Il cinema dell’Europa del sudest protagonista dei grandi festival

Da Venezia a Milano e Roma, il cinema del Sudest Europa diventa protagonista dei principali festival cinematografici internazionali. Dal romeno Radu Jude all’ucraino Sergei Loznitsa, l’albanese Roland Sejko e l’ucraina Vladlena Sandu e molti altri registi e registe che presentano i loro film

26/09/2025, Nicola Falcinella -

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Mostra del Cinema di Venezia © Tanya Vasilek/Shutterstock

Il cinema dell’Europa del sudest, protagonista dei grandi festival internazionali dell’anno, arriva nelle rassegne in corso a Roma e Milano dedicate principalmente alle anteprime dalla recente 82° Mostra del cinema di Venezia (conclusa il 6 settembre scorso), ma non solo. La storica panoramica Le vie del cinema di Milano (informazioni leviedelcinema.lombardiaspettacolo.com ) in programma da oggi 26 settembre propone due film di spicco: dal concorso del Festival di Cannes arriva “Two Prosecutors” dell’ucraino Sergei Loznitsa e da Berlino “Kontinental ‘25” del romeno Radu Jude, premiato per la sceneggiatura.

La rassegna milanese (che propone anche il palestinese “La voce di Hind Rajab” di Kaouther Ben Hania in contemporanea all’uscita nelle sale) apre con una delle più belle sorprese della Mostra, “Memory” di Vladlena Sandu premio del pubblico delle Giornate degli autori. Una produzione franco-ucraina per la regista esordiente russo-ucraina che, nel breve preambolo, dichiara di raccontare la propria storia di nata in Crimea e cresciuta in Cecenia. Poi la voce narrante diventa quella della bambina nata negli anni ‘80, figlia di un’attrice cecena andata a Feodosia in Crimea con una compagnia teatrale, dove aveva conosciuto un musicista ucraino che sarebbe diventato suo marito.

Quando Vladlena (il cui nome risulta da una crasi tra Vladimir e Lenin) aveva sei anni i genitori divorziarono e la piccola seguì la madre, lasciando la soleggiata e colorata Crimea per la più grigia Cecenia. Ancora in epoca sovietica i nonni materni adepti del culto di Lenin la preparano a diventare una brava “ottobrista”, finché di colpo cambia tutto, diventa presidente Boris Eltsin (definito dal nonno “un ubriacone”) e di Lenin non si parla più. Anche la Cecenia proclama indipendenza con Džochar Dudaev, inizia la guerra e di nuovo la protagonista perde le amicizie. Tra tutte le lacerazioni familiari e del post Urss, Vladlena che deve aggiornare continuamente la propria identità e il proprio posto nel mondo. E scopre la storia della famiglia e del bisnonno deportato in Siberia e poi ucciso perché “credeva in Dio”. Si viene verso gli squarci del presente con il racconto, ora curioso ora partecipe, della ragazza e poi giovane donna, mentre sfondi ricreati, fotografie e materiali d’archivio si succedono in maniera inventiva. Sandu trova una maniera originalissima che non è né documentario né fiction per una dolorosa storia personale e collettiva.

In evidenza a Venezia anche la Macedonia del Nord con ben due film, una bella fetta della produzione nazionale. In particolare a “Mother” di Teona Strugar Mitevska, che sarà presentato anche a Milano, è spettato l’onore di inaugurare la sezione Orizzonti. Il film su Madre Teresa di Calcutta realizzato dalla regista di “Dio è donna e si chiama Petrunya” e “L’appuntamento” è stato accolto in maniera contrastata. La religiosa macedone d’origine albanese è raccontata nell’anno cruciale 1948. È agosto e Teresa attende nella megalopoli indiana la risposta di Papa Pio XII sulla richiesta di fondare una propria congregazione. La protagonista si prodiga per assistere e curare i poveri e i malati, vorrebbe fare di più per gli affamati o i morenti, sente troppo stretta la vita del convento e troppi privilegi per le suore. Intanto suor Agnieszka, cui intende lasciare la successione, scopre di essere incinta, così le due si confrontano, da posizioni diverse, sulle possibili scelte, coinvolgendo il confessore padre Friedrich e il dottor Kumar.

Anche Teresa si interroga sulla maternità, riflette se voglia diventare madre biologicamente, sebbene il sacerdote le dica che è “già madre per tutti”. Con l’immagine di Mary Ward appesa sul muro, la religiosa scrive la regola per le future consorelle, molto rigida e costituita da tante rinunce, mentre è rosa dal dubbio di essere guidata dalla vanità.

