Il cerchio si chiude

Il 18 giugno 2010 è morto nell’ospedale di Vienna Bogdan Bogdanović. Urbanista e figura di spicco della cultura jugoslava del ‘900, aveva progettato più di 20 memoriali sulla Seconda guerra mondiale. Osservatorio Balcani e Caucaso lo aveva intervistato per la realizzazione del documentario "Il cerchio del Ricordo"

21/06/2010, Nicole Corritore -

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Bogdan Bogdanović, foto di Andrea Rossini

Bogdan Bogdanović, architetto, urbanista, sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986, è una delle figure più eminenti della cultura jugoslava del ‘900. Nato a Belgrado nel 1922, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione nazionale progetta e dirige la costruzione di 20 memoriali sulla Seconda Guerra Mondiale. Negli anni ’80 rinuncia all’incarico presso l’Accademia delle Scienze della Serbia e scrive una lettera aperta a Milošević (1987) di carattere antinazionalista e antimilitarista. La campagna di diffamazione conseguentemente avviata contro di lui lo costringe infine all’esilio a Vienna, città dove ha vissuto fino al 18 giugno 2010, giorno della sua morte.

Ha scritto tra l’altro "La città e la morte", "Architettura della memoria", "La città e il futuro", "La felicità nelle città", "L’architetto maledetto", "La scatola verde". Nessuna delle sue opere è stata tradotta in italiano. Nel maggio del 2007 è stato assegnato dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche il prestigioso premio Scarpa al complesso memoriale di Jasenovac, il cui fiore in cemento armato era stato progettato da Bogdan Bogdanović. Osservatorio Balcani e Caucaso, lo intervistò a lungo nella sua casa di Vienna nel marzo del 2007. Parti di quell’intervista sono state inserite nel documentario "Il cerchio del ricordo – Krug sječanja".

Era il 12 novembre 2008. Avevamo concluso il nostro convegno tenutosi quell’anno a Vienna. Non potevo ripartire senza andare a trovare Bogdan e sua moglie Ksenija. Nel marzo del 2007 avevano riservato a me e al mio collega Andrea Rossini, ai tecnici Moira Della Fiore e Carlo Dall’Asta, un’accoglienza indimenticabile.

In tre giorni di riprese video, per realizzare il nostro documentario "Il cerchio del ricordo", ci aveva raccontato la sua vita e la nascita del grande fiore di Jasenovac. Ma conoscendolo da vicino, avevamo scoperto molto più di un architetto e di un intellettuale famoso.

Ci aveva regalato momenti di profonda vicinanza, nonostante fossimo dei veri sconosciuti. Giorni in cui ci lasciò senza parole per la lucidità con cui raccontava del suo passato individuale e della Jugoslavia che non c’era più, ma anche per la sua sorprendente capacità di intrecciare temi del passato con eventi del presente. E tutto con una profonda umanità.

Ci raccontò anche sfumature molto private della sua vita, ci fece ridere con aneddoti tipicamente "balcanici", ci mostrò i suoi disegni, vecchi e nuovi, con quello sguardo entusiasta che siamo soliti vedere negli occhi dei bambini. Ci raccontò del suo prossimo libro, in cui voleva riportare tutti gli scritti e i disegni contenuti nella "Zelena kutija", la scatola verde in cui aveva nascosto pensieri, trascrizioni di sogni, disegni che temeva gli avrebbero portato via e bruciato negli ultimi anni di vita a Belgrado. Gli anni in cui era diventato nemico del regime di Milošević, anni di isolamento e di minacce. Che lo obbligarono, per aver salva la vita, a scappare e vivere in esilio.

Quando ripartimmo i coniugi Bogdanović ci dissero, con l’espressione e le parole che si riservano ai nipoti preferiti, di farci vivi, di tornare, perché quella sarebbe stata sempre anche casa nostra. E così rimanemmo in contatto, con Ksenija che andava e veniva tra Vienna e Belgrado, con Bogdan che pian piano usciva sempre meno da casa. I suoi 80 anni passati cominciavano a farsi sentire.

Quel giorno di novembre 2008, capii subito da Ksenija, quando aprì la porta di casa, che dovevo prepararmi a non avere a che fare con il Bogdan di un anno e mezzo prima. Lui arrivò nel soggiorno, con la sua camminata lenta e appoggiandosi al bastone. Si sedette alla sua solita sedia, accanto al tavolo di lavoro cosparso di disegni e schizzi, appunti di due righe su semplici foglietti di carta. "Kako ste Bogdan?" gli chiesi. I suoi occhi erano velati, lo sguardo lontano. Ma gli bastò cominciare a ricordare quei giorni insieme, le ore a parlare e riflettere. E subito sul suo viso si dipinse un sorriso radioso. Mi strinse forte la mano tra le sue, come un nonno.

Prima di andar via gli chiesi a cosa stesse lavorando. Se dopo il libro "Zelena kutija – knjiga snova" (La scatola verde – il libro dei sogni), pronto ad uscire nei primi mesi del 2009 con una casa editrice serba, aveva intenzione di scrivere altro. "No. Penso di aver detto tutto quello che avevo da dire. Ora disegno tantissimo: mi rende felice disegnare e oltretutto mi riesce meglio di anni fa. Mi sento un bambino… forse è proprio vero che più si invecchia e ci si avvicina alla morte e più si torna bambini".

Con la lucidità di sempre si stava preparando a salutare tutti. Il soggiorno era pieno di scatole e scatoline, cartelle di documenti. Testimoni del lavoro di archiviazione che Bogdan stava facendo negli intervalli in cui non disegnava: "Voglio che tutto sia a posto, un giorno. Forse ne faranno un archivio pubblico. Se devo diventare anch’io un monumento alla memoria, voglio che sia il più possibile veritiero!". Con questa battuta ironica e una profonda risata si chiuse il cerchio del nostro incontro. Dopo aver abbracciato lui – rimasto seduto sul suo trono di architetto, scrittore, disegnatore, sognatore – e poi Ksenija sulla porta di casa, uscii avendo l’impressione che ci eravamo salutati per sempre.

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