Il Biografikon di Pavle Bato Stanišić
A seguito della pubblicazione postuma di Biografikon, del poeta e saggista Pavle Bato Stanišić (1936-2021), il nostro Božidar Stanišić ripercorre i ricordi e l’amicizia con l’autore
Il mio amico Bato e io per anni abbiamo intrattenuto uno scambio epistolare, spesso anche via posta elettronica. Nell’estate dello scorso anno, dopo esserci scambiati qualche riflessione su un saggio di Kundera sul mondo senza sorrisi, è iniziato un lungo periodo di silenzio. Poi in autunno, è giunta la notizia, riportata da un solo media dell’intera regione – il 21 ottobre 2021 sul portale Tačno il giornalista Savo Petrović, amico di Bato, che ormai da tempo vive in Florida, scriveva: “I mezzi di informazione bosniaco-erzegovesi non hanno dato la notizia della morte di Pavle Stanišić, non lo ha fatto né Oslobođenje né Glas Srpske, né tanto meno Politika, giornali che pubblicavano i suoi racconti, conferendogli anche vari riconoscimenti. La notizia […] non è stata riportata né dal portale Dobojski info né dall’agenzia di stampa Srna, proseguendo così nella tendenza a emarginare e disprezzare uno dei migliori autori della letteratura bosniaco-erzegovese…”. (Nemmeno Radio Slobodna Evropa, su cui nel periodo 1999-2002 Bato aveva pubblicato oltre duecento editoriali, ha dato spazio alla notizia della sua scomparsa.)
Ci conoscemmo all’inizio degli anni Ottanta quando Bato, insieme ad un gruppo di collaboratori, diede vita alla rivista Značenja [Significati]. Gli telefonai, proponendogli una collaborazione. Mi sembra di sentire ancora la sua voce affabile: “Sì, certo”. In quegli anni, ogni volta che andavo da Maglaj a Doboj – e soprattutto quando mi recavo nella biblioteca a cui Bato, in veste di direttore, diede un enorme contributo, anche sul piano dell’interazione informale tra lettori, scrittori e libri – per me era una festa. In Bosnia però le feste, come anche “le cronache dei tempi felici” (Andrić), durano poco.
L’ultima volta che incontrai Bato prima della nostra “famosa” guerra fu in occasione del convegno inaugurale del Circolo degli intellettuali di Doboj, svoltosi una sera di febbraio del 1992. Fu Bato a tenere la relazione introduttiva. Tornai a Maglaj percorrendo una strada paurosamente deserta, eppure mi sentivo travolto dalla sensazione che in Bosnia l’intelligenza e l’energia positiva non fossero ancora del tutto scomparse.
Ci incontrammo nuovamente dopo lunghi anni di guerra e del dopoguerra, nel corso dei quali ci interessavamo ognuno della sorte dell’altro. Quando finalmente ci ritrovammo – l’equivalente bosniaco del duo Stanley e Livingstone? – nel suo appartamento a Doboj, Bato mi regalò due romanzi. Uno di Bellow e l’atro di Duras, edizioni ‘Svjetlost’ [Luce] – che sta svanendo, anche letteralmente – in tutto: due marchi il prezzo di copertina… "Qui alcuni scrittori mondiali oggi valgono anche mezzo marco…”. Nemmeno l’orrore della guerra era riuscito a prosciugare il pozzo della sua ironia, tanto che aveva intitolato uno dei suoi saggi scritti dopo la guerra “La libertà saprà piangere?” (e non “cantare”, come scriveva il poeta Branko Miljković).
Come presentare un opus letterario così raffinato e interessante come quello di Bato con un semplice articolo commemorativo? È più facile constatare che dal 1992 viveva una vita da estraneo, esule nella propria città. Bato non si era arreso nemmeno quando si era ritrovato ad essere una delle pochissime menti pensanti a Doboj e nell’intera Republika Srpska. No, non era un semplice osservatore della provincializzazione “democratica” della storia e della revisione della memoria. Una volta, nel suo appartamento di Doboj, mi disse che, in realtà, lui in quel luogo non esisteva nemmeno. All’epoca fu pubblicata una monografia della poesia contemporanea della Republika Srpska intitolata Nasukani na list lirike [Incagliati nei fogli di poesia]. “Non ci sono nemmeno tra gli incagliati, figuriamoci tra i non-incagliati”. In quell’occasione Bato mi regalò una raccolta delle sue poesie dal titolo Evropa za uspomenu [L’Europa, in memoria]. Persino la poesia Quo vadis Domine, pubblicata all’interno di suddetta raccolta, è quasi sconosciuta, eppure merita di essere inclusa in un’antologia della poesia europea del Novecento.