“Mother” è un film stimolante, né santino né irriverente, un po’ troppo spezzato in due parti, la prima più realistica e lineare, la seconda frammentata e segnata dagli incubi e dalle ombre. Una storia tra fede, misticismo, dedizione e femminismo (la protagonista si sente schiacciata in un mondo nel quale sono gli uomini a decidere). L’uso della musica anacronistica, con la presenza anche di un brano metal, può rimandare alla “Chiara” di Susanna Nicchiarelli, anche se l’uso qui sembra più coerente e l’impianto produttivo è solido. Supera la prova anche l’interprete svedese Noomi Rapace che parla inglese con un forte accento straniero e riesce a rendere le sfaccettature di una donna che appartiene allo stesso tempo al passato e al futuro e si porta dentro un carico di contraddizioni.

Dalla Macedonia arriva pure “The Tale of Sylian” di Tamara Kotevska, la regista di “Honeyland” del 2019 che fu nominato all’Oscar. Il documentario, presentato Fuori concorso, parte da una vecchia leggenda e parla della curiosa amicizia tra un contadino e una cicogna. In un villaggio dove nidificano centinaia di volatili, gli agricoltori faticano a ottenere una giusta retribuzione per le loro produzioni. Dopo aver protestato in strada distruggendo frutta e verdura non vendute, i contadini sono tentati dal vendere i terreni ed emigrare. Nikola, troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per un nuovo impiego, deve trovare una sua strada per mantenersi. Un film originale, tra realtà e fiaba, che descrive la situazione di lavoratori e cittadini al bivio tra scelte difficili.

È impressionante “Film di Stato” di Roland Sejko proposto nelle defilate Notti veneziane. Un documentario che utilizza solo immagini d’archivio per raccontare l’Albania di Enver Hoxha dal punto di vista della propaganda ufficiale. Una completa immersione nel flusso della narrazione ufficiale, senza nessuna didascalia o spiegazione e questo può rappresentare un ostacolo per lo spettatore privo di un’infarinatura sulla storia albanese. Nel prologo si assiste a una commemorazione con decine di persone sulla tomba di Hoxha (deceduto nel 1985) circondata da corone di fiori. Si torna alla fine degli anni ‘40, all’inizio della dittatura, quando il regime comincia a usare le immagini per consolidare il potere. È un susseguirsi di viaggi, comizi, lavoro, folle plaudenti, parate, cerimonie e visite, con Hoxha quasi sempre presente, anche quando non centrale nell’inquadratura. Una presenza costante ma non invadente, sebbene nulla gli sfugga.

Colpisce come il film di Sejko renda le alleanze e l’isolamento di Tirana: dapprima il viaggio a Mosca del capo del governo (con tanto di visita al mausoleo di Lenin), cui segue l’innalzamento di una statua di Stalin; la morte del georgiano porta il lutto, ma la destalinizzazione è rapida e porta alla visita di Krusciov in Albania. Il distacco da Mosca apre all’arrivo del cinese Ciu En Lai a Tirana, la fedeltà alla Cina, seguita, di nuovo, dal distacco netto. Sono quasi tutte immagini pubbliche (prevalentemente in bianco e nero, ma con frammenti a colori), con l’aggiunta di brevi situazioni private, quali un momento in piscina, una scena a caccia, qualche passeggiata nel parco. Nel montaggio quasi impercettibile, c’è lo stacco brusco che porta alla gente in piazza che festeggia la caduta del regime e abbatte la statua di Hoxha.

Più interessante per i materiali che riunisce che per la confezione è l’ucraino “Notes of a True Criminal” di Alexander Rodnyansky e Andriy Alferov. Rodnyansky, condannato in contumacia da un tribunale russo per aver criticato l’invasione dell’Ucraina, torna al cinema dopo decenni in collaborazione con Alferov, conosciuto per il documentario “Klitschko: More Than A Fighter” e per “Dissident” diretto con Stanislaw Gurenko, menzione speciale lo scorso anno al Torino Film Festival.

Partendo dalla vicenda familiare, da una parte il nonno sceneggiatore e produttore che filmò diversi momenti della Seconda guerra mondiale e dall’altra la famiglia ebrea del padre sterminata a Babij Jar nel 1941, Rodnyansky ripercorre la storia sovietica e post dall’inizio del conflitto. I cineasti utilizzano immagini del nonno (alcune, come le impiccagioni da parte dei nazisti, già viste in documentari d’archivio di Loznitsa), dei documentari di Felix Sobolev (del quale Rodnyansky suo allievo negli anni ‘80, periodo dal quale provengono anche sue immagini), in più materiali girati nella guerra tra il 2022 e il 2024. Il punto di vista è quello ucraino, ma l’accumulo di temi e materiali è poco coeso e organico, sebbene diversi passaggi siano molto rilevanti.

