Il deserto del post-socialismo
Un nuovo saggio analizza dove sia finita la cosiddetta "sinistra" in questi 25 anni che ci separano dal crollo dell’ex Jugoslavia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Dice in una recente intervista Zygmunt Bauman che “ci sono paesi in cui la sinistra non esiste più, come nell’est europeo”. Emblematica è la situazione della Jugoslavia titoista: pur avendo prodotto un socialismo autogestionario del tutto diverso dal dirigismo sovietico, lanciando sul piano teoretico – attraverso la pur breve esperienza di Praxis – un’idea inedita di umanesimo marxista e nonostante il culto di Tito e della sua “partigianocrazia”, sappiamo che già negli anni ottanta questo capitale ideologico venne velocemente smantellato. Nella toponomastica come nelle credenze collettive.
Sappiamo anche che con la Jugoslavia scomparve non solo il marxismo con le sue originali declinazioni, ma scomparve anche ogni riferimento credibile ad una qualsivoglia sinistra politica, come ci dice Bauman. Piuttosto questo quarto di secolo che ci separa dalla scomparsa violenta della Jugoslavia ha presentato un menù fatto estremismi nazionalisti, governi di centro-destra se non di destra vera e propria, supine adesioni alle volontà della Nato e degli Stati Uniti (si veda la base Bondsteel in Kosovo, in grado di ospitare 7 mila soldati), politiche economiche platealmente neoliberiste.
Ora il volume "Welcome to the Desert of Post-Socialism. Radical Politics after Yugoslavia", scritto a più mani e coordinato da due intellettuali di sinistra come il croato Horvat ed il bosniaco Stiks, si propone due obiettivi, peraltro già espressi nella titolazione. Fare il punto su 25 anni di transizione post-socialista, transizione che ha appunto – nelle opinioni degli autori – desertificato la società e l’economia dei paesi ex-jugoslavi. Ma cogliere anche i nuovi soggetti sociali che, ribellandosi al deludente status quo, attivano per così dire “visioni di sinistra”.
Il libro è diviso in quattro parti. Nella prima si analizzano l’autogestione ed il suo fallimento, la transizione capitalista ed i suoi effetti sui lavoratori e sui sindacati. E non si dimentica di menzionare che gli elementi della crisi erano già presenti fin dagli anni settanta, quando il cosiddetto socialismo di mercato iniziava a virava semplicemente verso un mercato gestito dalle singole repubbliche e dalle loro affaristiche burocrazie (la “borghesia rossa”). Nella seconda e nella terza parte si va direttamente alla restaurazione capitalistica che connota gli anni novanta, quando le élite grazie alla piroetta nazionalista risultano le vere vincitrici della transizione avendo saputo trasformare abilmente i conflitti di classe in conflitti etnici.
Per cui guerre e transizione appaiono le inseparabili parti dello stesso processo storico mentre ideali e realtà corrono assai lontani.
Secondo gli autori due sono le strade per reagire a tale stato di cose. La prima è la nostalgia, anzi la jugonostalgija ed in particolare la cosiddetta “Titostalgia”, fatta di visite alla casa natale del Maresciallo a Kumrovec e alla Casa dei fiori a Belgrado e di un fiorente mercato di souvenir. C’è poi una reazione che non si limita al culto utopizzante della memoria ma che produce scioperi operai, proteste studentesche e movimenti di cittadini: nuovi soggetti politici, titola la quarta parte, che fanno pensare (sperare) ad una “Primavera dei Balcani”.
La crisi economica del 2008, aggravando l’infinita transizione, ha spinto le lotte operaie contro l’austerità, la deindustrializzazione, la riduzione dei diritti sindacali e le (spesso torbide) privatizzazioni. D’altronde in Croazia la produzione industriale nel 2007 era pari al 90% di quella del 1990 ed in Serbia si scendeva al 51%. Non a caso nel 2009 l’ondata di scioperi in Serbia – talvolta duri e violenti – coinvolge 30 mila lavoratori di circa 40-45 fabbriche. E non a caso nello stesso anno, a Zagabria, monta la protesta studentesca che porta all’occupazione della facoltà di filosofia. Infine in Bosnia – ed in particolare nella “rossa” Tuzla – parte l’esperienza nel 2014 dei plenum dei cittadini contro la corruzione, le privatizzazioni, la disoccupazione, la casta dei politici imbelli.
Insomma, suggeriscono gli autori, uno spettro si aggira per i Balcani, per dirla con Marx. Dove proprio i plenum rappresentano l’esperienza politica più radicale di “democrazia orizzontale” avvenuta dal crollo della Jugoslavia, anche se si riconosce che una tale esperienza può essere facilmente dissipata alimentando ancora una volta quella “malinconia della sinistra” di cui scriveva con disperazione Walter Benjamin nel 1931. Ciò che serve, concludono i due curatori, è una proposta politica di lungo termine che mescoli “le tre P: proteste, plenum, partiti". Tuttavia l’avvizzirsi dei plenum e delle proteste non sembra però, oggi, andare in questa direzione.