Il lungo viaggio dei Sidran
Romanzo balcanico, la storia della famiglia Sidran e del sogno jugoslavo vista attraverso le opere del grande scrittore e poeta sarajevese. Nostra intervista con l’autore e curatore del progetto, Piero Del Giudice
Di dove sei?
Della Jugoslavia.
È un paese che esiste?
No, ma io vengo da lì
(cit. in Dubravka Ugrešić, "La confisca della memoria", Romanzo balcanico, pag. 859)
Piero Del Giudice ha raccolto per il lettore italiano l’opera omnia di Abdulah Sidran per il teatro e il cinema. Romanzo balcanico però, lavoro monumentale pubblicato la settimana scorsa in Italia da Aliberti editore (928 pagine, 37 €), non è solo un libro per cinefili. Il progetto originario, nei quattro anni di lavorazione, ha mutato fisionomia aprendosi a linguaggi diversi. Le drammaturgie e sceneggiature sidraniane sono accompagnate dagli interventi di alcuni tra i migliori scrittori dell’area culturale (ex) jugoslava, schede storiche, un ricchissimo apparato fotografico.
Legano il tutto le conversazioni dei due autori, Sidran e Del Giudice, cominciate in un festival letterario alla fine degli anni ’80 alla Rotonda della Besana, a Milano, proseguite durante l’assedio di Sarajevo e ininterrotte sino ad oggi.
Il centro della narrazione è l’epopea della famiglia Sidran, cantata dal bardo Abdulah prima attraverso le pellicole di Kusturica poi nel teatro e nella nuova scena cinematografica bosniaca. Questa "normale" famiglia ci porta per mano attraverso tutto il ‘900 jugoslavo, dall’incubo dell’occupazione nazi-fascista (Jasenovac, dove muore lo zio Abdulah di cui lo scrittore prenderà il nome) al sogno federale e autogestionario, passando per nuovi campi di concentramento (Goli Otok, dove viene internato il padre Mehmed) fino ad arrivare all’epilogo degli anni ’90, al lungo assedio di Sarajevo, alla fine della Federazione.
Ne risulta un libro emozionante, che affronta il nodo della jugonostalgia non superficialmente, lontano dalle discussioni sugli arredi degli anni ’80 e dai rimpianti per un passato idillico. Lontano in realtà dalla stessa categoria della (jugo)nostalgia, ridefinita come pura indignazione per la cancellazione di una memoria. Un peccato capitale, quello della rimozione, anche perché – come spiega Sidran nelle note che accompagnano la tetralogia iniziale – "il nostro destino è nelle mani dei nostri padri" (Romanzo balcanico, pag. 38).
Come nasce l’idea di questo libro?
Mi interessava partire dal cinema autobiografico di Sidran-Kusturica per arrivare alla storia. Il padre di Sidran, comunista, partigiano, operaio specializzato, nel ’48 viene rinchiuso nel campo di concentramento di Goli Otok. Lo zio Abdulah, straordinaria figura di tipografo e resistente, muore a Jasenovac nel ’43. Nel viaggio verso quel campo di sterminio ustascia muore anche Ibrahim, l’altro zio. Sidran, infine, è un protagonista (spirituale) della difesa di Sarajevo negli anni ’90. C’è tutta la storia del ‘900 jugoslavo.
Come hai proceduto?
Il fatto di essere partito dall’idea di un libro di cinema mi ha imposto la cura particolare del materiale iconografico, il rigore delle schede e il lavoro di approfondimento sulla genesi dei film sceneggiati da Sidran. Man mano che andavo avanti, però, capivo che la parte autobiografica era sempre più importante per una comprensione della storia jugoslava e delle sue contraddizioni. Sono partito dai famosi moti contro l’alleanza della monarchia con Hitler ("Bolje rat nego pakt"), che precedono l’invasione del 6 aprile 1941, per arrivare alle guerre degli anni ’90, alla dissoluzione e al presente.
Nel libro viene dato molto rilievo alla questione di Goli Otok, l’isola-campo di concentramento degli oppositori di Tito. Qui il padre di Sidran viene rinchiuso insieme a Juraj Marek, che lo scrittore annovera tra i propri padri spirituali ma che scoprirà poi essere stato aguzzino del padre nell’isola prigione…
Sì, una tragedia incredibile.
