacifismo, a Kragujevac, l’hanno scoperto solo nel 1999, dopo che la NATO aveva bombardato e distrutto la maggior parte della fabbrica. Solo allora capirono che la guerra fa male. Il giorno dopo i bombardamenti, in una lettera “all’attenzione della NATO e del mondo intero”, gli operai della “Zastava” e di Kragujevac esprimevano “la delusione nei confronti di un popolo (occidentale) che ritenevamo civile, e l’orrore per le scene di distruzione e morte”.
Dopo i bombardamenti NATO, gli stabilimenti Zastava di Kragujevac furono ristrutturati. A partire dal 2001, la “Zastava” aveva ripreso la propria attività ed esportava armi in Iraq e alla giunta militare birmana, dove di settecentomila soldati la metà sono bambini. I proiettili “Zastava” sono arrivati anche in Liberia “in quantità sufficiente per uccidere tutta la popolazione del Paese”, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI).
In quel mondo civile, al quale scrivevano gli operai di Kragujevac, io ci vivevo già da un paio di anni quando, nel 2003, un amico mi invitò ad andare a Roma per protestare contro la guerra in Iraq. Non dubitavo della giusta causa di contestare la guerra, ma avevo paura che qualcuno avrebbe potuto disapprovare la partecipazione di un’extracomunitaria, una profuga, in una manifestazione che era contro la politica ufficiale italiana. Per un paio di giorni questo dilemma mi tormentò. Poi mi decisi che ci sono dei momenti in cui uno non deve anteporre l’interesse individuale a quello comune. Perciò andai.
A Roma c’erano circa tre milioni di persone a manifestare. Dopo aver attraversato la città, ascoltavamo i discorsi. Tra i primi a parlare ci fu un’operaia che, annunciavano, portava da Kragujevac “un messaggio contro la guerra e per la pace”. Mi sentii offesa e ingannata. Una di noi due, quella volta a Roma, non avrebbe dovuto esserci.
Nel 2008 gli operai della “Zastava” hanno finalmente protestato. Era l’epoca della guerra in Georgia. Da una parte i georgiani, dall’altra i russi, tradizionali amici dei serbi. “Con le armi serbe si abbattono gli elicotteri degli amici russi”, avvertiva Vuk Drašković, ex ministro degli Esteri serbo. Messo nell’angolo, il governo di Belgrado dovette fermare l’esportazione delle armi in Georgia. È a quel punto che gli operai della “Zastava” iniziarono a scioperare. Quelli protestavano non contro la guerra in Georgia, ma contro la decisione che gli impediva di vendere le armi.