Il Karabakh dopo il summit OSCE di Astana
Le speranze per una rapida evoluzione negoziale della crisi in Nagorno Karabakh svaniscono ad Astana. Nonostante una timida dichiarazione congiunta, salta tra accuse incrociate l’incontro finale tra i leader di Armenia e Azerbaijan. Le conseguenze nella regione, il dibattito in Armenia
Il summit OSCE di Astana (1, 2 dicembre) sembra aver deluso le aspettative di ulteriori sviluppi nei negoziati sul Nagorno Karabakh, che confermassero il clima positivo creato dall’incontro di Astrakhan a fine ottobre tra il presidente armeno e quello azero. Inoltre, se l’obiettivo del summit – il primo del XXI secolo, dopo quello di Istanbul del 1999 – era l’adozione di un piano d’azione che rafforzasse il ruolo dell’OSCE nell’ambito della prevenzione e soluzione di conflitti, proprio le tensioni nell’area caucasica (Abkhazia , Ossezia del Sud e Nagorno Karabakh) hanno evidenziato le difficoltà dell’Organizzazione nel compiere la propria missione.
Il 1° dicembre scorso, mentre la stampa armena riportava la notizia del proseguimento degli scambi di prigionieri tra Yerevan e Baku, il vertice in Kazakistan era cominciato sotto gli auspici positivi dei vari attori coinvolti nei negoziati per il Karabakh, in particolare dei tre Paesi che presiedono il cosiddetto Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia). Oltre al ministro degli Esteri russo Lavrov, che aveva annunciato l’impegno dei tre “co-presidenti” nella preparazione di un documento da sottoporre a Sargsyan ed Aliyev ad Astana, anche la Segretaria di Stato USA, Hillary Clinton, era intervenuta confermando gli sforzi del Gruppo e l’intesa sul “complesso di principi-base” per la soluzione del conflitto (riferendosi ai sei principi stabiliti a Madrid nel 2007 durante la conferenza ministeriale OSCE e formulati sulla base dell’Atto Finale di Helsinki, ndr).
La dichiarazione congiunta di Astana sul Nagorno Karabakh
Come preannunciato dal ministro russo, ad Astana i capi delegazione dei tre Paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk – il presidente russo Dmitri Medvedev, il primo Ministro francese François Fillon e Hillary Clinton – hanno sottoscritto con il presidente azero Aliyev e quello armeno Sargsyan una dichiarazione congiunta al fine di intraprendere sforzi più decisi per risolvere il conflitto. In tale documento, i presidenti dei due Paesi caucasici hanno confermato gli impegni sottoscritti a Mosca nel 2008 e ad Astrakhan lo scorso 27 ottobre, e si sono dichiarati favorevoli ad una soluzione del conflitto sulla base del diritto internazionale, della Carta dell’ONU e dell’Atto Finale di Helsinki, e nel rispetto del contenuto delle dichiarazioni di Medvedev, Obama e Sarkozy durante gli incontri del G8 a L’Aquila (10 luglio 2009) e a Muskoka (il 26 giugno scorso). Da parte loro, i mediatori hanno garantito il proprio sostegno ad Armenia ed Azerbaijan nel processo di pace e raccomandato un maggiore sforzo da parte di entrambi, auspicando il rispetto del regime di cessate il fuoco e suggerendo l’adozione di ulteriori misure di fiducia.
La dichiarazione congiunta firmata ad Astana ha pertanto confermato quanto stabilito negli incontri precedenti, senza però riuscire a risolvere le divergenze che ancora permangono a livello di negoziati, soprattutto per quanto riguarda lo status finale dei territori. A conferma di ciò e a dispetto delle speranze dei tre mediatori, l’incontro bilaterale programmato ai margini del summit è stato cancellato all’ultimo momento, poiché – secondo la stampa armena – il leader azero avrebbe rilevato “contraddizioni lampanti” tra la dichiarazione congiunta e quanto detto da Francia, Russia e USA in sede plenaria.
