Il cauto ottimismo di Ivan Vejvoda

La nuova costituzione serba, la questione del Kosovo, le imminenti elezioni e la difficile transizione del paese. Sono questi i temi del dialogo avuto a Belgrado con Ivan Vejvoda, già consigliere del premier Zoran Djindjic

19/10/2006, Luka Zanoni, Francesca Vanoni - Belgrado

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Ivan Vejvoda (foto L. Zanoni)

A latere della conferenza internazionale su nazionalismo, globalizzazione, conflitti etnici nei Balcani, tenutasi a Belgrado alla fine del mese di settembre, abbiamo intervistato Ivan Vejvoda, già consigliere del premier Zoran Ðinđić, oggi direttore esecutivo del Balkan Trust for Democracy che in un ottimo italiano ci ha illustrato come vede la Serbia oggi.

Dal suo intervento alla conferenza non è emersa una visione particolarmente pessimista della Serbia di oggi. È così?

Sì. Cerco di presentare una posizione analitica realistica. Cerco di evitare quella idealistica che dice che tutto va bene, e il suo opposto che dice che qui è tutto nero. Poiché se guardiamo la Serbia alla fine di questo sesto anno di transizione vediamo un’immagine molto complessa che non è né bianca né nera, ma piuttosto grigia. Dopo l’assassinio del premier Ðinđić di fatto c’è stato un rallentamento della transizione, del processo di riforme democratiche che è stato molto rapido durante la sua amministrazione. Questa tragedia purtroppo ha mostrato che la Serbia era un paese democratico, o almeno che si era incamminata in quella direzione, perché era riuscita a respingere l’attacco delle forze retrograde di un passato nazionalista e protofascista. Che aveva ristabilito non solo un governo democratico, ma stava attuando un certo numero di riforme.

È vero, c’è stato un rallentamento. Il nuovo governo di Koštunica ha cercato di mettere in questione molte politiche del governo precedente, in particolare la privatizzazione. In seguito si è accorto che non c’erano grandi problemi riguardo la privatizzazione, ma nel frattempo abbiamo perso un anno. Anche la questione dell’Aja non era una priorità di questo governo quando è venuto al potere nel marzo 2004, ma lo è divenuta un anno dopo. Quindi anche in questo caso si è perso un anno, quando il dinamismo è importante per l’integrazione europea e per la Partnership for Peace. Poi è stato messo in questione il Tribunale speciale per i crimini di guerra, fatto che ha messo a disagio l’opinione pubblica, per poi dire che non c’era alcuna controversia, e che il tribunale doveva continuare col suo lavoro. Si è perso poi un po’ di tempo nel procedere col processo per l’assassinio di Ðinđić, di Stambolić e per il tentato assassinio di Vuk Drašković.

Tuttavia, quando cerchiamo di fare un bilancio, vediamo che c’è stato un primo periodo di riforma accelerata al quale ha fatto seguito un serio rallentamento di tutti questi sforzi, e una situazione in cui la Serbia si trova ad essere l’ultima in lista, insieme alla Bosnia, su tutto ciò che concerne l’integrazione euro-atlantica.

Purtroppo siamo ancora qui a ripetere che Mladić non è all’Aja, quando è una cosa che doveva essere già fatta da molti anni, già sotto il governo Ðinđić, sotto quello di Živković, per non dire sotto il nuovo governo di Koštunica.

Siamo di fronte ad un nodo che rivela i problemi della transizione serba. Ci sono interessi di forze politiche ed economiche che sfruttano questa situazione in cui il mercato non è regolarizzato, dove non c’è lo stato di diritto, per continuare a coltivare extra profitti. Io rivolgo una critica verso i circoli d’affari affinché si adoperino per fare lobbying sul governo per far sì che si acceleri l’introduzione di regole chiare per un mercato economico. Ma loro fanno il contrario, apparentemente si interessano ad un mercato demonopolizzato e regolato, e allo stesso tempo sfruttano questa situazione poco definita.

A breve ci saranno le elezioni politiche. L’ipotesi di un nuovo governo a guida DS e DSS, cioè Tadić e Koštunica, potrebbe portare a qualche cambiamento?

