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Il futuro dei rapporti Ue-Balcani

Il rilancio sull’integrazione UE dei Balcani, i rapporti con la Turchia in piena regressione autocratica, l’Europa a più velocità. Un’intervista a Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)

13/12/2017, Andrei Cheta Florica -

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Nathalie Tocci - www.securityconference.de

Il 2018 sarà, probabilmente, un anno decisivo per i Balcani. Entro febbraio, infatti, dovremmo avere una nuova strategia dell’Unione verso i Balcani. Potrebbe già darci qualche anticipazione?

È difficile dare già qualche indicazione precisa perché è tutto ancora in via di sviluppo. Come è stato annunciato fin dall’inizio dal presidente della Commissione Juncker, non ci saranno nuovi allargamenti prima della conclusione dell’attuale mandato, quindi l’adesione è ancora un work in progress.

Detto ciò, per l’Alto Rappresentante e, in generale, tutta la Commissione e gli stati membri, è fondamentale immaginare che i Balcani Occidentali entrino nell’Unione Europea.

Alcune cose si possono comunque dire sulla nuova strategia. Innanzitutto che vi è l’obiettivo di rendere irreversibile – se si può parlare di “irreversibilità” in politica – il processo di adesione.

Che cosa può significare questa irreversibilità? Può voler dire tante cose: può voler dire, sicuramente, cercare di aprire un numero tale di capitoli da far sì che la stragrande maggioranza del lavoro sia fatto. Questo è sicuramente un obiettivo. Il secondo obiettivo è in parte collegato al primo, al fatto che non ci sarà un’adesione nei prossimi 3 o 4 anni: in 4 anni, come abbiamo già visto l’anno scorso in Macedonia, possono succedere tante cose e spesso e volentieri le cose possono andare storte. L’obiettivo è dunque quello di rafforzare la cooptazione pratica e concreta dei paesi dei Balcani Occidentali in modo tale da mantenerne viva la fiamma dell’adesione.

Gli eventi dell’anno scorso in Macedonia sono stati un campanello d’allarme per l’Unione. Mentre per tanti anni abbiamo dato per scontato che, pur lentamente e con tanti ostacoli lungo il percorso, ma comunque con una chiara direzione di marcia, i Balcani Occidentali si stessero dirigendo verso un’europeizzazione, una democratizzazione e una modernizzazione, dall’anno scorso ci siamo resi conto che gli eventi potrebbero anche prendere una direzione molto diversa.

Quindi si cercherà di rafforzare la cooperazione pratica e concreta con questi paesi su tutta una serie di questioni che possono riguardare l’economia, le migrazioni o anche l’energia.

Altro elemento potrebbe essere quello di cercare di accelerare ulteriormente il processo di riconciliazione Serbia-Kosovo e, anche senza dover per forza arrivare necessariamente ad un punto definitivo, cercare di fare dei passi evidenti in avanti.

Poi, come altro elemento, sottolineerei il tema della comunicazione strategica: una cosa che ha molto colpito in Europa è la percezione abbastanza diffusa nella regione, soprattutto in Serbia (ma non solo), che la Russia investa più dell’UE nei Balcani Occidentali. Ovviamente non è vero.

L’Unione europea deve quindi preoccuparsi della presenza della Russia e della Cina nei Balcani? Può al contrario essere un’occasione di cooperazione?

La presenza cinese è senza dubbio un punto di incontro. L’Unione europea vede di buon occhio il fatto che ci siano interessi cinesi nella regione. Quello che è importante per l’Unione europea è che la Cina non utilizzi il suo intervento nella regione per esercitare il divide et impera, sia all’interno della regione stessa, sia rispetto all’UE.

Per fare un’analogia che non riguarda i Balcani ma che riguarda l’UE di per sé, un approccio poco costruttivo è quello che ha portato al modello del 16+1 in cui la Cina sceglie a proprio piacimento un numero di paesi per portare avanti un certo tipo di cooperazione nei suoi interessi economici.

Quando si parla di Russia, invece, il discorso è molto diverso. È evidente che i Balcani occidentali siano un terreno di rivalità tra la Russia e l’UE, ed è altrettanto evidente che la Russia non sostenga un’europeizzazione della regione. Dunque, è molto più difficile immaginare reali punti di incontro tra la Russia e l’UE.