E così… dal 18 ottobre 2021 Doboj è più povera di un volto umano onesto. Non credo che a Doboj né da qualche altra parte a Bato verrà intitolata una strada. Non è tempo per i maestri del racconto breve . Ovunque si guardi, si percepisce la tendenza a dimenticare, lentamente ma inesorabilmente, cosa significasse poter accompagnare il caffè della domenica mattina con la lettura di brevi racconti nei giornali, così da ripulire la mente dalle scorie accumulatesi nel tempo.
Quando inviai una manciata di poesie di Bato, tradotte in italiano da Alice Parmeggiani, al mio amico Julio Monteiro Martins (1955-2014) – scrittore brasiliano che viveva a Lucca, direttore dell’irripetibile, ormai mitica rivista Sagarana – egli rimase sconcertato non solo dallo stato di salute della cultura nella regione post-jugoslava, ma anche dalla perdurante incapacità dell’Europa di valorizzare le proprie periferie e gli artisti autentici che le animano. In una lettera inviatami dal mio caro amico, scrittore veronese Italo Bosetto (1944-2022), sembrano risuonare le parole di Julio. Ma perché rispolverare temi cupamente grotteschi? Nello specifico, quello del nazionalismo che alimenta l’oblio.
Volendo comunque gettare uno sguardo sull’epoca in cui le Parche del nazionalismo da tempo ormai tessono le tele dell’oblio, ci possono essere d’aiuto i seguenti versi tratti dalla Poesia patriottica di Bato:
Questa è, quindi, la città da cui mi alzerò/ verso la verità/ lasciando il corpo devoto sotto la pietra/ e il mondo ameno in uno stato peggiore di come/ l’ho trovato/ quel giorno in cui sono arrivato sull’alto monte/ sopra il mare
Leggo nuovamente il Biografikon [1] di Bato, un libro di ricordi di uno scrittore che è sempre stato, e rimarrà la voce della coscienza – una coscienza intellettuale e letteraria indipendente – davanti al Male. In quest’opera la storia si specchia in se stessa, ma sempre attraverso i volti e i destini umani. Credo che Bato abbia scritto Biografikon in nome del Bene, della Bellezza e della resistenza all’Oblio, stando sempre dalla parte di chi subisce la Storia. Mi sembra di udire la sua voce che, emanando dal candore in fondo all’ultima pagina, cita la riflessione di Mallarmé su un mondo che esiste solo per finire in un libro.
Il Biografikon solo apparentemente è caratterizzato dal colore locale delle Bocche di Cattaro, terra natia dell’autore, di Doboj, della Bosnia di ieri e di oggi, della Jugoslavia. Non siamo di fronte ad un libro che parla esclusivamente del suo autore. Chiamo in causa Selimović che nei suoi Ricordi, travolto da un profondo conflitto con se stesso e con la Storia, scriveva: “L’io da solo non basta”. In questa riflessione di Meša intravedo uno dei principali motivi che portarono alla nascita del Biografikon.
Ad un certo punto mi è sembrato che le mie numerose annotazioni a margine delle pagine del Biografikon si stessero addensando, trasformandosi in un breve riassunto di questo libro-nave che l’autore ha costruito non solo per se stesso, ma anche per tanti altri viaggiatori che sono saliti sulla sua imbarcazione in vari porti del Tempo e della Storia. Certo, l’ha costruita anche per portare il peso che si accumula durante il viaggio e i sogni fatti a occhi aperti da cui non si può fuggire. In parole povere, la barca di Bato non trasporta viaggiatori ordinari, né tanto meno solca acque quiete e immobili.