Io credo di sì, ed è per questo che sono cautamente ottimista. Perché credo che queste elezioni, apparentemente previste per fine anno, creeranno un governo di maggioranza democratica, cioè senza l’appoggio dei socialisti, come è il caso del governo attuale. E credo che il partito del presidente Tadić avrà la maggioranza nella coalizione e sarà in grado di definire l’agenda delle riforme molto più chiaramente, con la partecipazione del DSS, e con la partecipazione dei partiti più piccoli: G17, il partito di Vuk Drašković, e forse l’LDP di Čedomir Jovanović…

Dal punto di vista della sociologia politica, tutti i risultati hanno mostrato che dal 2000 la Serbia vota in maggioranza le forze democratiche e in misura minore per i radicali. Credo che in questa istanza vedremo un po’ la stessa cosa, cioè la Serbia riconfermerà che la sua sociologia politica non cambia, che la maggioranza dell’elettorato voterà per i partiti democratici, i quali ora sono molto più consapevoli del fatto che devono mettersi assieme. Ecco perché adesso sarà possibile questa coalizione che non fu possibile nel marzo 2004, quando il DSS non volle il DS nel governo.

Secondo lei questa coalizione è già partita con l’adozione della costituzione? Non c’è stata la formazione di un’assemblea costituente, ma un accordo tra partiti sul testo della costituzione…

Sì. Non c’è stata un’assemblea costituente…

E nemmeno un dibattito pubblico…

Certo, e queste sono cose molto gravi. La costituzione è il documento base di ogni società e necessita il consenso più generale possibile, non solo degli eletti dal popolo. Il governo difende questa rapidità e questo processo chiuso, dicendo che in effetti c’è il consenso di tutti i partiti in parlamento… e da ciò trae l’argomento che la nostra voce è tenuta in considerazione perché tutti i rappresentanti in parlamento sono d’accordo sulla costituzione. Certo, questo è un argomento. Ma credo che non sia sufficiente, perché sarebbe stato molto più positivo e serio se si fosse lasciato a disposizione almeno un mese per discutere il testo della costituzione. La verità è che non ci sarà questa possibilità e, come ho detto, non è un procedimento serio. Ma poiché, e questo credo sia la questione politica, sono più importanti le elezioni e il consolidamento di un governo democratico, purtroppo in questo scenario la costituzione ha un ruolo secondario, che è quello di aprire la strada alle elezioni in cui la coalizione democratica si dimostrerà vincente.

Perché si è deciso di adottare adesso la costituzione? È da almeno sei anni che si parla di cambiare la costituzione esistente… non è che adottando in fretta la costituzione si vuole evitare qualcosa in particolare?

Da un lato è un gioco politico molto sofisticato, dall’altro è molto semplice. Tutti i governi, da Ðinđić in poi, hanno detto che la costituzione è una delle priorità. Per Koštunica, quando è arrivato al governo, era la priorità. Quindi, da un lato andare alle elezioni senza la costituzione significa che non si sono seguite le proprie priorità. Dall’altro lato, in modo un po’ più pratico, l’Unione europea richiede che la Serbia abbia una nuova costituzione che tenga presente l’Accordo di associazione e stabilizzazione.

Noi tutti vogliamo la nuova costituzione perché non vogliamo più quella di Milošević, ma non in questo modo, anche se forse il testo della costituzione è condivisibile al 90%…

C’è un altro aspetto però: se come sembra esiste il rischio di una bassa affluenza elettorale, questo può suggerire che non ci sia una percezione reale nell’opinione pubblica dell’importanza di avere una nuova costituzione. Come se fosse qualcosa di secondario, come se non fosse importante avere una carta fondante delle istituzioni che ti rappresentano e ti governano. È così?