Le accuse di Aliyev e Sargsyan
La sensazione che il vertice non abbia contribuito in modo significativo alla soluzione della “questione Karabakh” ha trovato ulteriore conferma il 2 dicembre nelle parole del presidente armeno in risposta al discorso di Aliyev, che aveva accusato l’Armenia di “crimini di guerra e genocidio nei confronti della popolazione azera del Nagorno Karabakh durante la guerra del 1991-‘94” e di voler intenzionalmente allungare i tempi del processo negoziale rendendolo “interminabile”. Durante il proprio intervento, Sargsyan ha ribattuto accusando la controparte di avere come unico obiettivo “quello di infliggere il maggior danno possibile all’Armenia” e di non essere interessata a risolvere il conflitto con mezzi pacifici ma attraverso un’azione militare. Ipotizzando un’aggressione azera al Nagorno Karabakh, l’Armenia “non avrà scelta se non riconoscere la repubblica” (autoproclamatasi indipendente dal 1992, ndr) – ha avvertito il leader – e intervenire al fine di garantire la sicurezza della popolazione ivi residente.
I risvolti del vertice hanno monopolizzato l’attenzione dei media armeni, che hanno seguito il dibattito raccogliendo le opinioni di personaggi politici ed esponenti della società civile.
Il ministro degli Esteri Nalbandyan ha evidenziato il valore positivo del summit per l’Armenia: la conferma del divieto dell’uso della forza, “sottolineato in particolare dal presidente russo nel suo discorso”, rappresenterebbe un “serio avvertimento per Baku” ed evidenzierebbe al contempo come “l’approccio della comunità internazionale sia in linea con quello dell’Armenia”, contrapponendo il “tentativo azero di sottrarsi dall’accordo sui principi-base” alle rassicurazioni di Sargsyan di “aderire all’insieme di norme individuate dai tre mediatori per la risoluzione”. Non si discostano da tale analisi ottimistica i titoli sui giornali, che hanno definito il summit di Astana un “ammonimento per Baku” e un’ulteriore “garanzia per il Karabakh”.
Sebbene non siano mancate voci di speranza e incoraggiamento – come quella di Stepan Grigoryan, direttore del centro studi Analytical Centre on Globalisation and Regional Cooperation (ACGRC), che ha invitato le parti a realizzare quanto siglato ad Astana, attuando ulteriori iniziative di confidence building – dalla società civile sono però giunte varie critiche. Karen Bekaryan, a capo dell’“European Integration NGO”, ha contestato il ruolo dell’OSCE come mediatore unico: accennando al rifornimento di armi all’Azerbaijan da parte di alcuni Stati membri, l’analista ha criticato il “monopolio del processo negoziale” in mano all’OSCE e ipotizzato il coinvolgimento di altri attori. Altrettanto critico il politologo Manvel Sargsyan, che nutre dubbi sia sul futuro della dichiarazione del 1° dicembre – in quanto “ad Astana nessuna delle due parti ha dimostrato di voler veramente porre fine al conflitto” – sia sulle conseguenze della “minaccia di riconoscimento” pronunciata dal Presidente.
La proposta di riconoscere il Nagorno Karabakh
A tal proposito, rilevano i risvolti sul dibattito politico interno. Posticipando la votazione parlamentare sul progetto di legge presentato dal partito di opposizione “Zharangutyun” (Heritage) relativo al riconoscimento del Karabakh, il 7-8 dicembre l’Assemblea Nazionale ha discusso ed approvato un emendamento alla Legge sui Trattati Internazionali, che permette di considerare parti contraenti di accordi internazionali anche “soggetti non riconosciuti”. Secondo quanto affermato dal vice Ministro degli Esteri Kocharyan, l’emendamento in questione consente all’Armenia di “formalizzare i suoi stretti legami politici, economici e militari” col Nagorno Karabakh e di lanciare un messaggio politico alla comunità internazionale, dimostrando che “Yerevan non si preclude una futura alleanza” con Stepanakert. Non solo: tale espediente apre la strada ad un accordo politico-militare col Karabakh, una “soluzione de facto” secondo la Federazione Rivoluzionaria Armena (Dashnaktsutyun) che trova d’accordo anche il Partito Repubblicano al potere, pronto a “garantire in tal modo la sicurezza del Karabakh con ogni mezzo, anche militare […] determinando l’inizio del collasso della sovranità azera”.
Nonostante le denunce di violazione delle norme internazionali, tale emendamento sembra aver scongiurato i rischi di un riconoscimento de jure – che, suggerisce Grigoryan, “interromperebbe automaticamente i negoziati” – e decretato al contempo la sconfitta del Zharangutyun, il cui disegno di legge è stato infine respinto dal Parlamento.