Ora lascio la parola a Bato, scrittore e poeta, che è molto più letto e apprezzato nella cosiddetta diaspora bosniaca. Quindi, in una Bosnia sparsa ai quattro angoli della terra. Ho scelto i frammenti che pensavo potessero essere interessanti per i lettori italiani.
Frammenti tratti dal Biografikon
La favolosa bellezza del golfo, il mare e i ripidi monti circostanti, il sole, le nuvole e i gabbiani… ci persuasero facilmente che questo mondo fosse benevolo verso di noi, se non addirittura lieto della nostra presenza. Ben presto però capimmo che nella storia di queste terre non c’era alcun nascondiglio sicuro dove trascorrere, sognando indisturbati, la propria vita. Lasciando dietro di sé le gioie e i giochi fanciulleschi, stavamo entrando direttamente nella storia. Stava iniziando la Seconda guerra mondiale. […] Nel mare – le navi da battaglia italiane, e sulla stretta strada lungo la costa – le colonne di camion militari.
Un giorno nostro padre venne arrestato. […] Prendevano in ostaggio gli abitanti del posto per averne sempre a disposizione almeno una decina da fucilare per ogni soldato italiano morto.
La prigione fu allestita nella più grande aula della vecchia scuola, dove successivamente anch’io, da alunno, trascorsi un anno. Ai detenuti non veniva dato nulla da mangiare, il cibo lo dovevamo portare noi. I paesani si dimostrarono solidali, così mia madre portò a casa una manciata di fagioli e un pezzo di baccalà essiccato, cucinandoli poi in una piccola pentola che io portai in prigione. Quei fagioli col baccalà erano talmente profumati da farmi venire voglia di essere anch’io rinchiuso in prigione, ed è per questo che quando poi mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo sempre che sarei diventato un prigioniero. In fila insieme a me e agli altri che aspettavano per consegnare il cibo ai guardiani c’era anche la giovane signora Dora, sempre elegante, il cui marito era tra gli ostaggi imprigionati. Teneva tra le mani un grande mazzo di rose rosse. Quando il guardiano le disse che suo marito non aveva bisogno di rose, bensì di cibo, lei replicò con tono tagliente, affermando di sapere perfettamente di cosa aveva bisogno e cosa amava di più suo marito.
Questi sono i miei primi ricordi della storia, nella quale entrammo faticosamente con fagioli e rose e dalla quale a tutt’oggi non siamo ancora riusciti ad uscire.
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Era il 1942. Quindi, avevo sei anni. I bambini iniziavano la scuola a sette anni, ma io fui costretto a iniziare in anticipo. Per un motivo, si direbbe oggi, molto banale. A scuola ai bambini veniva dato anche da mangiare, un pasto. Un vero e proprio pranzo al termine delle lezioni. Che sopravvivano almeno i bambini, dicevano gli adulti.
Le lezioni, come tutto il resto, si svolgevano in italiano. La nostra lingua fu vietata. L’Italia, lo venni a sapere in seguito, aveva annesso le Bocche, le aveva occupate. Tutti gli ufficiali, gli insegnati, i medici… erano italiani. La nostra gente poteva solo lavare le uniformi del loro esercito o “spaccare pietre” lungo la strada, e lo faceva per amore o per forza, il più delle volte per forza. E loro, gli italiani, non si erano sforzati nemmeno di imparare a dire “hvala” [grazie in serbo-croato]. Visto che non conoscevano una sola parola della nostra lingua, un certo Jerko, che vendeva i giornali, anziché Popolo d’Italia, urlava “Propala Italija” [che l’Italia fallisca], fino a quando qualcuno non aveva “spifferato” sul suo conto, e poi non c’era più nessuno a vendere i giornali. Intanto noi cantavamo a squarciagola: Italia terra mia… Tutti imparammo l’italiano molto velocemente, poi, dopo la liberazione, lo dimenticammo ancora più velocemente.
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Sì, nostro padre diceva che fui io a farlo uscire da quella prigione di Risan. Anche qui, a Perast, se ne parlava. Ma di fronte alla mia curiosità, perché volevo sapere cosa significasse quella frase, le porte si chiudevano e ogni conversazione cessava. Ed ecco che, solo ora, dopo quasi sette decenni, sfogliando alcuni scritti e lettere di mio padre, il segreto mi si rivela spontaneamente.