Questo è vero. La Serbia ha bisogno di stabilità e di pace, di rafforzare quello che è già in nuce. Questo perché stiamo andando verso la soluzione del Kosovo, la questione del Tribunale dell’Aja non è ancora finita, la Serbia è ancora sotto forti pressioni, non si sente ancora tranquilla rispetto ad una transizione che, anche dopo il Kosovo e dopo l’Aja, dovrà procedere verso una fase che tutti i paesi attorno a noi hanno compiuto… e credo che il governo voglia distrarre l’opinione pubblica dal credere che il Kosovo sia l’unico tema. Ci saranno più temi, ci sarà il tema della costituzione, ci sarà il tema molto tangibile del nuovo governo, ossia la competizione politica, sicché con tutto ciò il tema del Kosovo diventa meno saliente.

Si prenderà una decisione sullo status del Kosovo nel momento in cui noi in Serbia formeremo il nuovo governo, quindi l’attenzione sarà spostata verso la formazione del nuovo esecutivo. E qui entra in gioco l’altro fattore del nostro spettro politico, che è la comunità internazionale, nella figura dell’Unione europea. Perché essa ha un ruolo molto importante sulla nostra scena politica. Se l’Europa vede che queste elezioni aprono la strada ad un governo democratico più forte, forse farà in modo di far riprendere i negoziati, magari nel momento in cui saremo in campagna elettorale, per dare una spinta a chi vuole una Serbia democratica. Probabilmente anche senza Mladić all’Aja ci sarà la riapertura dei negoziati, e forse allo stesso tempo anche la NATO si adopererà per far procedere la Partnership for Peace, perché anche lì Mladić era un ostacolo.

Che conseguenze invece potrebbe avere la dichiarazione del Presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, secondo la quale dopo l’ingresso di Romania e Bulgaria, previsto per il primo gennaio 2007, l’UE rallenterà con l’allargamento per permettere di consolidare le istituzioni europee?

A mio avviso non c’è niente di nuovo nella dichiarazione di Barroso. E vi dico in che senso: si tratta di una dichiarazione rivolta all’opinione pubblica dei paesi membri dell’UE, ma non c’è un cambiamento alla base della politica di Bruxelles rispetto ai Balcani occidentali. Il summit di Salonicco resta in vigore, ossia: "Voi sarete membri il giorno in cui sarete pronti, senza se e senza ma", come aveva detto Prodi quando era presidente. In secondo luogo, noi siamo assai lontani da quel giorno. Anche in uno scenario positivo di possibile ingresso nel 2010, 2012, quello che Barroso ha detto lascia lo spazio ad un periodo di almeno 4 o 5 anni per far sì che l’Europa dia vita ad un nuovo quadro istituzionale. Pertanto, detto semplicemente, in questo momento per i Balcani tutto ciò non è molto rilevante.

Si tratta di una dichiarazione cosmetica piuttosto forte, ma l’intento è quello di portare l’attenzione dei paesi dell’Europa sulla necessità di discutere della organizzazione interna. Ma dalle dichiarazioni della Merkel e di Sarkozy si nota che entrambi hanno parlato di Balcani come membri. La Turchia, piuttosto, rappresenta un problema sia per Sarkozy che per la Merkel. Ma credo che sia molto significativo il fatto che ambedue abbiano detto che i Balcani entreranno nell’UE. Si capisce che i Balcani occidentali sono una questione non terminata dell’Europa, perché, se le cose fossero andate diversamente, già negli anni ’90 avrebbero potuto esserne membri.

Non pensa che ci sia stata una perdita di credibilità dell’Unione europea in questi anni in merito alle prospettive d’allargamento?

Non tra gli esperti, non tra i policy makers. Nell’opinione pubblica forse sì. Questa dichiarazione crea un po’ di confusione e si deve dare una spiegazione, certo non facile, per rassicurare l’opinione pubblica.

In questa fase una posizione filo-europeista come quella rappresentata a suo tempo dal premier Ðinđić potrebbe rischiare di non essere compresa, nel senso che la gente potrebbe chiedersi perché continuare a parlare della via verso l’Europa se poi le porte non si aprono…

Sì, in un senso più pragmatico si dovrebbe avere una discussione permanente fra i nostri politici e l’Europa, affinché tutti facciano attenzione a ciò che dicono. Di modo che anche i politici locali sappiano in anticipo di dichiarazioni simili, e fare in modo che siano già preparati a cosa dover rispondere. Ci vorrebbe una migliore interazione tra l’UE e i politici locali.

