Il campo e la casa

Un reportage su un presunto campo di tortura dell’UÇK in territorio albanese nel ’99 riporta in primo piano polemiche già sollevate da Carla del Ponte col suo libro "La caccia". Le reazioni di media e politici albanesi, tra polemiche, silenzi e la lettura di una "guerra giusta" a tutti i costi

23/04/2009, Marjola Rukaj -

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Secondo un articolo investigativo pubblicato sul portale BIRN, lo scorso 9 aprile, nell’Albania settentrionale durante il conflitto in Kosovo nel 1999 sarebbe esistito perlomeno un campo di torture controllato dall’UÇK.

Diversi testimoni citati nell’articolo parlano di vittime civili di etnia albanese, serba e rom provenienti dal Kosovo. Tranne poche ripubblicazioni da parte di alcuni giornali di Tirana, l’articolo è stato accolto in silenzio da un’Albania tutta assorta dall’imminente campagna elettorale. Nessun commento né da parte dei media né da parte dei politici. Ma la questione solleva non poche responsabilità sul ruolo che l’Albania ha giocato durante il conflitto kosovaro di dieci anni fa.

Molto diverso è stato il clima con cui, solo pochi mesi fa, è stata accolta un’altra notizia sempre riguardante misfatti dell’UÇK avvenuti in territorio albanese. Il caso era scaturito da una affermazione dell’ex procuratrice dell’ICTY, Carla del Ponte, contenuta nel suo libro "La caccia", in cui parlava dell’esistenza di un traffico di organi di civili serbi, albanesi e rom del Kosovo attraverso il territorio dell’Albania. L’ex procuratrice sosteneva che in un’abitazione dalla facciata gialla, a Gurra, un villaggio nei pressi di Burrel nell’Albania settentrionale, avevano avuto luogo operazioni di asportazione di organi destinati in seguito al traffico internazionale. Le vittime, come anche nel caso del presunto campo di torture di Kukës, sarebbero state civili del Kosovo, deportati in territorio albanese da parte di membri dell’UÇK.

Il caso – denominato nel gergo mediatico come "La casa gialla" – divenne oggetto di numerose reazioni e l’abitazione di una famiglia disagiata del nord albanese diventò per qualche mese centro di pellegrinaggio di giornalisti albanesi e stranieri. La questione, secondo quanto afferma nel suo libro Carla del Ponte, aveva ottenuto l’attenzione anche degli organi di giustizia internazionale, ma era stata in seguito abbandonata per mancanza di prove.

La pubblicazione di tali affermazioni ha visto l’opinione pubblica albanese reagire nettamente contro l’ex procuratrice. L’autrice de "La caccia" è stata definita anti-albanese, tendenziosa, manipolata dai serbi, mentre non sono mancati neanche commentatori che hanno voluto dare spiegazioni di tipo psicologico sul suo comportamento. La maggior parte degli analisti e politici albanesi in Kosovo, e in Albania, hanno escluso ogni possibilità di traffico d’organi, partendo soprattutto dal presupposto che le operazioni di asporto richiedono condizioni igieniche che in Albania non possiedono neanche gli ospedali più sviluppati. La famiglia che abita nella cosiddetta "Casa gialla" dove avrebbero avuto luogo tali operazioni, ha dichiarato più volte di voler fare causa alla procuratrice, ma di non poter sostenere le spese del processo.

Uno schizzo in possesso della procura serba che indicherebbe la posizione della cosidetta ”Casa gialla”

All’epoca, il procuratore per i crimini di guerra serbo Vladimir Vukcevic aveva chiesto alla magistratura albanese di collaborare nell’indagare sulla vicenda. Inizialmente la procuratrice generale albanese, Ina Rama, aveva dichiarato la disponibilità delle autorità di Tirana a collaborare con quelle di Belgrado, ma poche settimane dopo, ciò è stato smentito, ed è stato negato anche la possibilità alla procura serba di recarsi sul posto per avviare proprie indagini.

La decisione delle autorità albanesi si è basata sul fatto che un’inchiesta era stata intrapresa in precedenza da parte delle autorità internazionali in Kosovo, per poi essere interrotta per mancanza di prove. Tale fatto ha indotto la giustizia albanese a considerare la vicenda "una mera speculazione priva di fondamento".

L’intransigenza albanese e la mancanza di volontà di indagare su quanto può essere avvenuto in una delle zone più isolate del paese (e che sfuggiva al controllo di Tirana nel caos in cui giaceva l’Albania di 10 anni fa) crea qualche sospetto sulla diretta responsabilità dell’Albania. Solo pochi analisti hanno condannato la fermezza con cui le autorità albanesi hanno escluso la possibilità che nel territorio albanese abbia potuto aver avuto luogo un traffico di organi. La maggior parte dei media si sono invece adoperati a smentire e a volte a deridere l’ipotesi avanzata nel libro di Carla del Ponte.

Nonostante per mesi la questione della "casa gialla" fosse all’ordine del giorno per i media albanesi, non sono apparsi approfondimenti di tipo investigativo, ma solo reportage, intenti a dimostrare il contrario di quanto sostenuto nel libro dell’ex procuratrice. La possibilità che l’UÇK fosse coinvolta in crimini di guerra nei confronti dei civili kosovari è difficilmente accettabile da parte sia dei media che dalla classe politica di Tirana. Nonostante in Albania non si abbia grande familiarità con l’ UÇK e i suoi membri elevati a eroi della nazione in Kosovo, singoli "martiri della lotta di liberazione” vengono sempre più utilizzati come simboli del patriottismo, da annoverare nella lunga lista degli eroi che hanno contribuito alla libertà e all’indipendenza della nazione albanese.

Dalle affermazioni degli ex membri dell’UÇK apparsi di volta in volta nei media albanesi, e dai commenti degli analisti albanofoni, spesso emerge il concetto della "guerra giusta" e un vittimismo che non lascia spazio alla possibilità di crimini di guerra commessi dagli albanesi. I media di Tirana, tradizionalmente albanocentrici – e che dimostrano spesso una scarsa conoscenza dei conflitti balcanici – continuano a offrire un punto di vista parziale del conflitto, e della società kosovara, che rispecchia solo il punto di vista albanese, mentre la visione riguardo quanto avvenuto in Kosovo durante e dopo il conflitto è fortemente caratterizzato dal vittimismo albanese. Nei fatti, molte delle reazioni di Tirana alla vicenda della "casa gialla", sono state in realtà delle controaccuse alla Serbia, ritenuta l’unica responsabile di crimini di guerra durante il conflitto in Kosovo.

I fatti riportati nell’articolo investigativo sui campi di tortura a Kukës, e la vicenda della casa gialla di Burrel, fanno emergere un aspetto del conflitto kosovaro sconosciuto alla maggior parte degli albanesi. Ma il dibattito sulle responsabilità rimane ancora segnato da tinte fortemente emotive.

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