Dal proprio archivio Rodnyansky estrae diversi spezzoni su Cernobyl, ripresa più volte dopo il tragico incidente del 1986, compresa l’incredibile storia di un tagiko che ci si trasferì con la famiglia nel 1993 dopo essere scappato dalla guerra: “meglio avere mezza possibilità che niente”, affermava a proposito dei rischi.

Dell’oggi spiccano i lunghi scambi di prigionieri tra Ucraina e Russia e soprattutto la scena di un soldato russo che lo rifiuta per restare dalla parte ucraina.

Dalla Bulgaria c’è “Made in Ue” di Stefan Komandarev (noto per “Directions”, “Rounds” e “Blaga’s Lession”), proposto nella nuova sezione Spotlight. Siamo all’inizio di marzo in una cittadina mineraria. Iva lavora nella fabbrica tessile Mancini, ditta italiana che ha delocalizzato: non si sente bene, ma prende farmaci per andare a lavorare perché ai lavoratori della fabbrica non vengono concessi certificati di malattia. L’imperativo è produrre e per un giorno di assenza si perde il bonus, corrispondente a metà del salario. La donna si sente male sul luogo di lavoro, finisce in ospedale, le fanno il tampone per il covid e risulta positivo. La notizia finisce in televisione e si scatena una caccia all’untore, con Iva presa di mira.

Intanto il figlio Misho, youtuber in partenza per la Germania con la fidanzata Ani, finisce in quarantena, non può partire e accusa la madre, mentre tutta la città se la prende con loro. Il contagio si estende e anche il padre di Ani si ammala e muore, contribuendo a dividere i due giovani.
Nel frattempo la produzione della Mancini non può fermarsi, il proprietario minaccia subito di spostarsi in Macedonia poiché il capitalismo selvaggio non concede soste.

“Made in Ue” (il titolo viene dall’etichetta su un abito che gioca un ruolo di svolta nella trama) è un classico film alla Komandarev, attuale e incentrato su questioni cruciali, quanto tendente ad accumulare temi e spunti in maniera un po’ meccanica e schematica. Tra i personaggi di contorno emerge il dottor Ivan, il più positivo, un pensionato tornato in servizio a 71 anni perché c’è carenza di personale, che dice “quel che ci raccontavano sul comunismo era tutto una menzogna, quello che raccontavano sul capitalismo era tutto vero”. Il medico ricorda la deludente esperienza in Europa, che non gli aveva offerto ciò che si aspettava, e da là partono gli strali verso la UE, con troppe generalizzazioni. Nel tono un po’ populista, almeno il regista evita di dare voce a complottismi vari.

Infine il romeno “Milk Teeth” di Mihai Mincan, anche questo nella sezione Orizzonti (e proiettato a Milano sabato), ennesima storia a cavallo della rivoluzione che ribaltò il regime di Nicolae Ceausescu. È aprile 1989 in una cittadina della provincia. L’undicenne Alina esce di casa la sera per portar fuori i rifiuti di cucina, dopo che con la madre hanno preparato una torta. L’ultima ad averla vista è la sorellina Maria di otto anni e afferma di aver notato un uomo che litigava con una donna in strada. Qualcun altro dice di aver visto un uomo che portava via la ragazzina in auto, ma non ci sono certezze. La polizia inizia a indagare, ma brancola nel buio. Anche nel secondo capitolo della storia (il terzo e conclusivo sarà a marzo 1990, dopo la caduta del comunismo), nell’ottobre dello stesso anno, non si sa ancora nulla.

“Milk Teeth” è un film minimalista, fin troppo, che mostra poco e lascia soltanto intuire, insistendo su dettagli e particolari, senza utilizzare mai i totali delle scene. Maria parla pochissimo e sembra chiusa (l’unica apertura è il ballo con un’amica sulle note della canzone “Popcorn” degli Hot Butter) però osserva e ascolta e quasi indaga da sola, è una bambina che deve crescere in fretta. Il film cerca di guardare in azione una giustizia pigra, quasi svogliata, mentre tutto intorno sembra cambiare, intanto chi aspetta giustizia si dibatte come un pesce nella rete. Il lavoro resta troppo in sospeso e lascia ancora troppi dubbi e vie aperte, sebbene si inserisca nel filone della rivoluzione tradita: cosa è cambiato davvero con la caduta di Ceausescu?

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