Il Balkan psichedelico di Kottarashky

Un artista distante dalle mode e dai dettami del music business, che se fosse nato a Londra o New York sarebbe già un colosso. Kottarashky, e la sua voglia di creare qualcosa di nuovo

04/05/2015, Gianluca Grossi -

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Kottarashky

Kottarashky è il nome d’arte. Il "ragazzo" (4 settembre 1979) nasce Nikola Gruev in Bulgaria e rappresenta una delle più interessanti e intriganti novità per ciò che riguarda il panorama musicale avanguardistico che fa capo a Sofia. La sua musica è impossibile da etichettare, mischiando molti generi: hip hop, jazz, elettronica, balkan, digital, tribal, dub, minimal… E’ lui stesso a tagliare la testa al toro e a definirla come "balkan psychedelic music". Non cambia molto per chi non mastica musica tutti i giorni, ma almeno c’è la confortevole consapevolezza di avere a che fare con un artista puro, distante dalle mode e dai dettami del music business, fedele al proprio desiderio di esprimersi in modo originale e all’innata voglia di creare qualcosa di assolutamente nuovo.

E le parole? Le parole ci sono e non ci sono, spesso sono mugugni, sbotti laringei, borbottii. E’ un lavoro che ha anche un valore etnologico e antropologico, laddove emerge la voce originale di qualche vecchietto della Bulgaria o il suono di uno strumento tradizionale, registrati dall’artista stesso e poi sapientemente mixati con il resto.

Ma è la musica a colpire prima di tutto: molta elettronica, percussioni, ritmi incalzanti, un perfetto equilibrio fra i suoni e gli arrangiamenti sempre precisi ed equilibrati. Qualcuno l’ha paragonato ad Amon Tobin, artista di Rio de Janeiro (1972), anch’egli abituato a "colorare" a modo suo i pentagrammi con campionamenti jazz e pennellate di musica dub e traditional samba; fedele alle atmosfere suscitate dall’ascolto di storiche colonne sonore come quelle dei film di Dario Argento (ce li ricordiamo i Globlin?) e Roman Polanski. Al primo ascolto potrebbe fare storcere il naso a qualcuno, specialmente agli amanti della musica tradizionale, ma poi diviene impossibile non rimanere incantati dalla sua strabordante creatività.

Lo tengono a battesimo quelli che ormai potremmo definire degli "amici", visti i numerosi prodotti che continuano a proporre e che quasi sempre sposano i gusti di OBC: i tipi di Asphalt Tango. Di loro abbiamo già trattato Oana Cătălina, Fanfare Ciocărlia, Çiğdem Aslan. E oggi è dunque la volta del trentaseienne bulgaro (mentre nei prossimi mesi parleremo dei fenomenali Zdob si Zdub).

Il percorso

Il ragazzo si avvicina alla musica fin da piccino, facilitato dall’ambiente familiare da sempre devoto al culto delle sette note. Sperimenta nella sua cameretta, qualche volta in compagnia di qualche amico di scuola. Si iscrive ad architettura e si laurea nel 2003. Inizia a lavorare come architetto, ma la musica batte cassa. Dedica sempre più tempo alla sperimentazione digitale finché non decide di diventare un musicista tutto tondo, sostenendosi con l’attività di architetto freelance.

Mette le prime composizioni online, dove vengono notate dall’orecchio fino di Henry Ernst, fondatore della label berlinese. Si sentono e, in breve, Gruev firma il suo primo contratto discografico. Cambia il nome quasi subito, d’ora in poi sarà Kottarashky, corrispettivo bulgaro di tomcat (i gatti, che circondano l’immaginario dell’artista, a partire dalle copertine).

Il debutto ufficiale avviene nel 2009. La label berlinese dà alle stampe Opa Hey. L’ascolto è altamente consigliato. Al di là delle preferenze musicali, si ha oggettivamente a che fare con un musicista che ha un mucchio di cose da dire e che se provenisse dall’Inghilterra o dagli Usa sarebbe già un colosso. Nato a Sofia, non è così, ma oggi grazie a internet non è detto che anche qualche europeo di confine possa un giorno dire la sua a livello internazionale. Tempo fa parlammo per esempio di Kink, gigante della techno house non solo made in Bulgaria.

Opa Hey

Il disco di esordio si apre con il violino di "Chetiri" e prosegue con la title track "Opa Hey!", ritmo cadenzato che rimanda alla musica tipicamente orientale, con la fisarmonica in primo piano. Altri pezzi interessanti sono "Mandra", con dispiego generoso di strumenti a corde e con un cantato suadente e irresistibile, che i più fantasiosi potrebbero associare al richiamo di una sirena dell’Egeo! Ci sono poi "September", che inizia come una suite per pianoforte, e "I want you to sleep", di nuovo un bell’esercizio di east sound.

Il disco è accettato favorevolmente da critica e pubblico. Si scomodano rinomati critici musicali, come Tim Cumming dell’Indipendent e Robin Denselow del Guardian. Per entrambi è un esordio coi fiocchi, da seguire con attenzione. Guadagna posizioni nelle classifiche musicali europee legate alla world music, e alcuni brani vengono riproposti in compilation americane e inglesi. C’è un solo problema: i live. Kottarashky fa, infatti, tutto da solo, ma se vuole portare in giro i suoi pezzi ha bisogno di una band. La trova centellinando alcuni bravi musicisti che gli ruotano intorno da una vita: Hristo Hadchiganchev (chitarra), Alexandar Dobrev (clarinetto), Yordan Geshakov (contrabbasso), Atanas Popov (batteria). La band viene battezzata The Rain Dogs (questa volta i cani, ma non deve essere un caso). Così parte l’avventura dell’ensemble in giro per l’Europa, a partire dalla terra natia e dalla sempre verde realtà musicale dei Paesi Bassi, sensibile a tutte le nuove tendenze (qui un bellissimo esempio).

Rimandi blues

La seconda e per ora ultima puntata musicale della band è del 2012, un lavoro meno diretto del primo ma altrettanto interessante, con rimandi addirittura al blues. Il nuovo disco si intitola Demoni. Il lavoro è preceduto dal primo video del gruppo, intitolato come il nome dell’album. E’ girato da Theodore Ushev, geniale artista multimediale, nato in Bulgaria, e ora attivo a Montreal in Canada, già collaboratore di star internazionali come David Gilmour dei Pink Floyd.

Si apre con un vecchio giradischi e col ritmo spumeggiante di un pezzo in minore, sincopato e coinvolgente. La voce blatera frasi sconnesse mentre il vinile immortalato nel video si trasforma in un mondo surreale popolato da esseri misteriosi e spettrali. In realtà non è un solo vinile, ma cinquanta, ognuno dei quali "ricamati" da talentuose e sofisticate pennellate a olio. Il potere dello zootropio, provare per credere.

A una traccia partecipa Tui Mamaki (1980), membro di un gruppo neozelandese figlia di trovatori francesi, a suo agio con stili fra loro lontanissimi, come la chanson d’oltralpe, il dub, la world music, l’elettronica. Ha incontrato Kottarashky e si è innamorata del suo paese di origine. Il resto è venuto da sé. Anche il brano scelto: "Begemot" (altro gatto). Il nome è stato preso da un "vero" demone, quello di Michail Bulgakov, nel romanzo Il Maestro e Margherita. Il disco si apre con il reggae di "Aman Aman", brano eccitante e facilissimo da memorizzare (qui dal vivo). Anche in questo caso il cd fa centro, entusiasmando critica e pubblico. In attesa della terza difficilissima prova.

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