Il documentario albanese
Il genere del documentario in Albania è segnato dalla creatività caotica della transizione postcomunista, dalla mancanza di una élite stimolante e di finanziamenti adeguati. Un’intervista ad Artan Minarolli, direttore dell’Archivio di Stato
Quest’intervista è un estratto della ricerca "Indagine sul settore del documentario nel Mediterraneo" realizzata per la Direzione Marketing della RAI, che ringraziamo per la gentile concessione.
Esiste una storia del documentario albanese?
Sì, durante il regime ci sono stati numerosi documentaristi molto importanti come Henri Keko o Donika Muça. Una volta, prima della proiezione di un film, veniva proiettato un documentario perché era un genere ritenuto importante e che molti avevano studiato all’estero. Oggi invece non ci sono programmi strutturati di formazione in questo campo. Venivano prodotti molti documentari all’anno, ed esistevano strutture separate e indipendenti. A quanto pare il regime conosceva molto bene l’importanza del cinema e dei documentari: ovviamente li utilizzava nel proprio interesse, ma era in grado di riconoscere la loro importanza. In realtà è la prima volta che qualcuno mi chiede del documentario in Albania: questo significa che non c’è interesse al riguardo, o almeno non come una volta. Si vendono molto di più i film, soprattutto quelli prodotti ai tempi del regime, perché sucitano molta nostalgia.
Qual è la situazione attuale del documentario in Albania?
Attualmente lascia a desiderare. Il documentario non riceve un’attenzione adeguata in termini di progetti e finanziamenti. Si producono soprattutto documentari di cosiddetta attualità, di carattere descrittivo. Sono in genere lavori fatti in fretta, che seguono i temi del momento e si limitano a delle interviste o alla costruzione dei ritratti di determinate personalità. Spesso questi progetti diventano semplicemente un pretesto con cui guadagnare dei soldi piuttosto che un mezzo con cui finanziare un lavoro ben studiato e approfondito. Il fenomeno ha assunto dimensioni assurde, finché, dati i numerosissimi documentari che venivano prodotti e che non presentavano alcun tipo di valore, sono stati ridotti i finanziamenti. Erano documentari che alla fine non si proiettavano da nessuna parte, quindi vi erano anche problemi di distribuzione. Una volta, quando ho fatto parte della giuria di un festival del documentario, ho notato che ai documentari mancava la semplicità per essere belli, affrontavano troppe problematiche e denotavano una notevole difficoltà a focalizzare qualcosa di particolare e di rappresentativo. Quando viene approvato un documentario bisogna sapere a chi serve, che tipo di messaggio educativo, storico o culturale vuole trasmettere, e dove andrà distribuito. Il documentario è molto legato al pubblico e ha un ruolo ben definito nel diffondere informazione e conoscenza su un determinato periodo storico o un preciso fenomeno. Vorrei che i documentari fossero un po’ più verticali, con un altro approccio verso l’interpretazione della realtà.
Come intende questa "verticalità"?
Come maggiore ricerca. Se si vuole fare un documentario, alla scrittura della sceneggiatura deve seguire un’analisi molto intensa e approfondita degli elementi che tratterà. La mancanza di tutto questo ha fatto sì che i documentari siano oggi piuttosto orizzontali, o come si suol dire piatti, e non riescono a suscitare curiosità nel pubblico. Infatti c’è molto interesse per i documentari stranieri, perché si tratta di documentari di informazione che colmano il vuoto dell’educazione parziale che abbiamo ricevuto durante il comunismo. Alcune persone stanno soddisfacendo la curiosità con questi documentari. I nostri lavori invece non riescono ancora a essere sufficientemente interessanti.
Si deve poi parlare dell’élite di una società. Le élite sono quelle che attirano l’attenzione del pubblico su determinati temi di tipo politico, culturale, e così via. In Albania, l’élite esiste, ma è molto dispersa e troppo debole per riuscire ad adempiere a questa funzione. Il mercato rimane in balia delle produzioni di largo consumo e le rare proposte che vanno oltre questo fenomeno riescono ad attrarre una ristretta cerchia di persone e per breve tempo. Questo tipo di produzioni non è sufficiente per imporsi con un ruolo costruttivo. Sono lacune che interessano in particolar modo i documentari di carattere storico: oggi si dibatte molto di questi temi poiché ancora non sono stati fatti bilanci, e i conti che questa nazione deve fare con il passato devono riflettersi anche nei documentari.
Negli archivi si trova materiale per realizzare documentari storici?
Sì, esiste il nostro Archivio di Stato e un archivio della TV pubblica albanese. Il primo è aperto a tutti, mentre il secondo impone delle restrizioni di accesso. Ritengo che l’accesso al pubblico dovrebbe essere maggiore, che si dovrebbe avvicnare l’archivio al pubblico alleggerendo la trafila burocratica. Oggi, invece, chi è interessato ad accedere a questi documenti storici non si sente a suo agio, non percepisce il materiale come una proprietà comune, perché ha sempre barriere istituzionali da superare.
Possiamo parlare di un carattere nazionale del documentario albanese? Esistono tabù storici o politici su cui non si lavora?
