Il genocidio silenzioso del popolo rom
Il genocidio dei rom e sinti durante la Seconda guerra mondiale, ricordato il 2 agosto, è un crimine rimasto a lungo nell’ombra. Oggi si moltiplicano gli sforzi per far emergere e reintegrare quegli eventi drammatici nella memoria collettiva europea

Il-genocidio-silenzioso-del-popolo-rom
© Vemonster/Shutterstock
Dal 2015, il 2 agosto è ufficialmente riconosciuto dal Parlamento Europeo come la Giornata Europea di commemorazione del genocidio dei rom e dei sinti durante la Seconda guerra mondiale. Dopo più di 70 anni dalla notte tra il 2 e il 3 agosto 1944, in cui il cosiddetto Zigeunerlager, il campo per rom e sinti ad Auschwitz, fu liquidato in una sola notte.
Oltre al regime nazista di Hitler, che sterminò quasi l’80% della popolazione rom e sinta nell’Europa Occidentale, anche altri regimi collaborarono a questa tragedia. Il regime Ustaša in Croazia sterminò circa 40milaa persone della comunità rom locale. In Romania, sotto il regime di Antonescu, furono ordinati deportazioni verso i campi di lavoro forzato in Transnistria, tra il fiume Dnestr e il Bug. Qui, migliaia di persone rom furono trasferite in convogli di treni bestiame o costretti a viaggiare a piedi, abbandonando case, beni e animali, affrontando viaggi disumani e senza alcuna preparazione. Durante il processo di Chișinău nel 1946, emersero dati precisi: circa 11.474 rom nomadi e 13.245 rom stanziali deportati morirono durante queste deportazioni.
Il genocidio dei rom e dei sinti è uno dei genocidi meno ricordati, spesso minimizzato o addirittura ignorato nelle commemorazioni dell’Olocausto. In lingua romanì, questo sterminio è chiamato Samudaripen, che significa genocidio o sterminio.
Nel 1949, Žarko Jovanović scrisse Gelem Gelem, una canzone diventata poi l’inno del popolo rom, adottata durante il Primo Congresso Mondiale Rom svoltosi a Londra nel 1971. È una canzone che nasce dal dolore dello sterminio, ricordando l’uccisione da parte della Legione Nera di intere famiglie di rom e sinti, dei bakhtale Romensa (Rom felici).
L’unità nel ricordo e la forza di costruire una nuova storia con la comunità rom e sinta al centro sono essenziali per riconoscere il sistema repressivo della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo durante i processi di Norimberga la voce della comunità non fu ascoltata e non furono concessi risarcimenti, se non in tempi recenti, a pochi eredi coraggiosi che hanno sfidato le leggi. Inoltre, il genocidio della comunità rom e sinta, non fu riconosciuto come tale su base razziale, bensì biologica: i rom e i sinti erano considerati “asociali” e quindi pericolosi, a differenza degli ebrei il cui genocidio viene riconosciuto su base etnica.
Grazie all’unione delle voci, della memoria e dell’attivismo della comunità, sono stati fatti passi importanti: il riconoscimento ufficiale da parte della Germania nel 2001, quello dell’UNESCO nel 2011 come genocidio reale e, infine, nel 2015 dal Parlamento Europeo. In Italia, però, manca ancora un riconoscimento nazionale pieno del 2 agosto, e raramente la comunità rom e sinta viene coinvolta nelle commemorazioni del 28 gennaio, la Giornata della Memoria, nonostante migliaia di famiglie fossero rinchiuse in campi di lavoro e numerosi partigiani rom e sinti abbiano sacrificato la vita per la Liberazione.
La memoria degli eventi storici dovrebbe servire a evitare il ripetersi degli eventi. Ma per ricordare bisogna conoscere e riconoscere.
Nel 1999, durante la guerra in Kosovo tra le forze serbe di Milošević e gli albanesi kosovari dell’UCK, la comunità rom fu nuovamente vittima, non voluta da nessuna delle parti. Accusati di spionaggio, collaborazionismo o complicità, furono soggetti a una pulizia etnica. Interi quartieri furono distrutti, ci furono cacce all’uomo e l’allontanamento forzato di migliaia di famiglie.
Su circa 100mila rom, ashkali ed egiziani, ne rimasero meno di 10mila, molti dei quali uccisi o costretti alla fuga, apolidi e tuttora marginalizzati in Europa occidentale e nei Balcani. Non furono attuati programmi di reintegrazione per i rom kosovari da parte di UNMIK e KFOR e molte famiglie furono confinate in campi situati vicino a miniere di piombo tossiche (Cesmin Lug, Osterode, Kablare), dove rimasero per più di dieci anni esposte a un avvelenamento da piombo, un crimine ambientale e umanitario perpetrato sotto l’egida dei caschi blu dell’ONU.
Anche questo è stato un genocidio, secondo Amnesty International, ancora non riconosciuto ufficialmente, senza risarcimenti né condanne.
Da diversi anni, il 2 agosto, esiste una commemorazione annuale del genocidio e una conferenza giovanile, Dikh He Na Bister (“Guarda e non dimenticare”) ad Auschwitz- Birkenau, i sopravvissuti rom scelgono di aprirsi con i giovani, raccontando le loro storie, e le esperienze vissute.
Swami della Garen, di Yacka Collective, un collettivo trans-femminista intersezionale di attiviste rom e sinte in Italia, anche quest’anno è tornata, perché “È fondamentale esserci per vedere con i propri occhi cosa è accaduto 80 anni fa alla nostra comunità, per sentire la storia e viverla. Essere presenti è importante per ricordare e far ricordare che ciò che è successo è il risultato di un odio secolare che continua ancora oggi, in forme implicite o esplicite. Lo sterminio dei rom e dei sinti durante la Seconda Guerra Mondiale è spesso ignorato, dimenticato o nascosto. Ricordare significa quindi portare alla luce verità negate e dimenticate”.
Ricordare, per Swami e il collettivo di cui fa parte, è soprattutto un “atto di resistenza, perché apre la strada a un futuro di consapevolezza e lotta. Oggi, resistere significa comprendere che ciò che è successo non è stato un fatto disumano lontano da noi, ma una realtà che può ripetersi e che, purtroppo, si sta ripetendo”.
La comunità rom e sinta in Europa continua a essere la minoranza più presente, e più discriminata, con politiche oppressive e in alcuni casi repressive. La poca memoria collettiva del passato della comunità rom e sinta, spesso non è passata nemmeno per i libri di storia, ma tramite testimonianze dirette di sopravvissuti alle ondate di odio, razzismo, ai genocidi passati, e alle violenze quotidiane da parte delle autorità e dei partiti politici. Ma la memoria collettiva è responsabilità di tutti.
Gelem Gelem si conclude con un auspicio di rinascita e unità:
Ake vriama, usti Rom akana, Men khutasa misto kai kerasa ovvero “È il momento, alzatevi ora, ci eleveremo, se agiamo insieme”.
La memoria e l’azione comune come forma di resistenza ed esistenza, per riconoscere i genocidi silenziosi del passato e per far sì che non ci siano altri genocidi silenziosi non riconosciuti.
Questo articolo è stato prodotto nell’ambito di “MigraVoice: Migrant Voices Matter in the European Media”, progetto editoriale realizzato con il contributo dell’Unione Europea. Le posizioni contenute in questo testo sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni dell’Unione europea.
Tag: MigraVoice | Minoranze











