Il fascino discreto dell’Europa
Il lungo viaggio nelle transizioni dopo il 1989. Dal crollo del Muro di Berlino alle nuove guerre, la vittoria dei nazionalismi e la trasformazione del progetto europeo. Nostro commento
Il processo di transizione dei Balcani è come una cena. Quella del Fascino discreto della borghesia (1). Gli invitati cercano di sedersi a tavola, ma non ci riescono. L’azione non arriva mai a compimento, l’evento viene sempre procrastinato. L’azione diventa l’attesa.
Questa attesa dura ormai da vent’anni, il tempo che ci separa dal crollo del Muro di Berlino. La fine della divisione del mondo in blocchi ha significato anche la fine della Jugoslavia, e l’utopia che ha accompagnato lo Stato nato e morto nel ‘900 (2) avrebbe dovuto essere rapidamente sostituita dalle magnifiche sorti e progressive del processo di integrazione europeo. Tranne che per la piccola Slovenia, però, il sogno non si è realizzato. E nel percorso sono cambiati gli attori, il tavolo, le pietanze. Tanto che è lecito chiedersi: transizione verso dove?
L’azione di questa attesa sono stati dieci anni di guerre. Combattute non solo da serbi, albanesi, croati e musulmani, ma anche da americani, da altri europei, caschi blu, Nato e mercenari (3). La rappresentazione di queste guerre nella nostra pubblicistica è stata talmente viziata dal pregiudizio (le tribù balcaniche che si scannano per i loro odi atavici) da farci perdere di vista, anche dopo anni, la domanda fondamentale per capire il presente. Chi ha vinto?
Per capire in che modo siano cambiati i Balcani e l’Europa, per orientarsi nel labirinto della transizione, è da qui che bisogna partire. Chi vince una guerra infatti – una guerra così lunga e disastrosa – proietta la propria aura su tutto il dopoguerra, plasma il dibattito pubblico, si replica antropologicamente ben oltre i confini entro i quali si è combattuto.
In questi giorni si è aperto all’Aja il processo a Radovan Karadžić. Nonostante il rito giudiziario che invoca la catarsi, è lui il vincitore. Lui e quelli come lui. La Bosnia Erzegovina di oggi assomiglia terribilmente all’idea che ne aveva il leader serbo bosniaco che oggi rifiuta di presentarsi in aula e che, all’inizio della guerra, minacciava il popolo musulmano di starsi avviando "verso l’estinzione". E il problema ovviamente non è solo bosniaco. Il Kosovo è (quasi) del tutto monoetnico, i serbi di Croazia non sembrano ansiosi di voler tornare nelle proprie case (e sono passati 14 anni dall’operazione Oluja) e così via.
Hanno vinto loro. Ha vinto la pulizia etnica, il razzismo, il fascismo. La violenza dell’attacco portato contro le donne e contro disertori e oppositori all’interno di ogni schieramento, la sconfitta delle Nazioni Unite (Srebrenica), hanno prodotto conseguenze incalcolabili. Non sono cambiati solo i Balcani. E’ cambiata l’Europa (4).
Il progetto europeo si è sempre nutrito di due componenti. Da un lato l’Europa politica, l’Europa "libera e unita" di cui scrivevano Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi a Ventotene, prefigurando una vera e propria unione federale a livello continentale. Dall’altro l’Europa economica, una grande area di libero scambio cui aderiscano tante piccole e grandi patrie, ognuna delle quali libera di conservare gelosamente le proprie prerogative nazionali.
All’indomani del crollo del Muro, molti si auguravano che la speranza della riunificazione del continente e la liberazione dall’incubo della Guerra Fredda potesse significare la ripresa del progetto di costruzione di un’Europa politica, superando le incertezze della prima fase del percorso europeo. Non è avvenuto. Anzi, a distanza di venti anni possiamo sostenere che è avvenuto il contrario.
Il violento processo di frammentazione statuale nel Sud Est è infatti progredito parallelamente al declino del progetto di Europa politica, secondo una ambivalente relazione di causa-effetto. Da un lato la vittoria dei nazionalisti è riverberata ben oltre lo spazio balcanico, dall’altro il messaggio inviato alle élite politiche della regione da un’Europa di Stati-nazione era chiaro: per entrare nell’Unione meglio dividersi.
Il lungo processo di frammentazione dell’area ex jugoslava, iniziato nel 1991, potrebbe non essersi ancora concluso. Le direttive della politica europea, però, non sono mutate.
La posizione assunta dall’Unione a fronte delle crisi esplose nello spazio europeo è stata infatti sempre coerente. Ha seguito il mutato clima politico, evolvendo da una iniziale afasia – che ha contraddistinto tutta la prima fase della crisi in ex Jugoslavia – ad una politica di riconoscimenti in ordine sparso delle nuove Repubbliche, fino alle più recenti politiche di allargamento rivolte ai Paesi della regione.
Gli strumenti principali sin qui utilizzati da Bruxelles nell’area ex jugoslava, gli Accordi di Associazione e Stabilizzazione come primo gradino verso la candidatura e infine l’adesione, rivelano infatti un approccio tutto basato sui negoziati con i singoli Stati che continua a prescindere dalla dimensione regionale. A fronte di processi transnazionali che mostrano una forza sempre maggiore, in particolare sul terreno dell’illegalità e della costruzione di reti criminali, l’UE non sembra più in grado di contrapporre un proprio transnazionalismo (5).
La storia di questi anni sembra mostrare un volto chiaro al presente. Con il 1989 l’Europa "ha avuto un’occasione storica per divenire un soggetto più forte, ma questa occasione non è stata colta. Il momento per una soggettività forte europea, a livello internazionale, evidentemente non è ancora giunto (6)".
La cena continua, ma non è più chiaro chi sia l’ospite.
(1) Luis Buñuel, 1972
(2) Di dove sei?
Della Jugoslavia.
È un paese che esiste?
No, ma io vengo da lì
(cit. in Dubravka Ugrešić, "La confisca della memoria", Romanzo balcanico, di Abdulah Sidran, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2009)
(3) v. Mary Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci editore, 1999
(4) L’Europa dell’89 era più forte … Non perché fosse forte in sé, ma perché la fiducia in quel progetto era più forte (Il muro e le mura, intervista a Fatos Lubonja, di Marjola Rukaj e Davide Sighele, Osservatorio Balcani e Caucaso, 4 giugno 2009)
(5) v. Europeanizing the Balkans: Rethinking the Post-communist and Post-conflict Transition, di Denisa Kostovicova & Vesna Bojicic-Dzelilovic, Department of Government/DESTIN and Centre for the Study of Global Governance, London School of Economics and Political Science, UK
(6) Il crollo. Intervista a Rada Iveković, di Andrea Rossini, Osservatorio Balcani e Caucaso, 4 marzo 2009