Dopo la grave crisi finanziaria e le divisioni emerse sulla questione migranti, si può dire che vi sia un declino del potere trasformativo e attrattivo dell’UE? Fino a che punto questo può  incidere negativamente sulla volontà di adesione dei Balcani Occidentali?

Direi che l’impatto negativo sul potere trasformativo dell’Unione Europea sarebbe dovuto essere molto più grande di quello che realmente è stato. L’entità dell’impatto negativo dipende dalla propria base di principi e di valori. Se mi venisse chiesto come ha inciso la crisi dei migranti sulla mia percezione dell’Unione Europea, risponderei che ha avuto un impatto devastante. Nel senso che ho visto un’Unione Europea, o meglio, una configurazione di stati membri dell’Unione Europea che per certi versi incute paura. Quindi ha avuto un impatto rilevante sul mio giudizio a proposito dell’UE.

Se però mi si chiede che impatto ha avuto sui paesi dei Balcani Occidentali la risposta è che dipende da come le logiche e la narrazione sul tema della migrazione che prevalgono nell’UE si sposano con quelle presenti nei Balcani occidentali. Purtroppo probabilmente anche all’interno dei Balcani occidentali stessi la narrazione sulla migrazione non è delle più illuminate. Quindi l’impatto non è stato così negativo, ma semplicemente perché anche i Balcani Occidentali hanno tanta strada da fare su questo tema, così come del resto noi tutti.

La Strategia Globale dell’Unione europea ha da poco compiuto un anno. In essa si parla molto spesso di “resilienza” e di sicurezza. Come definirebbe la resilienza e, nel concreto, cosa è stato fatto e cosa si intende ancora fare nella promozione della resilienza nell’area balcanica e nella cooperazione in materia di sicurezza nel senso più ampio del termine?

La resilienza la definirei come “la condizione di uno stato e di una società di trasformarsi in modo tale da rispondere o reagire ad attacchi, crisi e shock”. Uso volutamente il termine “trasformarsi” perché il punto di fondo che è importante capire è che è l’esatto opposto di un approccio securitario di stabilizzazione (quando nei Balcani si parla della cosiddetta “stable-ocracy”). Il tema non è promuovere una stabilità fittizia, una stabilità non sostenibile, perché qualcosa di sostenibile è qualcosa che cambia.

Quello che si dice nella Strategia Globale è che anche noi europei dobbiamo levarci le nostre lenti eurocentriche e dobbiamo renderci conto che ci possono essere vari modelli. L’importante è che questi modelli rispecchino alcune condizioni e alcuni principi che vanno dalla partecipazione politica all’accountability, alla legittimità, al fatto che lo stato provveda a determinati servizi per i propri cittadini – tutta una serie di condizioni di sostenibilità che sono presenti in una democrazia liberale ma che potrebbero essere presenti anche in altri sistemi.

È chiaro che esiste una dimensione di sicurezza, però altrettanto importanti sono la dimensione socioeconomica, la dimensione sociopolitica, quella di adattamento e mitigazione al cambiamento climatico, la dimensione energetica, la dimensione sociale e via dicendo.

Come si applica la Strategia Globale nella regione? Ripeto, accelerando il processo di adesione – l’apertura e la chiusura dei capitoli – e contemporaneamente mettendo in piedi tutta una serie di forme di cooperazione che aumentino e rafforzino la resilienza sociale, climatica, energetica, politica ed economica nei paesi della regione.

Quindi si può ancora parlare di “europeizzazione” come avveniva nella precedente strategia?

In questa regione si può parlare di europeizzazione. Quando si parla di altre regioni ci siamo resi conto che non tutti vogliono diventare come l’Unione Europea e che non tutti vogliono entrarvi. All’inizio degli anni 2000 pensavamo di vivere in un certo mondo e ora ci siamo resi conto che in quel mondo non ci viviamo più. Detto ciò, non passiamo da un eccesso all’altro: nel caso dei Balcani Occidentali c’è una loro volontà di europeizzazione. Non siamo noi ad imporre qualcosa ma una domanda che viene da loro. A questa domanda bisogna rispondere in tempi brevi e con convinzione, senza limitare il coinvolgimento alle sole istituzioni europee e ai “soliti noti” tra gli stati membri che hanno interessi nei Balcani Occidentali, bensì includendo politicamente tutti gli stati membri. Se non c’è questo coinvolgimento e questo sforzo politico e istituzionale, allora alla domanda di europeizzazione che viene dalla regione non c’è risposta.

