Il doppio di Daša Drndić
La scrittrice zagabrese Daša Drndić ci regala ancora una volta una prosa avvolgente, incalzante, a tratti ossessiva, ricca di iterazioni e analogie. "Il doppio" è un romanzo dall’articolata e sofisticata struttura narrativa
Sul complesso e intrigante tema del “doppio” la letteratura ottocentesca ha offerto una dovizia di variazioni – da Andersen a Wilde, da Poe a Dostoevskij, per citarne solo alcuni ‑, consegnando alla psicoanalisi un topos narrativo che più di tutti Otto Rank seppe cogliere nella sua contraddittoria consistenza e nelle sue paradossali implicazioni: percepibile soltanto dal legittimo titolare, l’inaggirabile immagine speculare di sé, perennemente al proprio fianco, condanna il soggetto al fallimento esistenziale, coronandone i desideri più segreti e inconfessabili, e trascinandolo al tempo stesso verso un epilogo tragico. Sopprimere il Doppelgänger, il “viandante doppio”, significa infatti uccidere se stessi, perché in quel cammino parallelo c’è il senso stesso del proprio stare e incedere nel mondo.
È intorno a questo nodo concettuale che si sviluppa uno dei più audaci e riusciti esperimenti letterari della zagabrese Daša Drndić, docente di Anglistica presso l’università di Fiume e autrice di successo con alle spalle una decina di romanzi, cui si aggiungono vari saggi, testi teatrali e radiodrammi. Si tratta del suo secondo libro tradotto e pubblicato in Italia. I lettori italiani hanno infatti avuto modo di apprezzarne le straordinarie doti di scrittrice tre anni fa, grazie a quel monumentale “romanzo documentario” che è Sonnenschein (2007), cui l’editore Bompiani ha voluto inopinatamente dare, sulla scorta della versione inglese, lo scialbo titolo di Trieste, riscattandosi però con l’ottima traduzione di Ljiljana Avirović (Trieste, Bompiani 2015, pp. 448, € 19).
L’opera, recente finalista al Premio Von Rezzori, è anch’essa un ardito esperimento che ripercorre gli orrori del Novecento attraverso una vicenda privata, quella della famiglia ebrea goriziana dei Tedeschi. Qui la finzione si incunea come un torrente carsico tra i sedimenti della Storia e il tessuto narrativo, perfetto connubio tra abilità cesellatoria e respiro epico, prende corpo da una messe di materiali indiziari, quali lettere, testimonianze fotografiche, alberi genealogici, verbali di interrogatori, orari ferroviari, spartiti musicali e sterminati elenchi di nomi, perché «dietro ogni nome c’è una storia»: spetta alla letteratura sottrarla all’oblio e farla riecheggiare direttamente dall’oscurità. Impossibile non scorgere in questo procedimento, e in questa autentica missione, quasi il lascito testamentario di un colosso della letteratura jugoslava ed europea quale Danilo Kiš.
A oltre quindici anni dalla sua pubblicazione in lingua originale, Doppelgänger ‑ così si intitola paradigmaticamente una delle opere precedenti di Drndić ‑ vede finalmente la luce in edizione italiana all’interno della preziosa collana di narrativa straniera “Oltre Confine”, diretta da Diego Zandel, che dà ampio e meritorio spazio alle più originali voci della letteratura croata contemporanea. Il doppio (trad. Barbara Ivancić, Oltre Edizioni, pp. 181, € 16) è solo in apparenza la composizione di due racconti, in realtà – lo si scopre solo verso la fine – si tratta di un romanzo dall’articolata e sofisticata struttura narrativa.
Nel primo racconto, Artur e Isabella, ritroviamo, in forma liofilizzata, tutti gli ingredienti del genere “romanzo documentario”, che vedrà appunto in Sonnenschein la sua definitiva consacrazione, al punto da sembrarne una sorta di outline. Nel tratteggio dei due protagonisti – lui un capitano in pensione dell’ex Marina militare jugoslava, appassionato di cappelli («Artur adora i suoi cappelli, non potrebbe farne a meno. Nei suoi cappelli c’è la sua storia. E il suo presente»), lei una sopravvissuta alla Shoah con una predilezione morbosa per i cioccolatini («dentro i cioccolatini c’è sempre un piacere diverso ad attenderla») – affiora in tutta la sua crudezza la condizione della vecchiaia, depurata da ogni sfumatura elegiaca o retorica, e ridotta a un concentrato di solitudine, consunzione e incontinenza.
