Il dopoguerra nelle memorie delle città
Luoghi, segni, ricordi. Il dialogo visivo tra lasciti delle guerre e ricostruzione a Belgrado, Mostar e Sarajevo. E’ il tema di "Urbicidio", una ricerca di Francesco Mazzucchelli su alcune città simbolo della ex-Jugoslavia. Nostra recensione
Era un edificio grigio, brutto e cadente, il palazzo abbandonato e semi-bruciato dell’Energoinvest a lato del Municipio di Srebrenica. Eppure per chi mi parlava era un caro ricordo. "Lì attorno ci ho passato gli anni della mia giovinezza, durante l’assedio. Non posso credere che l’abbiano abbattuto".
Mi tornano in mente ora queste parole e la discussione accesa di quella sera tra chi era stufo di vivere in mezzo alle rovine della guerra e chi non voleva perdere le tracce personali e collettive dell’atrocità vissuta. Mi tornano in mente leggendo "Urbicidio. Il senso dei luoghi tra distruzioni e ricostruzioni nella ex Jugoslavia" di Francesco Mazzucchelli, ricercatore al Dipartimento Discipline della Comunicazione dell’Università di Bologna. Di questo infatti tratta la ricerca, di ciò che resta nei panorami visivi delle città dopo la guerra, e di come la ricostruzione vi si rapporti.
Il testo apre con alcuni capitoli di teoria semiotica, perché il tema del rapporto fra lo spazio e la memoria di eventi traumatici percorre la storia, e su di esso sono state sviluppate ampie riflessioni. La ricostruzione assume sempre un valore politico e ideologico, mette in risalto qualcosa ed occulta dell’altro. La scelta di mantenere alcuni segni delle distruzioni negli edifici recuperati, oppure di cancellarli, ne è un esempio. "Da un’idea di restituzione fedele di una memoria passata […] approdiamo così ad una concezione del restauro come interpretazione e rilettura di un ‘passato al presente’ ".
La parte per me più interessante però è quella dei casi concreti. Mazzucchelli si concentra su tre città in particolare, colpite in modi e tempi diversi dalle guerre degli anni novanta. All’interno di ciascuna trova esempi differenti su come viene affrontato il tema della ricostruzione, segno che varie sono state le strategie esplicite o anche inconsapevoli dei diversi attori cittadini. L’autore le registra con un’indagine etno-semiotica sul campo, attraversando le tre città e rilevando immagini e comportamenti sociali legati agli spazi significativi per la memoria urbana. Quella che un po’ manca è la restituzione, forse per un problema linguistico o forse perché proprio assente, del dibattito tra intellettuali e accademici locali. In compenso l’attraversamento sul campo offre sguardi interessanti e nuovi anche a chi frequenta queste città abitualmente, a partire dalla ricostruzione della loro evoluzione storico-geografica.
La prima tappa è Belgrado, dove la guerra non è stata devastazione diffusa ma distruzione "chirurgica" dei missili Nato su alcuni edifici simbolo, come i Ministeri lungo Kneža Miloša, la sede della televisione o quella del Partito socialista. Tre simboli cui sono corrisposte tre diverse politiche di intervento post-bellico: il mantenimento delle rovine abbandonate in Kneža Miloša, con la sola posa di transenne chiuse, quasi un monumento naturale a ricordare l’aggressione subita; la ricostruzione del palazzo della televisione, lasciandovi un’ala distrutta e posando alcune targhe in ricordo dei civili morti; il totale rifacimento del palazzo ex sede del Partito socialista (e in precedenza di quello comunista titino), ora convertito ad uno stile post-moderno e commerciale.
Anche Sarajevo è un esempio di come il conflitto tra memorie storiche non sia limitato ad un binomio pre/post-guerra, ma riguardi una stratificazione più complessa che richiama le varie epoche succedutesi: ottomana, austro-ungarica, comunista… Qui la considerazione più evidente è che la ricostruzione, almeno quella ufficiale promossa dalle nuove autorità, tende ad accentuare una dimensione parziale e mono-culturale della città. Così la frattura orizzontale fra il centro e la periferia orientale, divisione anche amministrativa fra il centro città e il quartiere "serbo", ha sostituito quella verticale fra le mahale in collina e la čaršija di fondovalle. Creando due mondi separati fin nei dettagli più banali, ma significativi: se nel resto del Paese chiedete una corriera per Sarajevo, la maggioranza dei musulmani conosce solo gli orari per la stazione centrale, la maggioranza dei serbi solo quelli per la stazione est.
Ma emerge anche un’altra frattura storica, con la ricostruzione che si concentra e fa risaltare l’anima islamica di Sarajevo a scapito della sua multiculturalità. Spiccano così l’omogeneizzazione estetica della Baščaršija, il bazar centrale principale meta turistica della città, o l’architettura molto più visibile e slanciata assunta dalle moschee, abbandonando lo stile sobrio tradizionale dei Balcani. Più in generale si coglie una "tendenza estetica ‘islamizzante’ diffusa […] ad esempio nei numerosi pseudo-restauri ‘in stile’ […] che violano palesemente i canoni dell’estetica del periodo ottomano ma la reinterpretano, producendo un falso storico che però ‘diffonde’ una lettura contemporanea dello stile ottomano".
Infine Mostar e la sua memoria divisa. Qui non c’è stato un assedio delle periferie verso il centro, come a Sarajevo, ma la guerra è entrata in città e ne ha spaccato il tessuto. Molto spazio viene preso dal simbolo principale, il Ponte Vecchio, e dal dibattito attorno alla sua ricostruzione ed al significato che essa ha assunto per i mostarini. "Novo stari most (il nuovo ponte vecchio): così, con la consueta ironia balcanica, l’hanno ribattezzato, scoprendo le ipocrisie insite in ogni intervento di restauro che, fingendo di replicare l’oggetto, ne crea uno nuovo".
Interessante però anche l’analisi degli altri spazi urbani creati dalla guerra, e confermati dalla ricostruzione e dalla fruizione sociale separata che tuttora persiste: la parte ovest croata, quella est musulmana, lo spicchio serbo, la città vecchia ricostruita e tutelata dall’Unesco con il tentativo di cancellare artificiosamente le divisioni. E soprattutto dei luoghi di frontiera fra le diverse aree, come Spanski trg (Piazza degli spagnoli). È qui che "bisogna guardare per capire cosa non ha funzionato, o non è bastato, nella strategia di ricostruzione dell’Unesco, che si è rivolta solo verso simboli ‘non comunicanti’ " come il ponte. Oggi infatti esso è simbolo solo per la parte musulmana, e anch’essa ne è stata in parte espropriata ad uso dei turisti. La zona adatta invece per progettare nuovi simboli comuni sarebbe quella di Spanski trg, "zona di frangia condivisa, dove le due parti possono incontrarsi perché essa si situa nel punto di sovrapposizione dei loro percorsi separati".
Una ricerca dunque che offre anche stimoli concreti all’intervento. Una lettura utile sia per chi vuole conoscere sia per chi vuole agire dentro le ricostruzioni urbane. Che non sono solo cemento e mattoni, ma storia, simboli e cultura.