Un certo Gajo Radović, che prima della guerra era capitano marittimo, per poi diventare un autorevole collaboratore degli italiani, anche molto influente, si recò in quella prigione e, con voce severa, disse a mio padre di uscire. Mio padre pensò che stesse per essere fucilato. Ma una volta usciti, il capitano gli raccontò una storia insolita. Suo figlio, mio coetaneo e compagno di giochi, ogni giorno gli chiedeva: “Perché il papà di Bato è in prigione?”. La sera precedente, raccontava il capitano, entrambi i suoi figli, piangendo, lo pregarono di liberare mio padre. Il capitano cercò di schivare la richiesta, spiegando che era irrealizzabile, ma i bambini insistevano talmente tanto che alla fine fu costretto a promettere loro che avrebbe fatto quello che gli chiedevano. “Ora scappa, cavatela come puoi. Ci siamo già allontanati abbastanza dalle guardie. Nasconditi per un po’ da qualche parte per evitare di attirare quotidianamente gli sguardi della gente. Io potrei trovarmi nei guai, ma non mi importa, lo faccio per i miei figli”.
Ecco perché quella volta mio padre stava davanti alla nostra porta con quell’aria tentennante, dicendo che fui io a salvarlo.
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Anche a me, mentre annotavo questi dettagli della mia infanzia, veniva spontanea la domanda: cosa esattamente sto facendo? È un elenco di sciagure e difficoltà che ho dovuto affrontare prima di arrivare ad essere ciò che sono oggi? La mia infanzia era davvero talmente dolorosa? Assolutamente no. Ne sono certo. Era bella, densa di significati, impregnata di valori incommensurabili, sconfinata, vera, positiva… Perché le gioie maggiori si celano dietro alle grandi tristezze.
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L’infanzia è il primo sguardo. Credo anche il più importante. Uno sguardo che abbraccia il mondo intero. Un’esperienza che capita una volta sola. Poi per tutta la vita ricordiamo quello che abbiamo visto.
Oggi non posso che osservare i miei amici dell’adolescenza come solitamente si fa, da sinistra a destra, e suddividerli tra quelli che stanno in piedi e quelli in prima fila, perché da parecchio tempo ormai non ci sono più nella mia vita. Siamo insieme solo in questa fotografia del 1951.
Non voglio citare i loro nomi, perché i nomi rivelano il segreto dell’appartenenza nazionale, oggi diventato fatale, mentre a quel tempo non ci dividevano in quel modo. Ci distinguevamo tra chi era migliore amico, chi era più veloce ad attraversare a nuoto il fiume Bosna, chi era più bravo a giocare a calcio… Cito solo il nome di un cane bianco, perché questi animali nobili mostrano un grado di tolleranza molto più elevato. Si chiamava Lord. E si comportava come se lo fosse. La fotografia ritrae “il club di calcio” di Novi stanovi e fu scattata subito dopo la grande vittoria di questa squadra contro quella di Donja mahala [2] per 16-15. All’epoca la durata di una partita non veniva calcolata in minuti, bensì utilizzando come parametro il numero di gol segnati, quindi ciascun tempo durava finché una squadra non segnava otto gol. […] Mi dispiace che nella foto non ci siano anche altri ragazzi di Novi stanovi, ma anche quelle persone per le quali ci sforzavamo di vincere. Alcuni di loro, ho sentito dire, sono stati raggiunti da granate, come ad esempio Zumko, addirittura a Mostar. Quanto al pubblico, è rimasto solo quel bambino, il più piccolo di tutti, che oggi, dicono, porta una lunga barba in un’altra città. Tra le persone che compaiono nella foto, a Doboj non c’è più quasi nessuno. Oltre al sottoscritto, c’è solo uno di quelli in prima fila. Siamo rimasti solo noi due a errare in giro. Di tanto in tanto ci incrociamo, solitamente proprio in quel luogo dove fu scattata quella foto. Molti se ne sono andati, molti sono stati cacciati via. Credo che ognuno di loro abbia portato dentro di sé quell’immagine. Perché eravamo veri amici. […] Non so però se fossimo tanto amici anche nel 1992 quando ci colpì quella tragedia. Non lo so. Eravamo più vecchi e, di conseguenza, più cauti e più intelligenti, quindi anche più vigliacchi. […] Com’è possibile che abbiamo cacciato via gli uni gli altri da queste terre? Che abbiamo sparato gli uni contro gli altri? Credo però che non lo abbia fatto nessuno di quelli che compaiono nella foto. A volte penso che quei fatti non siano realmente accaduti, che sia accaduto qualcos’altro, qualcosa di cui non siamo consapevoli. […] Eppure, quell’immagine è una testimonianza che parla non solo di noi, ma anche di come un giorno, forse non troppo lontano, qui cresceranno nuovi buoni amici, uniti nelle differenze nazionali, religiose e politiche, più coraggiosi e migliori di noi.