Sì, ad esempio Enver Hoxha è un tabù, nel senso che se ne parla molto ma non in modo serio o approfondito. Noto anche un’incapacità a guardarsi allo specchio, tipica delle società in cui manca la libertà di pensiero. Oggi si parla molto di standard, di condizioni a cui adempiere, ma dobbiamo aspirare anche alla libertà di pensiero. Invece i nostri film affrontano tematiche molto limitate, conseguenza della mancanza di libertà. La transizione ha a che fare con questo, non con il consumismo. È dalla capacità di analizzare se stessi che scatta lo sviluppo, la prosperità. Invece noi non vogliamo parlare della nostra coscienza. Secondo me ha a che fare con il carattere degli albanesi che, anche a causa del passato, preferiscono non dire ciò che pensano sin dall’inizio, cercano di studiare l’altro piuttosto che esprimersi. Può essere una conseguenza del fatto che lungo la nostra storia abbiamo subito diversi traumi che hanno lasciato in noi profonde tracce. Siamo un paese molto piccolo e spesso siamo stati usati: è per questo che siamo così riservati anche nel quotidiano e non abbiamo ancora sviluppato pienamente la capacità di esprimerci in libertà.
Qual è secondo lei la figura del documentarista ideale?
E’ chiaro che l’obiettività non esiste, si tratta piuttosto di proporre un proprio punto di vista. Quello che si può pretendere è invece l’imparzialità: il punto di vista e la verità sono due cose che un buon professionista sa usare bene. Ma gli intellettuali indipendenti oggi hanno grosse difficoltà: i media sono completamente controllati dal mondo politico, che offre lavoro e status. Un intellettuale indipendente che non si colloca né da una né dall’altra parte ha enormi difficoltà a farsi strada.
In Albania esiste una comunità di documentaristi?
C’è un’associazione di cineasti professionisti che un tempo lavorava presso il Kinostudio. Anche se oggi ci sono dei giovani, la maggior parte dei documentaristi lavorava durante il comunismo e produceva documentari che si attenevano alle regole imposte dal partito. Oggi, dopo il crollo del regime e la cosiddetta "transizione", sono tutti dominati da una creatività caotica, dalla quale non escludo neanche me stesso. Ed è difficile selezionare da questo caos le idee che possono avere un valore tale da divenire soggetto filmico. C’è una diffusa incapacità ad orientarsi: le preferenze del pubblico cambiano a ritmo galoppante, il nostro mondo interiore viene plasmato da un modello che proviene dall’Occidente nel quale vogliamo integrarci. La maggior parte del pubblico segue questo modello, ma il nucleo dell’immaginario collettivo è meno ricettivo e questo comporta conflitto. La sviluppo sostanziale una società segue un processo di cambiamento graduale, mentre l’apparenza subisce un cambiamento vertiginoso. Questo conflitto confonde molto i cineasti e gli intellettuali che vogliono interpretare la società.
Che rapporti ci sono fra il mondo del documentario albanese e quello internazionale?
I nostri documentari non hanno ancora ambizioni internazionali. Non ho mai sentito di un documentario che sia stato distribuito all’estero o abbia avuto successo. Gli ultimi film invece hanno una distribuzione migliore e partecipano a festival internazionali. Ci sono alcune fondazioni in Europa che sostengono finanziariamente i documentari, ma bisogna tenere presente che i documentari vengono considerati dai registi come un lavori veloci. Cioè la domanda di sostegno finanziario comporta tempi lunghi di attesa e molti cineasti si trovano davanti a due alternative: fare prima, o aspettare l’ottenimento dei fondi. E di solito si preferisce la prima alternativa.
E con i paesi del Mediterraneo?
Se dovessi fare un documentario, sottolineerei il fatto che questa regione è un po’ indietro nel mettere in risalto dei valori condivisi, nonostante possieda molta storia e tradizioni in comune. I paesi balcanici in particolar modo soffrono di questa e altre sindromi. Se pensiamo ai paesi nordici, vediamo che invece sono molto avanti: hanno stipualto numerose convenzioni tra paesi, la gente viaggia godendo di prezzi molto ridotti, hanno unificato le dogane. Perché non si sentono antagonisti tra di loro, ma uniti rispetto al resto dell’Europa. Il Mediterraneo e i Balcani in particolar modo non hanno questa mentalità che ci farebbe vivere meglio. Bisogna anche sottolienare che il Mediterraneo è abitato da diversi popoli, il che è molto interessante, ma ostacola un po’ questa coesione.
Ritrovi un carattere mediterraneo comune nei documentari della regione?
Questi documentari sono spesso deviati per motivi commerciali, con un taglio da guida turistica. Mentre penso che il carattere mediterraneo non si deve limitare alle spiagge. Naturalmente è positivo per attrarre turisti, ma l’interpretazione commerciale ha ridotto l’immaginario comune di questi paesi al mare, alle spiagge e agli olivi. In realtà i paesi mediterranei hanno tradizioni molto antiche, storie di civiltà del passato, di amicizie e inimicizie tra i popoli, insomma una storia molto più ricca che merita di essere raccontata.