Lei ha più volte affermato che la Turchia è un paese molto importante per l’Unione europea. Ma come affrontare la deriva autoritaria del paese? Ora i negoziati sono di fatto sospesi. Vede qualche possibilità di ripresa?

È evidente che abbiamo fatto un pessimo uso degli strumenti che esistevano all’inizio degli anni 2000. Facendo una fotografia del 2017 ci accorgiamo che quegli strumenti non li abbiamo più, e che quindi non abbiamo più modo di cambiare la direzione di marcia della Turchia. Cosa implica tutto questo? E cosa dovremmo fare? Dovremmo sospendere il processo di adesione? La mia posizione è: non adesso. Assicuriamoci prima di avere un’alternativa, un’alternativa che sia un quadro contrattuale ancorato nelle regole e non puramente un rapporto di transazioni.

Proprio perché sono convinta dell’importanza della Turchia per l’Unione europea mi metterebbe molta paura una situazione in cui il rapporto con questo paese venisse governato solo, ad esempio, dallo stato dell’accordo sui migranti, della cooperazione in materia di antiterrorismo o magari di qualche accordo energetico. Quel tipo di rapporto sarebbe pura transazione, totalmente priva di principi e di valori.

È vero che l’attuale processo di adesione è stato svuotato dai suoi contenuti, che è una formalità, però io cercherei di mantenere viva questa formalità, questa farsa, per avere il tempo di costruire una base contrattuale alternativa. Sto pensando ad esempio ad un upgrade dell’unione doganale che coinvolga questioni come servizi, approvvigionamento, aiuti statali, risoluzione delle dispute commerciali e via dicendo. Sono tutte questioni che entrano nel vivo dell’economia politica di un paese, che toccano temi profondi. Forse non così ampi e profondi come il processo di adesione, ma è meglio questo di un rapporto governato semplicemente da un accordo sui migranti e la cooperazione antiterrorismo.

Ritiene che l’Europa a più velocità possa rappresentare una risposta alle divisioni e alle difficoltà attuali? I timori in paesi come la Romania sono quelli di essere considerati membri di seconda categoria. Quali rassicurazioni potrebbero ricevere?

Ci sono due tesi. Una tesi è che la differenziazione porta alla frammentazione, a forze centrifughe, a paure di discriminazione e di trattamenti di seconda classe. Una seconda tesi è che la differenziazione in un’Europa a 27 e, in prospettiva di un’adesione dei Balcani Occidentali, in un’Europa ancora più numerosa, sia diventata una condizione necessaria per l’integrazione. Semplicemente perché è un concetto che rispecchia il fatto che all’interno di un’unione così ampia ci sono delle differenze, delle differenze che devono essere rispettate e rispecchiate all’interno delle istituzioni.

Questo però significa che, se si prende questa seconda via, la scelta della posizione in cui stare deve essere del paese stesso. Senza imposizioni. Non possono essere Francia e Germania, per intenderci, a decidere se la Romania può o non può stare dentro ad un determinato ambito di integrazione. Sta alla Romania stessa decidere se entrarci oppure no. Chiaramente, se sceglie di starci, deve prendersi onori ed oneri.

Per fare un esempio, per quanto riguarda Schengen io ho una posizione molto dura, per cui se un paese vuole farne parte deve accettare le quote di ricollocamento dei migranti. Non si possono avere dei benefici senza pagarne i “costi”. Potrei fare un discorso simile sulla difesa. Alcune settimane fa è stata lanciata la PESCO (Cooperazione Strutturata Permanente) con una notifica di 23 stati membri – 25 tra un paio di settimane. Questi paesi hanno notificato e, dunque, hanno sottoscritto una serie di impegni che sono, tra l’altro, abbastanza onerosi. Se quegli impegni non vengono rispettati, allora non si può restare dentro il club.

La mia posizione è sì alla differenziazione perché sono convinta che in un’unione così ampia sia l’unico modo per tenere insieme le cose e perché credo che rispecchi le differenze delle volontà democratiche dei singoli stati membri. La scelta riguardo a dove stare spetta allo stato stesso e, se ci sta, deve prendersi il pacchetto completo.

 

* Nathalie Tocci è direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, professoressa onoraria all’Università di Tübingen e Special Adviser dell’Alto rappresentante Mogherini sulla nuova strategia di politica estera dell’Unione europea.

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