L’incipit, del resto, è una preventiva e inappellabile messa in guardia da ogni rappresentazione edulcorante: «Oh, s’è cagato addosso». La vecchiaia diventa così un confine estremo che si dilata, una sorta di Capo Finistère cui giungono, dopo un lungo e turbolento percorso, i due viandanti doppi, «il punto dove la terraferma si trasforma in mare, lo stato solido in quello liquido, l’esistenza in inafferrabilità». Esistenze peraltro irregolari, quelle di Artur e Isabella. Entrambi sono infatti attenzionati dalle autorità, ed è proprio da dossier e verbali di Polizia che veniamo a conoscere il loro passato, in un’accanita serie di dettagli in cui sembra risuonare in sottofondo un coro di sommersi e salvati. E su entrambi incombe una tragica sorte parallela, quasi simultanea, non prima di aver soddisfatto, goffamente e voluttuosamente, un vibrante desiderio carnale, un’esiziale pulsione di vita.
Stesso leitmotiv per il secondo racconto, molto più lungo, dal titolo Pupi, che segue le vicende di due altri anziani: Ernestina, cantante lirica sovrappeso condannata a una pietosa agonia, e il marito Rikard Dvorsky, ex chimico nonché collaboratore dei servizi segreti jugoslavi. Hanno due figli dai nomi nobili, ma dalle vite tutt’altro che fastose. Herzog è accidioso e vorace in tutti i sensi, mentre Printz, il vero protagonista del racconto, è un uomo mite quanto inconcludente, docile e autodistruttivo come i due rinoceronti che è solito contemplare allo zoo di Belgrado, i suoi due autentici “doppi” in carne e ossa. Ha rifiutato il latte materno, ma il latte diventerà poi per lui un nutrimento compulsivo. I genitori gli lasciano in eredità un diario su cui hanno annotato pedissequamente ogni singola spesa domestica, e che lui va avanti a riempire di nomi e date registrati in modo maniacale e tenuti insieme da una tassonomia del tutto personale. Dopo un tentativo naufragato, e non si sa quanto sincero, di prendere parte alla difesa della città natale del padre, Vukovar, devastata dalla guerra fratricida («non è una guerra terribile, è una guerra piccola, finirà presto», si sente dire intorno), la sua esistenza perde via via contatto con i contorni reali, diviene ostaggio del “perturbante”, si riduce a un accumulo di proiezioni del Sé e in una ricerca spasmodica di personaggi storici più o meno noti con cui mettere alla prova precari tentativi di immedesimazione: altro non è se non una confusa, disperata ricerca di se stesso.
Medici, pasticceri, musicisti, scrittori: tutta gente finita in manicomio o morta suicida. In una lenta, progressiva e inesorabile degenerazione mentale e materiale, la sua identità tangibile, quella di clochard che veste abiti eleganti e firmati, ma logori e sudici, finisce stipata dentro a una Samsonite: tutto il resto è spaesante, delirante immaginazione. Il doppio, più che una scissione o una dissociazione dell’Io, è qui un’incorporazione di vite altrui, una continua esplosione in testa di piccole, indolori, quasi insignificanti storie, che va a creare un intarsio di destini e un persistente legame tra presente e passato. Il doppio non fa sconti, non allenta la presa: il destino di Printz verrà beffardamente quanto inevitabilmente a convergere in quello dei due rinoceronti ridotti in cattività.
Per il tramite della pregevolissima traduzione di Barbara Ivancić, Daša Drndić ci regala ancora una volta una prosa avvolgente, incalzante, a tratti ossessiva, ricca di iterazioni e analogie, in un alternarsi, spesso volutamente dissonante, tra la terza e la prima persona narrante.
La sua scrittura è un vero e proprio corpo vivo e pulsante, genera un flusso di vicende e personaggi realmente esistiti e immaginari, le cui flebili tracce, seguite con la stessa pervicacia di un investigatore, vanno a comporre trame ellittiche, percorsi narrativi multipli che si intersecano in dettagli solo apparentemente marginali, in biografie solo apparentemente anonime. Quasi a indicare il vero compito della letteratura: conservare la plurivocità della memoria in un sussulto di eternità, lavorare sugli scarti della Storia riavvolgendone i fili, restituire forma e destino alle ombre strappandole alla dimenticanza, quelle stesse ombre nelle quali ciascuno di noi scopre il suo “viandante doppio”, che è molto più di un alter ego. A fare da contrappunto all’incipit, lo struggente e forsennato finale del romanzo, un vero e proprio requiem, culmina in una battuta che ha tutta la forza di un memento: «La morte è superflua. La morte è del tutto superflua».