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Quella della Doboj dell’immediato secondo dopoguerra è un’immagine oggi difficilmente concepibile. Tremila o quattromila abitanti assai affamati e intirizziti. Il centro del mondo – la vecchia stazione ferroviaria accanto alla quale, lungo uno stretto binario, il ćiro [3] passava, rimbombando, nel suo viaggio verso Brod, Sarajevo o Teslić. Intorno alla stazione le vestigia dell’ex albergo “Griz” e di una vecchia vita in tempo di pace, ormai finita. Le strade infangate o polverose. La gente malvestita, con qualche dettaglio sugli abiti risalente ad un lontano passato, e una moltitudine di giovani in uniforme partigiana, con stella rossa sul cappello, mentre le baracche, sparse tutt’intorno alla città, ospitavano le giovani brigate piene di brio che costruivano una nuova grande ferrovia, a scartamento più largo, tra Sarajevo e Šamac, e poi anche tra Doboj e Banjaluka.
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In mezzo a tutto questo – il Ginnasio. Sul grande edificio, che un tempo ospitava la Scuola laica, campeggiava la scritta a grandi caratteri in alfabeto cirillico e in quello latino: Ginnasio reale statale. L’unico nell’intera contea.
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Naturalmente, nascevano anche gli amori, ma erano, mi pare, più ricchi di spirito, poesia e sogni. La mattina entri nell’aula della classe ottava [4] in cui il pomeriggio del giorno precedente c’era, ad esempio, la classe quinta, e trovi un bigliettino, fissato sotto al banco, che recita: “Stasera alle diciotto meno cinque sarò davanti al cinema”. A quell’ora passi davanti al cinema e ti trovi avvolto dal bagliore di un sorriso caloroso, affettuoso e solare. Ricambi il sorriso e, ovviamente, continui a camminare, perché sarebbe inaccettabile se qualcuno, soprattutto qualche professore, ti vedesse in simile compagnia. E il giorno dopo, un altro bigliettino: “È stato un incontro meraviglioso. Lo ricorderò per tutta la vita”. Per puro caso mi si è presentata l’occasione di chiedere a una signora ormai di una certa età se ricordasse quegli incontri. “Oh, come potrei non ricordarli. Non avevo forse detto che li avrei ricordati per tutta la vita”.
Man mano che il Ginnasio di Doboj cresceva, cambiava anche la città e l’intera area della valle della Bosna, il nostro fiume, a cui eravamo legati da un affettuoso sodalizio, protrattosi per molte estati. Alla Bosna dedicavamo anche versi, scrivendoli sul sottobanco, tanto non era vietato farlo.
…
Trascorreremo qui la notte
dissi al fiume
che se ne stava già andando
Recitava così una mia poesia. E quel fiume, la Bosna, se ne sta ancora andando e non riesce proprio ad andarsene, come anche le persone che passano da queste parti. Pian piano iniziano a dispiegarsi anche le ombre di quelli che un tempo vi passavano. Quella là è l’ombra del vecchio Igor Meljnicki con il suo violino, custodito in un logoro astuccio nero, che aveva portato con sé lasciando la Russia zarista. A scuola insegna la lingua russa perché è russo, la ginnastica perché è un ufficiale dell’esercito zarista e la musica perché, oltre a possedere una formazione musicale, è anche talentuoso. È solito accordare il suo violino senza ricorrere all’aiuto di altri strumenti, affidandosi esclusivamente al proprio orecchio, poi il suono del suo violino viene utilizzato come punto di riferimento per accordare gli altri strumenti nella città.