Ho letto che i due sono sepolti vicini nel cimitero del Lav a Sarajevo…
Infatti.
Tu proponi il folgorante racconto di Sidran del 1969, sorta di anticipazione di "Papà è in viaggio d’affari", in cui lo scrittore ripercorre la storia dell’arresto del padre attraverso gli occhi di sé bambino, insieme a tutta la polemica che ne è seguita. Nella discussione che fai a margine del racconto con Sidran, lui afferma che Goli Otok è la chiave di tutto quello che riguarda l’esistenza e la dissoluzione della Jugoslavia. Che significa?
Su quell’isola regnava il silenzio, interrotto proprio da quel racconto, pubblicato da Sidran a 25 anni su Naši Dani, rivista degli studenti su posizioni di un socialismo critico. La scena descritta dal racconto Il mio primo compito scritto, ndr è fortissima. L’arresto in casa, la polizia politica con i cappotti di pelle, le macchine nere nel cortile, il padre prelevato insieme ad altre due persone del quartiere, uno degli arrestati che grida ai poliziotti: "Con tutto me stesso amo più la merda russa della torta americana"… Sidran era il primo a scrivere di Goli Otok in Jugoslavia, e nel partito si è scatenato il caos. Alla fine del libro, negli apparati, riporto gli scritti usciti sui giornali e l’attacco ufficiale del Partito a Sidran. Articoli, lettere, accuse micidiali. Lo scrittore è accusato di "stalinismo" perché 20 anni dopo l’arresto del padre aveva pubblicato un raccontino su quei fatti!
Quindi Goli Otok come chiave per capire la storia della Jugoslavia in quanto rimosso di quella storia?
Io non sono del tutto d’accordo, ma riporto la posizione di Sidran secondo cui lì nasce un sistema, una rete di polizia e di confidenti che penetra l’intera società e la corrompe. Sidran parla di circa 50.000 incarcerati a Goli Otok, poi rilasciati sotto consegna di non parlare mai dell’isola e di dover fare rapporti semestrali sugli ambienti che frequentavano, i discorsi che ascoltavano. E’ lì che nascerebbe l’albero malato che porta alla fine della Jugoslavia. E’ un po’ un’ossessione, in parte fondata. Nella storia del marxismo jugoslavo non si può tuttavia dimenticare che c’è una sinistra critica, c’è la rivista Praxis, c’è un dissidente d’alto livello come Milovan Đilas…
Romanzo balcanico è una raccolta straordinaria per l’Italia, composta grazie ad un gruppo di primissimo piano di collaboratori, traduttori e fotografi. E’ il tuo omaggio a Sidran?
Sì, però anche alla Jugoslavia. Di questo libro Sidran dice che non è suo, ma di Piero… In realtà l’unica cosa che a me interessa rivendicare è il mio metodo di lavoro, l’utilizzo di linguaggi diversi (poesia, cinema, letteratura, le schede storiche) per contestualizzare l’opera di Sidran nella storia del suo Paese.
Perché un omaggio alla Jugoslavia, oggi?
Perché ci hanno tolto da sotto i piedi un’esperienza di 50 anni di sogni, di lotte, di uguaglianza e di pluralità culturale.
Anche di Goli Otok però…
Certo, anche di contraddizioni. Ma il problema c’è quando si vuole cancellare in toto quella esperienza. E’ come se nulla fosse mai esistito. Sono morte centinaia di migliaia di persone nella lotta contro il nazifascismo, per un sogno dell’umanità, una federazione tra eguali, la Jugoslavia ha inventato il progetto dei non allineati per la pace… Nel momento in cui in Italia chiedono di schedare con le impronte digitali i bambini rom, ricordare un Paese che ha avuto al centro la pluralità culturale, etnica e religiosa è stato forse il vero motivo che mi ha spinto a concludere, chiudere questo lavoro.
Quindi jugonostalgia come rabbia per una sottrazione?