Il rischio è che una dichiarazione del genere si rifletta sulla politica interna…

È vero, però i problemi interni sono talmente grossi che una dichiarazione come questa non ha tanto peso. Ha un ruolo, non c’è dubbio, ma non avrà un effetto a lungo termine. Rinforza i pregiudizi di chi già nutre pregiudizi nei confronti dell’Europa, ma gli altri sanno che occorre impegnarsi per adottare politiche europeiste.

Torniamo sulla costituzione, perché introdurre nella nuova carta costituzionale la questione del Kosovo, quando non è ancora definito il suo status?

Una risposta un po’ circostanziata è quella di comparare questa situazione a precedenti che già esistono. L’esempio più vicino a noi è quello dell’Irlanda. L’Irlanda aveva un articolo nella sua costituzione che diceva che l’Irlanda del Nord è parte integrante del territorio della Repubblica, che lo è sempre stata, ecc. Una cosa che non corrispondeva alla realtà tanto che l’Irlanda ha dovuto modificare questo articolo. Ora, hanno un articolo in cui l’Irlanda afferma di sperare che un giorno l’Irlanda del nord faccia parte del suo territorio.

Faccio questo esempio perché vedo un po’ la stessa cosa qui in Serbia, cioè i partiti serbi e il governo non hanno inventato nulla di nuovo. C’è una realtà politica che di fatto dice che il Kosovo non è più sotto la sovranità pratica della Serbia, non c’è l’esercito, non c’è la polizia, ma formalmente lo è ancora perché c’è la risoluzione 1244.

Stiamo andando verso una nuova risoluzione delle Nazioni Unite, del Consiglio di sicurezza, dove probabilmente si aprirà la possibilità che il Kosovo un giorno diventi indipendente, anche se forse la parola indipendenza non verrà utilizzata. Ci sarà la continuazione di un protettorato, che passerà dalle Nazioni Unite all’Unione europea, con una presenza molto significativa degli eserciti della NATO. Forse l’aspetto più importante in questo momento riguarda quale sarà il contenuto della condizionalità dell’indipendenza, e questo credo che sarà una sorpresa per gli albanesi del Kosovo. Perché loro credono che il Kosovo sarà indipendente immediatamente, ma non lo sarà. Se non altro per il fatto che si tratta di una società in cui gli standard democratici non sono stati rispettati. Ci sarà una supervisione, una sorta di monitoring, per realizzare gli "standards after status", invertendo così l’originaria formulazione… e quindi un lavoro molto intenso di questa società e dei loro politici, sotto l’ombrello dell’Unione europea.

Ciò che sarà molto importante in questa fase, se questa sarà la direzione, è che si garantisca la sicurezza alla popolazione serba del Kosovo. Cioè che non si assista ad un movimento di massa della popolazione, perché ciò sarebbe una vera tragedia per questa popolazione e una tragedia politica per tutti noi. Se nel processo di negoziazione non si danno garanzie istituzionali di sicurezza, da parte della NATO, dell’Unione, dell’ONU, affinché questa gente resti in Kosovo… se loro vedono che queste garanzie, al di fuori delle promesse, non ci sono, allora cominceranno a spostarsi. A quel punto avremo un Kosovo monoetnico ed emergerà la questione del Kosovo settentrionale. Ci sarà uno status asimmetrico del Nord? Quali saranno le prerogative per le comunità locali serbe? Quali saranno le possibilità di relazione con Belgrado? Abbiamo gli esempi dell’Irlanda del nord, dell’Alto Adige, ecc., ci sono formule per risolvere queste questioni complicate, che richiedono pazienza e uno spirito di compresso. Ma non c’è altra via che cercare in questi ultimi mesi determinate soluzioni istituzionali sulla decentralizzazione, sulla chiesa ortodossa, sui siti culturali e religiosi, e sulle garanzie per i non albanesi del Kosovo.

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