Ecco che là, vicino all’ex centrale elettrica (l’attuale Biblioteca), incontra il dottor Iznudin Džananović, quel signore sempre elegante e silenzioso che si atteggia e si comporta come se fosse ancora a Vienna, dove ha studiato. Si incrociano scambiandosi un saluto riverente e leggiadro, e io penso: quante culture si incontrano ai piedi di questa antica fortezza. Igor si affretta a rientrare a casa per aiutare sua moglie Klavdija, che entro la mattina, su un supporto fatto di fogli di carta da imballo collegati tra loro con un impasto di acqua e farina, deve disegnare i ritratti di Lenin e Tito, grandi quanto la porta d’ingresso, che poi verranno esposti nella grande sala della Casa della ginnastica in occasione di un’importante conferenza. E penso: quante politiche si incontrano ai piedi di questa fortezza, dove gli emigrati russi bianchi, disegnano Lenin.
La sera sta già calando sul ciottolato di Doboj e il vecchio Štraus, ingegnere edile, cammina in fretta piegato su se stesso. Nella città si sta costruendo dappertutto, per cui la sua giornata lavorativa dura dalla mattina alla sera. Si affretta perché a casa lo aspettano la moglie Mažana, con le figlie Zdenka e Alica, e un pasto caldo, una cena che supplisce anche al pranzo saltato. Dopo una giornata faticosa deve però fermarsi nella Città vecchia per bere, di corsa, due bicchierini di grappa. So che Salih dall’altra parte del banco gli offrirà un altro bicchierino, così come so che il signor Štraus non dirà di no.
Sta già scendendo la notte, annunciata dalle campane della chiesa. Laggiù, lontano, dall’altra parte della Bosna, una moltitudine di luci insolite continua a tremolare, e di tanto in tanto si sente il rimbombare cupo degli ordigni e delle pietre che cadono. Si sta costruendo la nuova grande ferrovia per Tuzla.
[1] La pubblicazione di questo libro è frutto dell’impegno della moglie di Pavle, Milena, dei loro figli, Slobodan e Maja, ed anche di Ɖorđo Vasić, traduttore dal tedesco e autore di brevi racconti che ormai da tempo vive a Toronto. [2] Novi stanovi e Donja mahala sono due quartieri della città di Doboj. [3] Termine colloquiale per indicare il treno a vapore che viaggiava sui binari a scartamento ridotto costruiti durante il periodo austro-ungarico. [4] In ex Jugoslavia il primo ciclo di istruzione era costituito dalla scuola primaria della durata di otto anni.
Pavle Stanišić
Pavle Stanišić (Crkvice, Bocche di Cattaro, 1936 – Doboj, 2021), scrittore e giornalista, ideatore di molte manifestazioni e istituzioni culturali a Doboj dove ha trascorso quasi tutta la sua vita. È stato corrispondente di Radio Sarajevo, redattore di Glas komuna, uno dei fondatori del Circolo degli scrittori “Ivo Andrić” a Doboj, e dopo la guerra anche fondatore e redattore della rivista Alternativa. È stato insignito di numerosi premi letterari per racconti brevi (Oslobođenje, Politika, Dnevnik, Cetinjski list, Front slobode, Glas Srpske). Ha pubblicato prose Pahuljice i ludaci [Fiocchi e folli, 1980], Vjekovo, grad u Dardaniji [Vjekovo, città della Dardania, 1997], Plavi putevi [Le strade azzurre, 2006], Mladić iz “Kaprija” [Il giovane di Capri, 2007], Biografikon (pubblicato postumo nel 2022); raccolte di poesie Pjesma o spasenju [Poesia sulla salvezza, 1985], Večernja načela [Princìpi serali, 1987], Evropa za uspomenu [L’Europa, in memoria, 2007], Preživjele riječi [Le parole sopravvissute, 2008], Teutino blago [Il tesoro di Teuta, 2009], Zvijezda nad ponorom [La stella sopra l’abisso, 2020], nonché un dramma intitolato Vila “Bosna” (2007). I suoi racconti e poesie sono stati tradotti in italiano (riviste Sagarana e Smerilliana) e in sloveno (rivista Locutio).