Nel capitolo sulla jugonostalgia ho raccolto le riflessioni di diversi intellettuali, dalla Richter a Lusa, a Sidran stesso, un saggio strepitoso della Ugrešić, Jergović, l’intervento di Arsenijević Questione di nostalgia. E’ chiaro che qui non si discute di un ritorno alla Federazione socialista jugoslava, quanto dell’angoscia per un assetto sociale basato sulle comunità etniche e un assetto politico fondato su territori etnicamente puliti in forma di Repubbliche. E’ qui che Sidran parla della nostalgia verso un diverso sentimento del vivere, quel sentimento universale (Continuo a pensare che quel sentimento collettivo fosse positivo, a differenza di quest’altro sentimento etnico, comunitario, ndr). E’ la stessa nostalgia che provo io. Qui riconosco un sogno forte della nostra generazione. Per questo ho deciso di partire nella parte storica dai "giorni freddi di Novi Sad", da Danilo Kiš e Aleksandar Tišma. Pubblico l’intervista che ho fatto a Tišma nel 2000 e poi l’inedito di Danilo Kiš, Salmo 44. Entrambi parlano della famosa "razzìa" fatta dagli ungheresi invasori della Vojvodina, alleati dei nazi-fascisti, tra il 19 e il 22 gennaio del ’42 nei quartieri di Novi Sad. Vengono rastrellate e uccise migliaia di persone – serbi, ebrei, dissidenti e oppositori – spinti fuori dalle case, fucilati per le strade, incolonnati in un tragico corteo verso il Danubio ghiacciato. Per me la morale di queste pagine di storia e genocidio è che solo l’unità può battere la logica della divisione degli oppressi, la contrapposizione ad arte su base cosiddetta "etnica", "razziale" o "religiosa".
La scelta di Sidran, nelle elezioni amministrative dell’autunno scorso, di candidarsi qui a Sarajevo per il partito SDA, bosgnacco, sembra però indicare un’evoluzione rispetto alle premesse. Cos’hai pensato di quella scelta?
Disaccordo vero e anche delusione. E’ vero che si è trattato di elezioni amministrative e che Sidran si è presentato come indipendente, ma se fosse avvenuto qualche anno fa non avrei iniziato questo fatica letteraria e storica. Sidran ha sempre parlato e praticato una chiara distanza dal discorso etnico, comunitario. C’è il gruppo di poesie scritte per la "jugonostalgia" che è molto chiaro. Credo che in questa scelta abbiano giocato motivi contingenti, bisogni materiali, ma non posso rispondere per lui. Lui conosce il mio disaccordo radicale. Tuttavia il nostro rapporto si fonda su una comunicazione, su un dibattito non così esplicito, non così lineare…
Il vostro è un rapporto che continua da anni…
Prima del nostro rapporto personale c’è la stima per il suo lavoro letterario, la sua poesia, il suo teatro, il suo cinema. Inoltre lui ha una intelligenza davvero particolare, autoctona, è uno gnomo sapiente dei Balcani, il genius loci della Sarajevo pluralista. Ho sempre avuto molto da lui in termini di comprensione di una realtà davvero altra rispetto alla mia. A lui sono grato per avermi iniziato a una dimensione culturale come quella sarajevese e bosniaca. Durante l’assedio andavo da lui, nella piccola mahala Kate Govorusić, nella casa dove abitava tra sfollati di guerra e bambini. Lui era l’unico in grado di darmi delle chiavi di lettura per capire quello che succedeva, anche quando non sembravano esserci spiegazioni razionali… L’assedio era provocato dal nazionalismo serbo, chiaro, ma i peccati mortali che avvenivano all’interno della città erano numerosi. E nessuno era in grado di capire chi guadagnasse cosa. Andavo da lui, nella casa colpita dalle granate nella piccola via Kate Govorusić, a cogliere qualche immagine dal suo sguardo non retorico, non irenico, sulla città. E ogni tanto mi diceva qualcosa, mi dava una notizia che apriva uno squarcio su quel presente di sangue, di violenza. C’era naturalmente la città che si difendeva, ma accanto allo splendore spirituale della resistenza, alla "città degli angeli", della democrazia e della pluralità, scorreva un fiume torbido di rese dei conti, di riduzione all’odio etnico anche dentro Sarajevo. Nonostante umanità e pazienza, sforzi unitari e intelligenza di grandi intellettuali come lui o Marko Vešović.
Oggi cosa rimane di quel fiume torbido?
Ne parlo nella mia introduzione e nel finale, ne parlano la Ugrešić, Jergović e lo stesso Sidran. Il succo è che ormai questo Paese viene divorato dall’avidità dei suoi dirigenti, dalla rapina e spartizione privata di quelle che era la grande proprietà collettiva.